Tra il 1915 ed il 1918 Biella, come buona parte delle città italiane, conobbe tutta una serie di problemi legati alla distribuzione, alla vendita e al disciplinamento del consumo dei generi alimentari. A guerra finita, nonostante l’avviato ripristino di approvvigionamenti regolari, la situazione avrebbe continuato poi a mantenersi delicata a causa del diffondersi di un notevole fenomeno inflativo. Nel corso di questi quattro anni, con qualche avvisaglia prima ed alcuni strascichi dopo, si consumò la difficile scelta della classe dirigente di rinunciare ad una buona parte dei capisaldi della dottrina liberistica che per decenni aveva informato, o per lo meno ispirato, la politica economica italiana, dando la preferenza viceversa a un controllo diretto dello Stato su tutto il settore. Non fu un processo rapido, né sempre sistematico né tanto meno indolore, tanto da produrre, al contrario, conseguenze sociali di vasta scala non soltanto sul piano materiale, ma anche su quello psicologico e quello relazionale[1]. Non si trattò neppure di un problema esclusivamente italiano: allo scoppio della guerra nessun paese europeo aveva provveduto ad elaborare programmi realistici per soddisfare i problemi legati ai consumi alimentari dell’esercito e della popolazione civile[2]. Di fatto la mancata lungimiranza in un settore chiave come quello annonario, partecipando dell’idea generale che il conflitto in procinto di deflagrare sul continente sarebbe stato di breve durata (non una previsione bensì una certezza generale, condivisa da governi e da stati maggiori, da ambienti economici e apparati diplomatici[3]), avrebbe causato in poco tempo una drastica riduzione della disponibilità di beni anche di prima necessità. Per un paese come l’Italia, già caratterizzato da un tenore di vita piuttosto basso, le riduzioni sarebbero state particolarmente penose, arrivando a colpire, in primo luogo, le fasce più deboli ed esposte di una società legata tuttora ai fragili equilibri di un sistema economico solo in parte avviato sulla strada dell’industrializzazione e della modernizzazione. Durante la guerra perciò, quasi inevitabilmente, si sarebbero fatte più marcate le sacche dell’indigenza, assottigliandosi al contempo le possibilità di lavoro ed ingigantendosi, all’inverso, tutte le occasioni di contravvenire alle disposizioni annonarie. Di qui la lunga scia dei moti di protesta che caratterizzarono la reazione delle popolazioni di fronte al peggioramento delle condizioni alimentari, ai fenomeni di rincaro e di penuria di alimenti, e che testimoniano la continuità di quella che è stata definita, per le società di ancien régime, come una forma di economia morale, della quale, per una persistente visione contrattualistica del rapporto fra il corpo sociale e le istituzioni, lo Stato avrebbe dovuto farsi garante e la cui violazione avrebbe in qualche modo reso lecito il ricorso alla violenza[4].

I problemi in materia di politiche annonarie che si sarebbero manifestati nel corso del conflitto gettavano le loro radici nella difficoltosa gestione del settore alimentare emersa negli anni precedenti. Nell’area piemontese l’età giolittiana aveva osservato una ripresa parziale dei consumi tradizionali, con un discreto aumento della quota procapite di grano. Si era trattato nondimeno di una espansione lieve, rimarcabile più in ambito urbano che nelle campagne, dove, di fatto, l’80 per cento della popolazione in pratica non consumava carne. A questo breve periodo di crescita, inoltre, aveva quasi subito fatto seguito una fase di rallentamento, se non di vera e propria stasi dei consumi. Del resto, il progresso era stato più apparente che sostanziale: a Torino, se proviamo a comparare i consumi di vino, di carne e di zucchero tra il 1860 ed il 1910, notiamo un aumento considerevole soltanto per quanto riguarda il vino (169 litri procapite nel 1910, + 33 %), mentre la quota della carne era rimasta stazionaria (65 chili) e quella dello zucchero aveva registrato addirittura un calo (19,4 chilogrammi, – 11 %)[5]. Il consumo del pesce si aggirava sui 5 chili, caffè e burro rispettivamente 3,6 e 7,7. Nel 1911 ad Asti si consumavano 39,7 chilogrammi di carne bovina, 13,7 di carne suina, 4,4 di pesce, 4,2 di burro Nel 1910, invece, a Cuneo ogni abitante consumava all’incirca 42,7 chilogrammi di carne bovina, 8,1 di carne suina, 3,9 di pesce, 3,4 di burro, 17,3 di zucchero, bevendo inoltre 107 litri di vino. La comparazione, di per sé, non basta a comprendere, però offre gli elementi necessari per una analisi più articolata[6]: in generale, così, possiamo affermare che, tranne che per il caffè, i consumi delle città piemontesi furono in quegli anni ampiamente al di sotto della media nazionale[7].

Se da queste località ci spostiamo in un’area geografica più periferica come il Biellese, che pure all’inizio del secolo aveva conosciuto ancora un periodo di relativa crescita manifatturiera[8], e ad un nucleo urbano di più ridotte dimensioni come quello di Biella, notiamo come la situazione non fosse migliore. Il circondario, anzi, si presentava come una regione tradizionalmente non autosufficiente dal punto di vista della produzione alimentare. Il comparto agricolo, all’epoca moderatamente sviluppato, forniva frumento, granoturco, segale, patate e vino, ma su piccola scala, a causa della poca vastità del territorio coltivabile e della forte frammentazione della proprietà; anche l’allevamento del bestiame (piuttosto bovino che suino) per lo meno dalla seconda metà dell’800 non permetteva che consumi di carne modesti, così che in definitiva nell’uno come nell’altro settore si doveva supplire alla carenza dei mercati locali con l’importazione delle merci dai centri e dai mercati agricoli più prossimi, specie dal Vercellese, dall’Eporediese e dal Novarese.

Comune aperto[9] fin dal 1827, il capoluogo aveva mantenuto anche il vecchio sistema d’appalto del dazio ad un Consorzio di esercenti che, attraverso il metodo del pagamento del «non riscosso per il riscosso», garantiva regolarità e un certo grado di sicurezza di entrate agli enti pubblici. Ogni esercente poteva entrare a far parte del Consorzio, però a nessuno era tolta l’extrema ratio dello sdaziamento a tariffa (metodo che, attraverso il coinvolgimento diretto della municipalità, avrebbe offerto maggiori garanzie di imparzialità e precisione previsionale del gettito daziario, ma che avrebbe procurato anche spese troppo onerose per l’amministrazione). Il Consorzio degli esercenti si impegnava, per converso, a pagare un canone al Comune, per il quinquennio 1911-1915 ammontante a 200.000 lire. Soltanto il comparto delle carni era condotto a tariffa e con criteri assai scrupolosi (tanto che è il solo settore su cui possiamo essere certi dei dati raccolti a livello statistico, fatte salve le possibili frodi, fattore che ci permette, fra l’altro, di calcolare in una cifra fra le cinque e le otto lire per abitante il provento daziario annuale delle macellerie). Ad ogni modo, le difficoltà di gestione e controllo del sistema daziario non erano mutate in maniera rilevante rispetto alla seconda metà del secolo precedente[10]. Leggiamo in una relazione della Giunta municipale di Biella dell’ottobre del 1910 che

 

L’esezione del dazio nei Comuni aperti […], sempre ed ovunque difficile, […] in Biella [presenta] difficoltà […] assai maggiori che altrove per la vicinanza immediata di importanti Comuni, i cui esercizii soggetti al Dazio fanno una evidente concorrenza. Fra di essi i tre comuni di Chiavazza, di Cossila e Occhieppo Superiore, che sono i più temibili, benché non soli, concorrenti, hanno una popolazione complessiva che oltrepassa la metà del Comune di Biella. [Oltre a ciò] come distanza è da osservare che dal centro del Piazzo al Bottalino, ove sorgono nove fra macelli e trattorie in territorio di Cossila, vi sono 650 metri, e cioè una distanza minore che per venire al centro di Biella, specialmente tenuto conto del dislivello. Dal gruppo di abitazioni operaie presso gli opifici Cappio, Mosca e Ramella ai primi esercizi importanti di Chiavazza corre meno di mezzo chilometro, cioè circa quanto ci vuole per venire in Riva. Dagli opifici Cagliaro e Barberis è indifferente come distanza andare a Occhieppo o venire a Biella; lo stesso dicasi dalla frazione Barazzetto. […] Il sobborgo di Pavignano ha una frazione [a sua volta] vicinissima con esercizi di Chiavazza[11].

 

Si tratta di osservazioni interessanti e da tenere presenti soprattutto in vista della situazione di attrito che sarebbe venuta a crearsi, nel corso della guerra mondiale, fra la municipalità di Biella e le amministrazioni di alcuni comuni del mandamento, non sempre disposte ad instaurare un rapporto di fattiva cooperazione con il capoluogo circondariale e ugualmente restie a riconoscere a questo una posizione di effettiva preminenza nell’ambito delle politiche economiche locali.

Parallelamente a queste incertezze nella struttura del dazio-consumo, oltre che per le già citate carenze produttive (che in ciò giocarono un ruolo non indifferente), il periodo che va dal 1910 al 1914 si contraddistinse per una decisa impennata dei prezzi dei generi commestibili sui mercati di Biella. Tale crescita fu dovuta da un lato all’aumento rilevante dei costi legati al trasporto delle merci e dall’altro alla mancata vigilanza delle istituzioni sull’attività degli esercenti e dei grossisti. Già nel dicembre del 1911, per scongiurare i continui rincari, la Commissione annonaria – da poco istituita – aveva deciso di correre ai ripari con gli strumenti, non moltissimi, consentiti dalla legislazione vigente. Fra le prime proposte dei commissari vi fu quella di stabilire il prezzo generale del pane sulla piazza locale in base al valore della farina nel Torinese: «Avuto per base il prezzo medio ricavato dal bollettino del mercato di Torino di un quintale di farina […] per la confezione del pane comune, si [sarebbero aggiunte due lire] rappresentanti le spese di panificazione, […] e [si sarebbe diviso il totale] per il rendimento ricavato dalla lavorazione […], [e cioè] circa 112 chilogrammi di pane»[12]. Il prezzo così ottenuto avrebbe avuto il vantaggio di seguire con regolarità le fluttuazioni di mercato di una piazza commerciale più monitorata di quella biellese. Nonostante questi tentativi, però, durante il quinquennio 1910-1914 il divario fra i prezzi alla vendita in Biella e quello di altre piazze commerciali non accennò a diminuire in maniera sensibile (si veda la tabella 1). La comparazione più svantaggiosa per i biellesi era sicuramente quella che riguardava la carne: le condizioni del mercato nel comune di Biella, in particolare di quello bovino, a detta degli studiosi del settore, avrebbero potuto garantire dei guadagni soddisfacenti quand’anche i prezzi alla vendita fossero stati diminuiti di circa il 20 per cento rispetto a quelli correnti. Al contrario, macellai e commercianti, si ripeteva, «avevano potuto realizzare facili e comodi guadagni all’ombra di un’opinione pubblica male illuminata sulla reale condizione del commercio dei carnami»[13], con la conseguenza che le tariffe imposte nel capoluogo erano di gran lunga superiori a quelle del circondario e di altre città della provincia, come Vercelli e Novara (tabella 2).

 

Tabella 1. Confronto fra i prezzi dei più comuni generi alimentari a Biella, Novara e Torino (1912)

 

  Biella Novara Torino
Pane bianco (₤/kg) 0,48 0,42 0,45
Pane di meliga 0,35 0,35
Farina di frumento 0,38 0,45 0,40
Farina di meliga 0,30 0,30
Carne di vacca 1,60 1,40
Carne di vitello 3,00 2,20 1,90/2,00
Carne di bue 2,00 1,00 / 1,90 1,60
Carne suina 2,00 1,95
Salame 4,50 3,50
Burro 3,50 3,50 3,50
Riso di prima qualità 0,60 0,45
Riso comune 0,50 0,38
Fagioli secchi 0,50 0,35
Latte (l) 0,30 0,20
Vino 0,70 0,35
Zucchero (Kg) 1,50 1,50 1,50
Lardo 2,25 2,20
Merluzzo 0,90 0,90
Olio d’oliva 2,50 2,50 2,50

Fonte: ASB, Comune di Biella, serie III, sec. XX, mazzo 3.24.

 

Tabella 2. Prezzi al consumo della carne a Biella e in altre località della provincia (1912)

 

  Biella Cossila Chiavazza Vercelli Novara
Manzo (₤/kg) 1,80 / 2,00 1,50 / 1,70 1,70
Vitello 3,00 1,50 / 1,70 1,50 2,20 2,20
Carne di bue 2,00 1,50 / 1,70 1,50 1,00 / 1,90
Carne di vacca 1,60 1,00 / 1,20 1,20 1,40 1,40

Fonte: ASCB Comune di Biella, serie III, sec. XX, mazzo 3.24.

 

Più contenuto, se non addirittura positivo appariva invece il confronto fra Biella e altre località della regione per quanto riguarda le tariffe daziarie, se si esclude, una volta di più, la carne bovina (cfr. tabella 3). Le imposte erano più equilibrate da un lato perché, malgrado le condizioni apparentemente non floride dei commercianti, il dazio era pagato qui non tanto dai consumatori quanto dagli esercenti stessi, che lo consideravano «come una spesa generale»[14]; dall’altro perché il carovivere sconsigliava alle autorità preposte «una soverchia pressione delle tasse di consumo», tanto più che in passato era avvenuto di sovente l’opposto di quanto ci si era prefissati con interventi drastici e, per esempio, erano «cresciuti i prezzi delle carni e diminuiti quelli delle sostanze alcooliche».

 

Tabella 3. Confronto fra le tariffe del dazio-consumo a Biella, Mongrando, Torino e Cuneo (1912)

 

  Biella Mongrando Torino Cuneo
Vino e aceto* (₤/hl) 6,00 5,25 20,00 6,00
Vinello e posca 3,00 2,62 10,00 3,00
Alcol e acquavite fino a 59° 12,00 12,00 26,00 12,00
Alcol e acquavite sopra ai 59° 18,00 18,00 40,00 18,00
Liquori in bottiglia (cad.) 0,30 0,30 0,70 0,30
Bue, manzo (₤ per capo) 37,50 37,50 9,00 9,95
Vacca, toro 25,50 21,00 9,00 8,00
Vitello 21,00 18,00 13,00 10,80
Cavallo 15,00 12,00 4,00
Maiale 15,00 13,50 12,00 10,80
Maialino da latte 4,50 3,00 5,00
Agnello, capretto 0,35 0,30 0,52 10,80
Pecora, montone 0,35 0,60 5,00 7,00
Macellato fresco (q) 12,00 9,75 24,30 10,80
Carne salata e strutto 25,50 21,00 20,00
Pesce fresco 8,00 40,00 10,00
Pesce salato 4,00 4,00 10,00
Zucchero 2,00 7,50 6,00
Caffé 3,00 10,00 6,00
Formaggi 2,50 15,00 5,00
Birra (hl) 3,00 3,00 5,00

Fonte: ASCB, Comune di Biella, serie III, sec. XX, mazzi 5.52 e 5.53; Comune di Mongrando mazzo 63; dal punto di vista daziario Mongrando, Torino e Cuneo erano ancora comuni chiusi. *La voce aceto comprendeva aceto di vino, di spirito, di birra, di sidro e aceto artificiale. Sulle bevande (tranne la birra) e sulle carni gravavano sia il dazio governativo sia l’addizionale. Sul pesce e sugli altri generi al fondo della colonna soltanto il dazio comunale.

 

Alla vigilia della guerra, in sostanza, la situazione del Biellese era pressappoco identica a quella d’inizio secolo: non vi erano scorte alimentari sufficienti e la produzione agricola e zootecnica era assai limitata. È interessante notare come le autorità preposte al servizio annonario di Biella indicassero il forte fabbisogno di alcolici esser soddisfatto per 1/10 da vino biellese, per 3/10 da vino dei dintorni e per 6/10 da vino prodotto nel Monferrato o nel Meridione. In base a quanto scriveva la Commissione annonaria anche un alimento di largo consumo come le uova era di provenienza solo in parte locale (i piccoli produttori le vendevano sul pubblico mercato il lunedì ed il giovedì), mentre, per lo più, si era soliti acquistarle all’ingrosso dagli esercenti sui mercati di Milano, Torino e Reggio Emilia. Di cereali e di farine si è già parlato, aggiungiamo da ultimo che anche per quanto riguarda la produzione di maiali «essi sempre provenivano in massima parte dalla provincia di Cuneo» e che il riso era d’origine quasi esclusivamente vercellese[15]. Forse proprio per queste ragioni, nondimeno, l’attenzione delle autorità municipali nei confronti del settore annonario si dimostrarono maggiori e maggiormente precoci che altrove. Fino al dicembre del 1914, infatti, buona parte delle città italiane si limitarono ad adeguarsi alle direttive emanate dal governo, cioè ai pochi provvedimenti in materia di approvvigionamenti curati dal Ministero delle Finanze e dal Ministero dell’Agricoltura per l’intero territorio nazionale (venne vietata l’esportazione di una serie di prodotti alimentari fra i più comuni, come i cereali e le rispettive farine, foraggi, animali e carni, non sulla base di studi autonomi bensì sulla traccia di analoghi provvedimenti adottati da altri paesi neutrali o estranei al conflitto)[16]. La Giunta comunale di Torino iniziò ad imporre vincoli restrittivi sui prezzi degli alimentari, all’ingrosso e al minuto, soltanto a conflitto iniziato[17]. Già nell’agosto del 1914, al contrario, con una deliberazione d’urgenza, la Giunta del comune di Biella approvò alcune modifiche del regolamento di polizia urbana aumentandone i poteri di vigilanza in materia annonaria al fine di tutelare l’interesse pubblico in rapporto alla vendita dei generi di prima necessità:

 

a fine di poter regolare il mercato delle merci annonarie con prontezza e colla libertà richieste dalle speciali circostanze, la Giunta con deliberazione d’urgenza, ha allargato convenientemente i suoi poteri mediante opportune modifiche al Regolamento di Polizia Urbana, per modo che essa è in grado di tutelare efficacemente gli interessi supremi del pubblico ed in particolare delle classi operaie, per quanto riguarda la vendita dei principali generi di prima necessità, che per intanto ha subito sottoposta ad equo calmiere […]. In momenti eccezionali, il bene pubblico è insidiato ed anche danneggiato dalle basse azioni di coloro che, senza scrupoli e a scopo di lucro, diffondendo false notizie o travisando le vere, oppure con altri mezzi fraudolenti, producono deficienza o rincaro di derrate alimentari, o aumento nei prezzi delle merci, dei titoli, ecc. Uno dei mezzi fraudolenti consiste nello incettamento delle sostanze alimentari di qualsiasi natura e delle monete […]. La Giunta comunale rivolge un caldo appello alla cittadinanza perché fatti del genere non abbiano a verificarsi nella nostra Città[18].

 

Pur ribadendo il principio della libera vendita dei generi alimentari, la Giunta si attribuì quindi la facoltà di sottoporre a calmiere i prezzi al consumo delle derrate più comuni, con la possibilità di rivederli settimanalmente, tenuto però «calcolo del prezzo corrente dei generi, del costo di produzione compresi i dazi e di un equo guadagno degli esercenti». I primi prodotti calmierati furono il pane, alcuni tipi di farina, lo zucchero, le patate, le paste alimentari, la carne di manzo e quella di vitello. Pochi commercianti, tuttavia, si uniformarono con prontezza alle direttive del bando fatto affiggere dalle autorità[19]. Nello stesso agosto del 1914 «le peggiorate condizioni del mercato granario europeo in causa dello scoppio delle ostilità fra le Potenze produttrici di cereali» avevano indotto le ditte esercenti dei mulini a disdire i contratti per la farina a suo tempo stipulati con i prestinai ed a fissare nuove tariffe, più alte. I proprietari dei forni, a loro volta, si erano poi trovati «nella dura necessità di dover aumentare il prezzo di vendita del pane»; a partire dal giorno 10 agosto il costo dei grissini era salito da 60 a 70 centesimi il chilogrammo, il pane bianco da 42 a 55, il pane di frumento e segale da 38 a 40 e quello di segale e di meliga da 25 a 30[20] (il salario giornaliero di un operaio, per fare un paragone, si aggirava nel primo semestre di quell’anno intorno a una media di 2,70 lire al giorno[21]). Il 10 di ottobre, con un’ulteriore delibera, la Giunta stabilì di calmierare riso, lardo, olii vegetali, strutto, burro, latte e insaccati (a quella data a Vercelli si era vincolato il solo prezzo del pane).

Dopo la scarsità del raccolto del 1914 (12 milioni di quintali in meno rispetto alla produzione dell’anno precedente), nell’inverno fra il 1914 ed il 1915 anche il governo nazionale aveva cominciato a considerare più attentamente la situazione annonaria, in primo luogo quella dell’approvvigionamento frumentario. Col regio decreto del 20 dicembre 1914 il governo diede facoltà alle province e ai comuni capoluogo di circondario di riunirsi in consorzi per l’approvvigionamento e la distribuzione di cereali e farine. Nel gennaio del 1915 venne creato l’Utag (l’Ufficio temporaneo per l’approvvigionamento del grano), e, tra la fine del 1915 ed il 1916, l’azione statale si estese a sempre più ampi settori del mercato con il chiaro proposito di contenere artificialmente i prezzi, a dispetto del parere contrario di molti economisti di vaglia tra cui Bachi, Einaudi e Ricci[22]. Il primo prodotto soggetto a un calmiere nazionale (marzo 1916) fu il frumento. A Biella era stato fatto un censimento delle scorte già a gennaio e sempre nella prima metà del mese erano avvenute le prime requisizioni (tuttavia le riserve erano esigue ed i consumi non indifferenti: nel 1914 la cittadinanza aveva utilizzato 70 quintali di farina al giorno). Al calmiere sul frumento seguirono, a ruota, quelli su granoturco, farina, paste alimentari e zucchero. In aprile si stabilì che il Ministero dell’Agricoltura aveva la facoltà di imporre prezzi massimi di vendita su tutte le merci di comune e largo consumo[23]. La fissazione dei massimi, spesso inferiori ai reali costi di produzione, che da sola avrebbe certo portato alla sparizione delle merci ed all’estendersi del mercato nero (se non addirittura alla contrazione della produzione), venne affiancata dall’obbligo di denuncia, per i produttori, della quantità della merce posseduta, e, in seguito, da una serie di controlli, divieti, sanzioni e requisizioni che, almeno in teoria, avrebbero dovuto colpire gli illeciti, la speculazione e gli accaparramenti, ma che in realtà coprirono principalmente le carenze produttive, i limiti strutturali e gli errori della gestione fino a lì commessi dal governo. A ben vedere, infatti, al fondo di tutta la nuova legislazione annonaria «a favore del consumatore» c’era un grosso limite che ne inficiava sul nascere i possibili effetti, vale a dire la carenza ineliminabile degli approvvigionamenti[24]. Fu per porre rimedio a tale stato di cose che dalla seconda metà del 1916, dando in parte ascolto alle Leghe, alle Cooperative e alle Camere di commercio, il governo avrebbe riconsiderato il problema alimentare nel suo insieme, cercando di articolare strategie di più ampio respiro.

Alla fine del mese di giugno del 1915 giunsero dal fronte le notizie sui primi caduti biellesi[25], mentre qualche ferito cominciava ad esser trasportato allo stabilimento idro-terapico di Andorno, per «respirare aria buona». Venne immediatamente avviata una campagna per il cotone, utilizzato nella fabbricazione degli esplosivi, e per la lana, materia di base per la confezione delle divise dei soldati[26]. Intanto, nondimeno, la Lega degli industriali biellesi paventava qualche preoccupazione per le prime restrizioni alle esportazioni di canapa e di cotone. Timori infondati, dati i lauti guadagni che l’industria locale avrebbe ottenuto proprio grazie alle commesse di guerra[27], ma che per ora destavano malumori.

Tra la fine di gennaio e la prima metà di febbraio del 1916 a Biella si dovette ridurre del 50 per cento l’illuminazione pubblica, scese la produzione industriale di pannilana (causando di conseguenza una flessione dell’indice occupazionale) ed i liquidi (in particolare tutti gli alcolici, il cui consumo era molto elevato) non si potettero più vendere a corpo[28] ma solo a misura, in recipienti bollati e riportanti l’esatta capacità decimale. Era iniziata anche la produzione di una nuovo tipo unico di pane, un poco più nero[29], con un grado di abburattamento al 20 per cento, che obbligava a mescolare alla farina e al farinaccio anche una parte della crusca e del cruschello, risparmiando in questo modo sul frumento utilizzato. Tentativi in tal senso erano iniziati già nell’autunno precedente lo scoppio della guerra: una forma di pane biova denominata “Torino” (dove venne ideata) dal peso approssimativo di 350 grammi e al costo di 40 centesimi al chilo aveva cominciato ad apparire sui mercati del Biellese già in ottobre. Fu però il decreto ministeriale 7 marzo 1915 a rendere obbligatorio il confezionamento del pane unico ed a vietare la vendita, la conservazione o la somministrazione anche in qualità di compenso di pani di tipo diverso, salvo deroghe eccezionalmente consentite (a Biella ne furono concesse in tutto tre: ad una bottega di Porta Torino, ad una del Piazzo e alla rivendita di Paolo Busca in Riva, fornitore ufficiale del vicino Ospedale degli Infermi; tutti e tre gli esercenti furono autorizzati dalla Prefettura di Novara «a mettere in vendita, per uso esclusivo degli ammalati, […] una quantità di pane di farina abburattata in ragione superiore al 20 per cento sulla media di chilogrammi 50 al giorno»[30]). Oltre alla prescrizione del pane unico di tipo cruscato, si tenteranno poi esperimenti con surrogati confezionati con farina di mais, riso, lupini e castagne, e si arriverà fino a disincentivarne il consumo rendendolo sempre meno gradevole al palato[31]. Per chi trasgrediva le norme sulla panificazione e lo smercio di prodotti da forno erano previste multe che andavano dal doppio al quadruplo del prezzo delle merci confezionate e poi vendute illegalmente; in caso di recidiva era prevista una pena da un mese fino a un anno di reclusione ed il sequestro dei beni immobili utilizzati (mulini e fornaci). Una circolare della Prefettura di Novara datata 12 gennaio 1916 ci informa, però, della riluttanza che molti comuni dimostravano nell’attuare il razionamento e il confezionamento del pane di tipo unico. Del resto, buona parte di questi interventi, alla fine, avvantaggiarono principalmente proprio i panificatori che vendevano la farina di prima scelta a dolciari, privati e contrabbandieri e speculavano sulla salute dei consumatori distribuendo pani con farina di qualità carente o scadente (nonostante l’invito rivolto agli ufficiali sanitari dalla Commissione annonaria affinché venissero prelevati campioni da analizzare laddove vi fosse anche solo il sospetto di contravvenzioni alle norme di produzione degli alimenti).

Se a quanto detto sin qui aggiungiamo inoltre il burrascoso rientro degli emigrati dall’estero, il problema dei profughi e le crescenti esigenze di consumo dell’esercito, si può capire perché la stampa e l’opinione pubblica del circondario prendessero ad inquietarsi in modo più accentuato della situazione alimentare, specialmente in vista dell’approssimarsi del secondo inverno di guerra, quando gli effetti del conflitto si fecero sentire con maggiore vigore. Intanto, con la finalità più che evidente di prevenire probabili esplosioni di malcontento popolare, il governo aveva messo in atto a partire dal settembre 1916 e fino alla primavera del 1917 una serie di decreti luogotenenziali, subito ripresi a livello locale, aventi come obiettivo primario quello di colpire i cosiddetti «consumi di lusso», vale a dire il consumo di cibi e di bevande nei pubblici esercizi e la possibilità di accedere dopo le 22.30 in locali, mescite e teatri. Fu inoltre vietata la compravendita di dolciumi e carne, per la quale si prescrissero due giorni consecutivi di astinenza, il giovedì e il venerdì. Quest’ultimo provvedimento costrinse, fra l’altro, anche la Curia biellese ad alcune variazioni in vista del periodo della Quaresima, tanto che «considerando le condizioni di alimentazione, […] [questa concedette] che, pur restando sempre immutabili le leggi di astinenza dalla carne in tutti i venerdì, nel mercoledì delle Ceneri, nel mercoledì delle Tempora, i fedeli [potessero] trasportare lo stesso obbligo della astinenza, che oltre di venerdì era previsto per il sabato, in altro giorno qualsiasi della settimana»[32]. L’articolo 3 del decreto luogotenenziale 12 dicembre 1916 sul consumo di sostanze alimentari nei pubblici esercizi precisò, oltre al resto, che era vietata anche la somministrazione di più di due portate (per la colazione) e di più di tre (per il pranzo), delle quali solo una poteva essere a base di carne. Il dolce, infine, intendendosi per tale qualsiasi vivanda nella cui preparazione rientrasse l’uso di zucchero, si poteva servire soltanto due volte la settimana, il giovedì e il venerdì, e solo a pranzo[33]. Erano tutte limitazioni che, è ovvio, non andavano a intaccare le abitudini alimentari delle classi popolari, già inadeguate per l’usuale[34], quanto invece quelle dei ceti benestanti[35], benché esercenti e gerenti compiacenti spesso eludessero i divieti. Si trattò però, nel complesso, di provvedimenti che ottennero in parte l’effetto propagandistico che si erano prefissi nella misura in cui trasmisero l’immagine di uno Stato apparentemente disposto a fare pesare in maniera perequativa i sacrifici per il conflitto.

L’orchestrazione di tutta questa «nuova economia morale» era coordinata dai responsabili del settore degli approvvigionamenti e consumi e da un insieme di enti istituiti nel corso del conflitto, organizzati attraverso sistemi fortemente dirigistici. Nel dicembre del 1916 venne costituito a Biella, ai sensi dell’articolo 11 del d.l. 926 del 2 agosto 1916, un Ente autonomo per i consumi del circondario, con il proposito «di esercitare sui mercati una pratica azione di freno contro gli eccessi artificiali della libera speculazione e di dare specialmente alle classi meno agiate ausilii validi negli acquisti di generi di prima necessità»[36]. Venne stabilito (con il voto contrario del comune di Biella) che i rifornimenti alimentari non sarebbero stati distribuiti direttamente dall’Ente (come avveniva in buona parte dei circondari) ma, attraverso questo, dalle varie cooperative già presenti sul territorio (scelta che, come si vedrà, avrebbe causato non pochi dissapori e contrattempi). Solo dal dicembre del 1917, oltretutto, l’Ente autonomo sarebbe stato in grado di gestire il trasporto dei generi alimentari dai magazzini ai comuni del circondario servendosi di camions propri. Ad ogni modo, nei dieci mesi successivi alla sua costituzione l’Ente avrebbe comperato, raccolto, conservato e ripartito qualcosa come 104.877 quintali di derrate (tra farine, cereali, pasta e zucchero), movimentando merci per un valore di 6.597.000 lire. A questi andrebbero poi aggiunti 100 quintali di burro e 486 di olio d’oliva che, se pure «non servirono a molto, contribuirono però a mantenere i prezzi modici del calmiere»[37]. Come gesto di buona volontà la Giunta del comune di Biella mise a disposizione dell’Ente autonomo il proprio impianto frigorifero presso l’ammazzatoio civico, con la condizione che tutte le spese per l’esercizio di questo (comprese la manutenzione, le riparazioni e la gestione e gli stipendi del personale) fossero assunte dall’Ente stesso. Nel frattempo la Sottoprefettura emanava una circolare in cui ricordava il carattere straordinario di tutte le recenti norme sugli approvvigionamenti e ribadiva la necessità di applicare senza indugio «severe ed esemplari repressioni» per bloccare illeciti ed accaparramenti.

Non ci volle molto, però, perché la situazione si deteriorasse (tabella 4). A partire dall’autunno del 1916 si susseguirono sui giornali biellesi le proteste per il rincaro dei viveri, in particolare delle uova[38], che arrivarono a costare due lire la dozzina (raddoppiando di prezzo circa quindici mesi). «Per le famiglie abbienti [appariva] soltanto una questione di spostamenti di voce nel bilancio domestico», si legge, ma per le famiglie normali c’era ben poco da fare: la verdura era quasi introvabile, e la frutta carissima («i fichi bavosi, schiacciati, appiccicaticci, che una volta nessun moccioso campestre avrebbe degnato di uno sguardo, si [vendevano] a 30 centesimi al chilo»). Si chiedeva a gran voce un più deciso intervento delle autorità per frenare «i bollenti spiriti degli incettatori», ma gli esiti durarono a fatica.

 

Tabella 4. Prezzi normali correnti dei generi alimentari stabiliti dalla Commissione di annona del comune di Biella (1914-1917)

 

  11.08.1914 02.01.1915 05.05.1915 14.06.1915 10.08.1915 23.09.1915 27.10.1915 15.12.1915 15.01.1916 30.03.1916 29.09.1916 24.03.1917 13.11.1917
Pane di tipo unico (kg) 0,55 0,52 0,55 0,55 0,55 0,60 0,60 0,55 0,55 0,55 0,60
Pane di grano e segale 0,40 0,45 0,50 0,55 0,50 0,50 0,50 0,55 0,58 0,50 0,45 0,45 0,50
Pane di segale e meliga 0,30 0,35 0,40 0,40 0,40 0,40 0,40 0,40 0,55 0,40 0,40 0,40 0,40
Farina di frumento 0,50 0,60 0,60 0,60 0,55 0,55 0,60 0,60 0,60 0,55 0,55 0,60
Farina di meliga 0,30 0,33 0,4o 0,4o 0,4o 0,40 0,40 0,40 0,40 0,36 0,36 0,45 0,50
Pasta tipo “Napoli” 0,72 0,75 0,8o 0,8o 0,85 0,9o 0,9o 0,9o 0,9o 0,9o 0,9o 1,00 *
Pasta nostrana 0,60 0,60 0,7o 0,7o 0,75 0,75 0,75 0,75 0,75 0,75 0,75 0,75 *
Riso di Ia qualità 0,5o 0,55 0,55 0,55 0,5o 0,5o 0,5o 0,5o 0,5o 0,5o 0,50 0,75
Riso comune 0,4o 0,45 0,45 0,45 0,45 0,45 0,45 0,45 0,45 0,45 0,45 0,50
Vitello 2,20 2,25 2,5o 2,2o 2,7o 3,00 3,00 3,00 3,2o 3,3o 3,1o 3,10 *
Manzo 1,90 1,9o 1,9o 2,00 2,3o 2,5o 2,6o 2,6o 2,7o 2,7o 2,7o 2,70 *
Salame scelto 2,5o 2,5o 2,5o 3,00 3,00 3,50 3,5o 3,3o 3,5o 3,6o 3,60 *
Salsiccia 1,7o 1,7o 1,7o 2,oo 2,2o 2,5o 2,5o 2,3o 2,5o 2,5o 2,50 *
Salsiccetta 2,oo 2,2o 2,2o 2,5o 2,7o 3,oo 3,oo 2,8o 3,oo 3,oo 3,oo *
Lardo 2,oo 2,oo 2,1o 2,5o 2,7o 2,8o 2,8o 2,6o 2,8o 2,9o 2,90 6,75
Strutto 1,7o 1,8o 1,8o 2,oo 2,2o 2,25 2,5o 2,oo 2,2o 2,25 2,25 *
Burro 3,5o 3,5o 3,5o 3,5o 3,5o 4,oo 4,25 4,oo 4,25 4,5o 4,50 6,50
Zucchero 1,40 1,4o 1,45 1,45 1,45 1,55 1,55 1,55 1,65 1,6o 1,9o 2,40 3,60
Latte (l) 0,25 0,3o 0,3o 0,25 0,25 0,27 0,3o 0,3o 0,3o 0,3o 0,35 0,50
Latte scremato 0,22 0,22 0,22 0,22 0,22 0,30
Uova (la dozzina) 1,20 1,20 1,20 1,30 1,60 2,00
Patate (kg) 0,15 0,2o 0,3o 0,25 0,2o 0,2o 0,2o 0,2o 0,2o 0,2o 0,2o 0,3o 0,35
Olio d’oliva 2,3o 2,3o 2,3o 2,3o 2,5o 2,7o 2,7o 2,7o 2,7o 2,7o 4,50
Olio miscelato 1,9o 1,9o 1,9o 1,9o 2,00 2,00 2,00 2,00 2,00 2,00 3,60

Fonte: ASCB, Comune di Biella, serie III, sec. XX, mazzo 3.24; * manca il dato.

 

Verso la metà del ‘17, dopo un periodo di rara confusione nel campo dell’economia alimentare, venne introdotto il tesseramento per i generi di prima necessità, in particolare il grano, i suoi derivati e gli altri cereali. A Biella ben presto il sistema del tesseramento, sia individuale sia familiare, riguardò il controllo e la distribuzione di pane, farine, pasta, olio, zucchero e burro, sotto il controllo dell’Ente autonomo. Il ricorso a questa pratica più che diminuire i già scarsi consumi alimentari avrebbe dovuto correggere soprattutto le forti ineguaglianze della distribuzione. Gli esiti, tuttavia, furono ampiamente criticati. Inizialmente si rilasciarono tessere annonarie a 61 conduttori di pubblici esercizi nei quali si calcolava dovessero consumarsi 1.020 razioni di pane e 578 di zucchero. Con il trascorrere dei mesi le cifre si gonfiarono progressivamente. I cereali erano venduti all’Ente autonomo dal Consorzio granario provinciale di Novara; gli altri generi di consumo erano tutti acquistati dai consorzi appositamente costituiti per legge. Il Consorzio agrario faceva macinare i cereali e quindi li indirizzava all’Ente, per la distribuzione ai singoli comuni, in base a dei criteri ricalcati sul computo della popolazione prebellica. Questo sistema, però, fu sempre osteggiato dal comune di Biella dove, data la natura «eminentemente industriale» del territorio, dopo lo scoppio della guerra erano affluite una folta manovalanza operaia ed una quota non indifferente di profughi, facendo sì che il contingentamento iniziale risultasse alla fine «inadeguato e sproporzionato»:

 

Mentre il contingentamento fu fatto in ragione di 22.875 tesserati (ossia di persone che non hanno scorte e risorse proprie di farine e altri generi di consumo), l’amministrazione comunale, pure procedendo con il massimo rigore, dovette già emettere 24.480 tessere […] ed aumentare progressivamente il numero di tesserati con l’arrivo di profughi, operai e forestieri[39].

 

Risultando quest’ultimo espediente insufficiente, l’amministrazione dovette ridurre le razioni ad una quantità che, confrontata con quella fissata in altri comuni industriali, si mostrava «realmente troppo povera»: «si abbondò nel miscelare farina di granoturco alla farina già miscelata dal Consorzio producendo così un pane che aveva oltre il 60 % di farina di granoturco; anzi per le razioni rinforzate agli operai si poté concedere solo un aumento di grammi 50 di pane, rimanendo invariate le razioni […] di ogni altro genere di consumo». Solo dopo ripetuti calcoli si venne alla conclusione che era del tutto impossibile disporre di più 180 grammi giornalieri di farina di frumento per abitante, capaci di circa 200 grammi giornalieri di pane, razione «fisiologicamente riconosciuta insufficiente». Il disagio alimentare della popolazione di Biella era accresciuto, oltretutto, dalla più che modesta produzione agricola, dalla mancanza di patate e legumi, e dalla scarsità di latte, per la cui distribuzione le autorità erano costrette ad inviare le forze di polizia nei locali di vendita per contenere le proteste e impedire lo scoppio di disordini. A tal riguardo, l’amministrazione comunale espresse a più riprese inquietudine per la propria incapacità di razionare adeguatamente il latte, «realmente indispensabile ai bambini e ai malati», fallendo ripetutamente l’obiettivo di giungere a disporre di 500 litri giornalieri per la città. Accusato di non essersi accorto del problema e di non aver istituito per tempo un consorzio municipale per il latte, il sindaco Corradino Sella sottolineò tuttavia in diverse occasioni le differenti condizioni di partenza di Biella rispetto ad altri centri urbani (come ad esempio Novara), le difficoltà legate al calo della produzione locale (diminuita di due terzi circa) e la presenza di numerosi ostacoli frapposti dai comuni biellesi che impedivano l’esportazione del latte dal loro territorio[40]. A tutto ciò dobbiamo poi aggiungere l’estrema irregolarità del rifornimento delle stesse farine utilizzate per confezionare il pane, causa di lentezze continue e di chiusure momentanee dei negozi e delle panetterie. Il sistema del dazio aperto non consentiva certo un controllo adeguato delle carni clandestinamente macellate e importate in città dai comuni vicini, con il risultato di generare un rapido e drastico depauperamento delle «già scarse scorte zootecniche». La stessa classe operaia, infine, ed in particolare l’«elemento femminile», dava vivi segni di malcontento, mettendo in serio allarme le istituzioni. In una lettera alla Prefettura di Novara del dicembre 1917 il sindaco di Biella rilevò che la cittadinanza, pur non mormorando, riteneva che la razione di pane puro concessa a Vercelli fosse superiore a quella locale, quasi che Biella venisse «trattata alla stregua dei paesi rurali dove, bene o male, [vi era] modo e mezzo di avere dei sostitutivi, dove la popolazione non [tendeva] ad aumentare ma a diminuire». La risposta del Prefetto, tuttavia, ribadì che nessuna maggiore assegnazione di grano avrebbe potuto essere concessa dal Ministero; se vi erano problemi con il contingentamento, l’errore era stato causato dall’Ente autonomo per i consumi del circondario allorché aveva assegnato le quote non tenendo conto delle condizioni speciali di Biella ma limitandosi al calcolo aritmetico dei suoi residenti. In ogni caso, venivano rigettate le accuse mosse all’amministrazione provinciale di favorire Vercelli («il primo comune a mescolare farine di minore qualità per il pane»). Nel gennaio del 1918 i tesserati per il pane salirono nel solo capoluogo a 25.290 unità, di cui 289 erano bambini con un’età inferiore ai due anni e 725 profughi fuggiti dalle aree del paese sconvolte dalla guerra (436 furono alloggiati nelle adiacenze o all’interno del complesso del santuario di Oropa). L’amministrazione faticava sempre più a sorvegliare quasi «ora per ora il lavoro dei prestini», a controllare «severamente l’uso della farina o meglio delle farine», ad «eliminare giorno per giorno dalla alimentazione di Biella bocche che non appartengono a Biella e che potrebbero […] razionarsi in più posti in fraudolenta evasione della legge e della necessità». I problemi annonari erano divenuti «spinosi e difficili […], e più specialmente perché la loro soluzione dipendeva essenzialmente dall’avere o non avere a disposizione le derrate occorrenti in misura sufficiente [mentre] la ripartizione pratica dei quantitativi era […] subordinata a fattori sperimentali […] e provvedimenti contingenti»[41].

Nel corso del 1917 in molte zone d’Italia si susseguirono moti di reazione contro il carovita e il mercato nero. Nei primi giorni di maggio nel Milanese si protestò per la carenza e i prezzi elevati del riso, alimento di base per la popolazione contadina nella stagione estiva. A Torino, tre mesi dopo, per la mancanza di farina, ci sarebbe stato un tumulto molto grave destinato a concludersi con più di 50 morti, 200 feriti e più di 1.000 arrestati[42]. Anche a Biella, in gennaio, vi furono disordini e proteste da parte della manovalanza operaia. Qui, tuttavia, la ragione principale dello scontento risiedeva nella insufficienza di zucchero in commercio: in seguito a un provvedimento assai restrittivo emanato dalle autorità locali si era passati da un consumo medio di 1,5/1,8 Kg per abitante a soli 0,4 Kg al mese[43]. In mancanza di zucchero si cominciò a vendere saccarina mescolata a grasso, ma ovviamente non era la stessa cosa. Alla fine d’ogni mese i rivenditori al minuto e i fabbricanti di prodotti zuccherati dovevano chiedere una licenza per l’acquisto dello zucchero loro occorrente[44]. Così come ai rivenditori, i sindaci potevano rilasciare una licenza anche agli esercenti di «caffè, bars, latterie, trattorie, alberghi ed altri esercizi congeneri»[45]. Dal marzo ’17 il deposito per la distribuzione di zucchero per l’intero circondario venne gestita dalla ditta Fratelli Carpano in Biella (anche a Vercelli ed a Varallo il servizio era condotto da privati; a Novara e a Domodossola, invece, la ripartizione delle sostanze zuccheranti era coordinata dal locale Ente per i consumi), ma si segnalarono diversi reclami (nel maggio del 1919, per esempio, il comune di Pollone avrebbe denunciato la sparizione durante il trasporto di parte del carico mensile di zucchero assegnato[46]). Il 23 agosto 1917, oltre a questo, si ebbe nelle valli Sessera e Ponzone anche uno sciopero generale a causa della mancanza di pane[47].

La stampa incentivava variazioni alla tradizione alimentare che ben si adattassero all’austerità dei tempi di guerra. Sulla Tribuna Biellese venne pubblicata a partire dal dicembre del ‘16 una rubrica dal titolo assai significativo, Cucina di guerra, accompagnata da un motto ancora più esplicito: «vivere il meglio possibile consumando il meno possibile». Si suggeriva l’uso di olio d’oliva al posto del burro, insistendo sul fatto che non corrispondeva al vero la sua presunta nocività, come testimoniavano del resto le abitudini alimentari di liguri, toscani e siciliani[48]. Si consigliavano inoltre polpette di guerra, salse di pomodoro, zuppe (di cardo, di lenticchie e di polmone), insalate (di cavolfiore, di patate e di rape) e lattate (puré di cipolle, fagioli o patate). Si proponevano anche cibi e vivande esotiche, come ad esempio il cuscinetto caldo (il sandwich), pane raffermo che però, si aggiungeva, anziché imbottito di insaccati o di carne come facevano gli inglesi, una volta scaldato, andava guarnito con la ben più severa acciuga, «in ragione di una per cuscinetto». Spesso comparivano anche degli articoli che presentano un contenuto più approfondito e corretto dal punto di vista scientifico, come quelli in cui si dimostrava, per esempio, l’equivalenza fra le proteine delle carni e quelle presenti nei legumi. Soprattutto, però, si faceva opera di propaganda, evitando di seminare il panico fra una popolazione già messa a dura prova dalla situazione economica generale. Erano solo «le antipatriottiche paure e le credenzone abitudini», si diceva, «a provocare il rincaro della vita»[49].

In realtà, erano già iniziati i primi processi contro gli affamatori del popolo. Naturalmente le autorità potevano ben poco contro le macinazioni clandestine effettuate nelle case contadine, o contro il setacciamento della farina cruscata presso i mulini che confezionavano il pane casalingo. Le misure più criticate, e più aggirate, riguardavano in effetti proprio il grado di abburattamento del pane unico, il cui variare nel corso dei mesi finì con l’avvantaggiare molti panificatori pronti a speculare a discapito della salute dei consumatori, nonché l’obbligatorietà della forma rotonda e grossa che permetteva un risparmio di 10, 15 chilogrammi di farina per quintale, ma ugualmente a detrimento degli acquirenti i quali consumavano, per una questione di lavorazione, per l’appunto circa 10, 15 chilogrammi di acqua non evaporata in più ogni quintale di pane sfornato[50]. Le contravvenzioni, le multe e gli arresti, invece, ricaddero in maniera più evidente sulla categoria dei commercianti, facendo proprie, in un certo senso, le opinioni popolari sulla proverbiale scorrettezza dei bottegai[51]. L’area sociale del piccolo commercio aveva svolto fra ‘800 e ‘900 un importante ruolo di stabilizzazione sociale nella misura in cui, di fatto, costituiva uno sbocco per le traiettorie di mobilità ascendente delle classi lavoratrici, funzione che nel corso dell’età giolittiana aveva cominciato ad ottenere anche riconoscimenti a livello legislativo[52]. Con lo scoppio del conflitto, tuttavia, si erano palesati fin da subito una serie di gravi problemi per la tutta categoria. L’immediato contraccolpo fu, come abbiamo visto, la minore disponibilità di alcuni generi alimentari ed il conseguente aumento dei prezzi sia all’ingrosso sia al minuto. Le difficoltà relative agli approvvigionamenti, il crescere delle lagnanze della clientela e la diminuzione dei guadagni si erano poi sommati al richiamo alle armi di numerosi titolari di esercizi, che aveva reso difficoltosa, per molte famiglie, la continuazione delle attività. Si tratta di dinamiche comuni ad altre realtà italiane di cui abbiamo non pochi esempi anche a Biella. Basti per tutti l’esempio di Erminia Olmo, esercente della Trattoria del sole, nel centralissimo corso Umberto (l’attuale via Italia), la quale dopo il richiamo del marito, sola e con un figlio piccolo a carico, inesperta per di più della conduzione di un locale pubblico, venne a trovarsi nella più completa indisponibilità di denaro, tanto da non riuscire a pagare non solo i creditori ma anche l’affitto, finché, accusata di bancarotta, fu condannata ad una pena di cinque mesi di detenzione[53]. La situazione dei piccoli commercianti era nel complesso acuita dalla crescente ostilità non solo del proletariato ma anche di molti settori della piccola e media borghesia che individuavano in loro i veri responsabili del rincaro e della mancanza di viveri. Più che la grande speculazione, quindi, fu in gran parte il piccolo commercio che la magistratura, la polizia municipale e la Guardia di finanza andarono a colpire con maggiore severità. Proprio allo scopo di poter disporre di strumenti adeguati per la lotta agli speculatori il 6 maggio 1917 venne emanato un decreto luogotenenziale, il numero 740, recante le «disposizioni penali per reprimere le infrazioni alle norme sul censimento, la precettazione e la requisizione di cose di comune o largo consumo», nei cui titoli trovarono sistemazione i reati contro le disposizioni annonarie, e con il quale venne introdotto anche l’arresto immediato per chiunque fosse stato colto a commettere un reato in specie punibile con la reclusione. L’applicazione di queste norme, ed i conseguenti arresti di persone spesso incensurate, ebbero un effetto notevole, come è facile capire, tanto che le stesse autorità giudiziarie biellesi (come pure quelle di altre città[54]) cercarono di mostrarsi il più possibile concilianti nella comminazione delle pene in questione. Allo stato attuale delle ricerche non è possibile quantificare con precisione la consistenza numerica di questi reati ed il numero delle persone coinvolte. Diverse decine, senza dubbio, anche se le carte processuali rispecchiano una realtà fatta di infrazioni per lo più lievi, contravvenzioni per prezzi alla vendita alle volte di pochi centesimi superiori ai calmieri, mancate denunce per qualche sacco di grano destinato ad una macinazione certo abusiva ma ad uso domestico, meschini tornaconti giocati sulla sottile differenza dei prezzi massimi fra una provincia e l’altra. C’erano, del resto, difficoltà oggettive nel riuscire a fissare, ad esempio, i limiti per la vendita al minuto per gente di campagna che veniva al mercato con la gerla sulle spalle. È vero che l’Arma dei carabinieri, avendo sentore che sul territorio biellese si commettevano numerosi illeciti e trasgressioni soprattutto alle disposizioni relative al commercio di cereali, predispose uno speciale servizio di sorveglianza, arrivando a sequestrare svariati quintali di grano, segale, orzo, avena e patate, spesso occultati, mimetizzati, in carri carichi di fieno o di legna e destinati non di rado ad alberghi e ristoranti del capoluogo[55]. Tuttavia, gli stessi organi preposti alla sorveglianza e al trattamento delle merci confiscate, in tempi di estrema penuria, non parevano esenti completamente da ombre, se è vero che in taluni casi le derrate poi vendute all’incanto (in conformità all’art. 13 del d.l. 740 sopra citato) furono trovate inferiori a quelle sequestrate. L’esempio migliore è quello della fruttivendola Caterina Libois: accusata il 10 gennaio del 1918 di aver venduto all’attendente di un ufficiale dell’esercito alcune patate a 0,80 anziché 0,40 lire al chilogrammo (la donna si difese adducendo a discolpa la qualità assai fine del prodotto, «patate del burro», che avrebbe giustificato l’aggravio del prezzo), venne processata per direttissima il giorno 16 e condannata a tre giorni di detenzione ed al versamento di venti lire di multa. Dei 70 chilogrammi di patate sequestrati all’interno del suo esercizio, però, due settimane dopo arrivarono ad esserne messi all’incanto meno di 64[56]. In questo senso il metodo nominativo, fatte salve le restrizioni imposte al trattamento storico dei dati personali, permette di ricostruire intere storie di vita grazie all’incrocio di serie documentarie diverse[57]. È il caso, fra gli altri, di Andrea Saettone, classe 1856, nativo di Trino Vercellese, proprietario di un negozio di frutta in via Umberto. Residente a Biella dai primi anni ’90 dell’800, lo troviamo nel registro degli abbonamenti al dazio del 1896[58]. Alla fine del 1894 risale una sua lettera indirizzata al sindaco di Biella, in cui chiedeva di diminuire il dazio sulla frutta secca[59]. Nella primavera del 1919 lo incontriamo nuovamente, questa volta, tuttavia, coinvolto in un’accusa di accaparramento di generi alimentari (imputazione dalla quale sarebbe risultato prosciolto per inesistenza di reato). Prima dell’ottobre del 1918 Andrea Saettone aveva acquistato nel Comasco 2.479 quintali di patate. Nel complesso aveva fatto arrivare da Lomazzo, Saronno, Caronno, Gerenzano e Cantù 18 vagoni carichi di merce, poi venduta direttamente in stazione, nonostante i magazzini della sua bottega non fossero distanti[60] (è appena il caso di ricordare che, all’epoca, la stazione ferroviaria si trovava ancora in via Lamarmora, di fronte ai giardini Zumaglini). Quasi 70 quintali delle sue patate furono trovati anche nei depositi dell’Ente autonomo per i consumi, a testimonianza della fitta rete di mediazioni che negli anni del conflitto si era estesa su tutto il territorio. Come Andrea Saettone non pochi altri commercianti biellesi cercarono di estendere le loro relazioni commerciali al di fuori della ristretta e spenta rete locale, anche se con esiti non sempre fortunati.

Intanto i prezzi continuavano a crescere: a novembre del ‘17 si registrarono aumenti nel costo del pane (0,60 lire al chilogrammo), del latte (0,50), del riso (0,75), delle paste alimentari (1), e delle patate (0,35); rispetto a marzo, poi, il lardo era passato da 2,90 a 6,75 lire, lo zucchero da 2,40 a 3,60, il burro da 4,50 a 6,50, l’olio d’oliva da 2,70 a 4,50. Il succedersi di misure e contromisure eccezionali, spesso in contrapposizione l’una con l’altra, dimostrava apertamente l’incertezza in cui versavano le autorità, anche se, dopo i clamorosi fatti di Torino e la tragedia necessaria di Caporetto[61], la gestione dei consumi e degli approvvigionamenti era diventata il settore del «fronte interno» probabilmente più seguito dal governo[62]. Una circolare del Ministero per gli approvvigionamenti ed i consumi alimentari del 19 agosto 1918 invitava a mantenere serrato il controllo sui generi alimentari, contrastando ogni speculazione e appoggiando i contadini, da «sempre il nucleo della resistenza e delle fortune d’Italia». Due mesi dopo l’amministrazione comunale di Biella si vide rigettare dalla Sottoprefettura la richiesta di non imporre calmieri di vendita al minuto inferiori ai prezzi d’acquisto. La temuta espansione del mercato nero sarebbe stata combattuta a posteriori, piuttosto che prevenuta.

 

Tabella 5. Confronto fra i prezzi dei più comuni alimenti a Biella e in altri comuni biellesi (1919)

 

  Biella Ponderano Pollone Graglia
Carne di vitello (kg) 6,50 6,50 6,00
Carne di manzo 5,00 5,00 5,00
Carne di vacca 4,00 4,00 4,00 4,00
Farina di meliga 0,65 0,65 0,65 0,65
Farina di semola 0,90 0,90 0,90 0,90
Riso 1,05 1,05 1,05 1,05
Paste alimentari 1,10 1,25 1,20 1,25
Zucchero 4,55 4,55 4,55 4,55
Zucchero di Stato 7,00 7,00 7,00 7,00
Lardo 11,00 10,00 11,00
Strutto 8,00 8,00 8,00
Carne salata 4,50 4,50 4,50
Salame 16,00 15,00 16,00
Salsiccetta 8,00 10,00 8,00
Vino (l) 1,40/2,20 1,80 1,40/2,20
Olio d’oliva 5,50 5,50 6,00
Latte (l) 1,00 0,80 0,80 0,80
Burro (kg) 8,50 13,00 13,00 13,00
Uova (la dozzina) 4,10 6,00 3,60 3,60
Pollame (kg) 7,00 7,00 7,00 7,00
Patate 0,75 0,55 0,55 0,50
Cavoli 0,80 0,40 0,40 0,35
Fagiolini 1,50 1,25 1,50 1,00

Fonte: ASCB, Comune di Pollone, mazzo 25; Comune di Ponderano, mazzo 20.

 

L’inverno tra il 1917 ed il 1918 fu particolarmente gravoso. I calmieri non bastarono più e si dovette passare senz’altro ad un più deciso razionamento[63]; nel corso dell’ultimo anno di guerra, così, si registrarono i consumi più bassi per la carne bovina e suina (non per l’equina, in aumento), il burro, i formaggi, lo zucchero e gli olii vegetali. Il censimento del bestiame di Biella del 6 aprile 1918 schedò 117 maiali, 448 cavalli, 43 fra asini e muli, 86 pecore, 13 capre e 1.361 bovini. A Ponderano si contarono 402 bovini, 115 suini e 1.097 quintali di carne macellata, ma per una popolazione di gran lunga al di sotto di quella del capoluogo[64]. Le autorità di Biella lamentarono l’inadeguatezza della collaborazione della popolazione contadina e in città per diversi mesi non si riuscì a mettere insieme più di 45 quintali di carne (forse non la quantità macellata ma, come più probabile, quella non ancora disossata).

Il sistema annonario mostrò tutti i sui limiti, evidenziando le tensioni latenti fra gli enti che vi prendevano parte. Nel novembre del ’17 si era costituita una cooperativa fra esercenti e commercianti, l’Unione Cooperativa, autonoma e parallela all’Ente per i consumi, nonostante il parere sfavorevole di quest’ultimo. Già dopo pochi mesi la Giunta di Biella dovette intervenire per la gestione non opportuna dei servizi erogati: «da parecchio tempo questa Giunta ha continue lagnanze sul modo inurbano con il quale gli avventori obbligati ad accorrere agli spacci della Cooperativa per acquistare i generi tesserati sono trattati dalle commesse addette alla vendita […]. [È necessario] far presente […] dell’opportunità, specie in questi difficili momenti, di usare la massima pazienza verso il pubblico già esasperato dalla continua mancanza di generi di consumo»[65]. Anche i rapporti col Consorzio daziario non erano affatto buoni. I decreti luogotenenziali n. 1649 del 21 ottobre e n. 1805 del 23 dicembre 1915 avevano previsto diverse agevolazioni in materia di dazi arrivando a autorizzare una dilazione del pagamento del canone dovuto alle amministrazioni comunali nel caso in cui si fosse dimostrata una notevole diminuzione dei proventi (un quarto in meno del previsto). A Biella il Consorzio gestito dagli esercenti aveva registrato una perdita netta di 62.439 lire per il 1917, per cui dovette far fronte a «mutui onerosi». Per superare la pesante situazione delle finanze il Consorzio, nonostante la diminuzione dei consumi («diminuzione che si verificò in quasi tutti i comuni d’Italia»), aveva cercato ogni mezzo, fra l’altro aumentando più rigorosamente possibile i canoni degli esercenti di Biella abbonati al dazio. Tuttavia, tra il 1916 e il 1917 su 330 esercenti soggetti al dazio più di cento avevano chiuso i battenti. Anche il divieto di consumare la carne il giovedì e il venerdì, insieme al blocco delle vendite di paste e dolciumi, avevano contribuito a danneggiare la situazione dei commercianti. La Giunta comunale, tuttavia, nonostante le insistenze, non ritenne dover appoggiare una richiesta di abbuono presentata dai commercianti, sostenendo che le pretese perdite si dovevano in gran parte ascrivere al fatto che i maggiori esercenti locali (tutti soci del Consorzio) non pagavano il dazio in ragione dell’effettiva potenzialità dei rispettivi esercizi, ma si limitavano a ripartire fra loro il valore ritenuto necessario (era l’accusa già vista negli anni precedenti il conflitto). In fin dei conti il canone daziario previsto per il quinquennio 1916-1920 era stato pattuito in 240.000 lire annue e la Giunta era già scesa a compromessi con il Consorzio concedendo, per il 1916, uno sconto di 30.000 lire. La controversia finì allo studio del Ministero delle Finanze nell’aprile del 1918 e la direzione del ministero concordò con il comune, a sua volta rimarcando che i mancati introiti dipendevano dal fatto che, «come avveniva generalmente in tutte le gestioni daziarie col regime del consorzio degli esercenti», questi non pagavano il dazio in base alla tariffa dovuta bensì si limitavano a corrispondere quel tanto che era strettamente necessario a soddisfare il valore dovuto al comune[66]. Ad ogni modo, il Consorzio di Biella avrebbe comunque ottenuto un abbuono di 34.160 lire nell’agosto del 1918. La Camera del lavoro, da parte sua, chiese più volte alla municipalità di rispettare gli accordi sul razionamento del pane alle classi operaie, pretendendo di elevarne la quantità da 200 a 300 grammi e accusando la Giunta di favorire le classi agiate per scopi elettorali. Nonostante l’apparente cordialità che emergeva dai resoconti ufficiali, infine, i nervosismi maggiori quasi certamente furono quelli che caratterizzarono i rapporti fra il comune e l’Ente autonomo per i consumi, così come testimonia il fitto e non di rado rissoso carteggio conservato presso l’Archivio di Biella[67].

La situazione sul fronte, però, stava finalmente evolvendo verso la conclusione della guerra. La battaglia di Vittorio Veneto «non fu la vittoria napoleonica che proclama l’agiografia nazionale»[68], ma palesò il crollo dell’Austria-Ungheria. Il 10 novembre del ‘18 un grande corteo attraverso le vie di Biella salutò la fine del conflitto. La situazione alimentare restava, ciò nonostante, decisamente critica. Anche senza cosiderare i costi, in termini di vite umane e di risorse materiali, consumati nello sforzo bellico, l’economia generale ristagnava. Il regio decreto numero 1146 del 13 luglio 1919 impose la formazione di commissioni annonarie aggiuntive in ogni comune italiano. Una nota del sottoprefetto Destefanis consigliò, per il circondario biellese, di istituirne solo su base mandamentale. In precedenza il dibattito sull’attribuzione di competenze fra consorzi, Ente autonomo, cooperative e municipalità era già stato risolto dalla Sottoprefettura con una certa preminenza assegnata ai comuni, ai quali veniva a spettare «assolutamente» la primaria decisione in fatto di distribuzione degli alimenti. Nessuna maggioranza di comuni, tuttavia, avrebbe più potuto inficiare l’autonomia di un comune terzo (come era avvenuto in precedenza, con chiaro riferimento al rapporto fra Biella ed il circondario). A novembre del 1919 le autorità di Biella fecero richiesta di un invio speciale di sementi di granoturco per dar lavoro agli oltre 60 piccoli mulini rimasti inattivi nel circondario. Purtroppo il caroviveri sarebbe perdurato ancora a lungo. Nei mesi successivi al termine delle ostilità il costo del pane salì a 1 lira, il prezzo del latte crebbe fino a 1,30 lire al litro, le patate a 0,80, l’insalata a 2,50, i fichi e gli spinaci a 4 lire (più del doppio del costo del manzo in vendita nel 1914); le altre carni essendo introvabili[69], si cominciò a vendere carne di coniglio ad 8 lire al chilogrammo. Nel circondario mancavano anche fieno e avena per gli animali, ed il lardo veniva importato in buona parte dagli Stati Uniti. Nel frattempo altri problemi si profilavano alle porte, la crescita enorme dell’inflazione e la crisi del settore industriale[70] sopra tutti gli altri, problemi che avrebbero aperto la strada ad una nuova, intensa stagione di sacrifici.

(articolo pubblicato: “Studi e ricerche sul Biellese”, XXIV, 2009)

Prof. Massimiliano Franco

 

Note

 

[1] M. Anastasia, Questione annonaria e piccoli commercianti a Torino nella prima guerra mondiale, in «Passato e presente», 44, 1988, p. 69.

[2] M.C. Dentoni, «Questione alimentare» e «questione sociale» durante la prima guerra mondiale in Italia, in «Società e storia», 37, 1987, p. 607.

[3] M. Isnenghi, G. Rochat, La Grande Guerra 1914-1918, Sansoni, Firenze 2004, p. 59.

[4] Cfr. E.P. Thompson, The Moral Economy of the English Crowd in the Eighteenth Century, in «Past and Present», 50, 1971, pp. 76-136 (trad. it., L’economia delle classi popolari inglesi nel secolo XVIII, in Id. Società patrizia, cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, a cura di E. Grendi, Einaudi, Torino 1981, pp. 57-136).

[5] G. Prato, Il Piemonte e gli effetti della guerra sulla sua vita economica e sociale, Laterza, Bari 1925, p. 178.

[6] Cfr. M. Aymard, Histoire et comparation, in H. Atsma, A. Burguière (sous la direction de), Marc Bloch aujourd’hui. Histoire comparée et Sciences sociales, Éditions de l’École des hautes études en sciences sociales, Paris 1990, pp. 271-78.

[7] P. Sorcinelli, Note sull’alimentazione nell’Italia giolittiana, in «Italia contemporanea», 150, 1983, p. 90 sg. Restano i problemi legati alla contraddittorietà della rilevazione daziaria, al mercato nero ed alla macellazione clandestina di ovini e suini, oltre al consumo non sempre quantificabile della carne di coniglio, del pollame e della cacciagione (p. 92 sg.). Un quadro evolutivo dei consumi di Torino per il periodo 1879-1910 si trova in R. Bachi, L’alimentazione e la politica annonaria, Laterza, Bari 1926, p. 31. Ne emerge una sostanziale staticità.

[8] P. Secchia, Capitalismo e classe operaia nel centro laniero d’Italia, Editori Riuniti, Roma 1960, pp. 252 sgg.

[9] I comuni del regno erano stati divisi in cinque classi di contribuzione con aliquote decrescenti in base alla popolazione agglomerata. I comuni delle prime tre classi, con una popolazione superiore ai 20.000 abitanti, erano stati dichiarati chiusi. Quelli di quarta classe erano stati considerati chiusi solo se capoluoghi di provincia o di circondario, o in caso di esplicita richiesta da parte delle amministrazioni. I rimanenti comuni, la maggioranza, erano stati dichiarati comuni aperti. A seconda dell’appartenenza a una delle categorie variavano le modalità della riscossione del dazio: all’introduzione delle merci entro la linea daziaria per i comuni chiusi, presso i punti di vendita (spacci e botteghe) in quelli aperti. Soprattutto mutavano in modo consistente le quote delle gabelle che venivano a cadere sui generi di consumo. Nel 1902 fu promulgata una legge con il fine di favorire l’abbattimento delle cinte daziarie e la soppressione dei comuni chiusi ma, ancora alla vigilia della prima guerra mondiale, centri urbani di notevole importanza come Torino e Vercelli restavano comuni chiusi. Per un quadro generale, ancorché sintetico, della situazione del dazio tardo ottocentesco a Biella si può vedere M. Franco, Dazio-consumo e mercato nero nella Biella di fine ‘800, in «Studi e ricerche sul Biellese», Bollettino DocBi, XX, 2005.

[10] Cfr. Franco, Dazio-consumo e mercato nero… cit., p. 78 sg.

[11] ASCB, Comune di Biella, serie III, sec. XX, mazzo 5.53, Relazione della Giunta comunale della Città di Biella per la riscossione dei Dazi di consumo governativi, addizionali e comunali, s.d. prob. ottobre 1915. Per la bilocazione fra il Piazzo e il Piano che all’epoca marcava fortemente il tessuto urbano di Biella, fino a formare una vera dicotomia fra città alta e città bassa, cfr. G. Pidello, Biella nell’Ottocento: architettura civile e forma urbana, in A. Negro, G. Pidello, C. Piva, Biella. La costruzione della città nelle rappresentazioni cartografiche, Catalogo della mostra “Biella. L’immagine della città dal ‘600 ad oggi”, a cura dell’Assessorato all’Urbanistica della Città di Biella, Biella 1995, p. 35, n. 39.

[12] ASCB, Comune di Biella, serie III, sec. XX, mazzo 3.24, Verbale della Commissione Annonaria di Biella, 20 dicembre 1911.

[13] A proposito del caro vivere: la carne è veramente cara?, in «Tribuna Biellese», 14, 16 febbraio 1911.

[14] ASCB, Comune di Biella, serie III, sec. XX, mazzo 5.53, Verbale del Consiglio comunale della Città di Biella, 15 ottobre 1910.

[15] Ivi, Estratto di deliberazione della Giunta comunale di Biella, 25 marzo 1918.

[16] Dentoni, «Questione alimentare» … cit., p. 611.

[17] Anastasia, Questione annonaria… cit., p. 78.

[18] La Giunta di Biella annunzia il calmiere, in «Il Commercio biellese», 34, 17 agosto 1914.

[19] La tabella del calmiere, ivi.

[20] ASCB, Comune di Biella, serie III, sec. XX, mazzo 3.24, Relazione dell’Unione Principali Prestinai di Biella e Circondario, 7 agosto 1914.

[21] Prato, Il Piemonte e gli effetti della guerra… cit., p. 133.

[22] Riccardo Bachi ebbe a commentare: «lo Stato è diventato il centro motore dell’economia nazionale, il dispotico regolatore delle più svariate gestioni» (R. Bachi, L’Italia economica nel 1918, Dante Alighieri, Milano 1919, p. IV sg.). Cfr. anche U. Ricci, La politica annonaria dell’Italia durante la guerra, Laterza, Bari 1939, p. 22 sg. Contrari ai calmieri si erano sempre dichiarati anche il ministro dell’agricoltura Cavasola, nonché l’allora (nel 1915) ministro della Giustizia Orlando.

[23] Il d.l. n. 247 dell’11 marzo 1916 diede valore di calmiere ai prezzi stabiliti per le requisizioni che erano state introdotte con i d.l. 4 e 5 dell’8 gennaio 1916.

[24] Dentoni, «Questione alimentare» … cit., p. 621.

[25] Sangue nostro, in «Tribuna Biellese>>, 51, 27 giugno 1915.

[26] L’importanza del cotone nella guerra, in «Tribuna Biellese», 57, 18 luglio 1915; La lana pel soldato, ivi, 66, 19 agosto 1915.

[27] Dal 1° maggio 1915 al 31 dicembre 1918 dei 107.516.310 metri di panno grigio-verde prodotti in Italia per esigenze belliche ben 2/3 (circa 71 milioni) arrivarono dal Biellese dove, su 8.000 telai, 6.000 lavoravano solo per l’esercito. Gli industriali di pannilana biellesi vennero pagati dal governo 18,50 lire al metro ma l’enormità dei ricavi (tale da portare, nel dopoguerra, ad un interessamento della Commissione di inchiesta sui sovrapprofitti), fu dovuta non solo alla grande differenza fra i costi di produzione e il prezzo di vendita ma anche alla non eccezionale qualità delle forniture (Secchia, Capitalismo e classe operaia… cit., pp. 296-99).

[28] Il vino si comprava, all’epoca, in bottiglie di vetro bianco, riversato da bottali, raramente in fiaschi, più raramente ancora in bottiglie dotate di tappo.

[29] Nelle campagne continuava a sopravvivere la distinzione fra bocche da biada e da grano, ed il pane rappresentava tuttora «uno status symbol che qualificava una condizione umana e una classe, a seconda del suo particolare colore che variava in tutta una gamma dal nero al bianco» (P. Camporesi, Il pane selvaggio, il Mulino, Bologna 1980, p. 117). I poveri mangiavano gli scarti della produzione, pane di ultima qualità, oppure raffermo. Normalmente le forme si preparavano in casa, nel forno a legna. Nei periodi di penuria spesso si trituravano i frutti di carpine insieme alle farine di cereali minori, miglio, farro e spelta. Si utilizzavano anche gli acini dell’uva, i fiori di nocciolo, le radici delle felci, i semi di zucca, liquirizia, biada e legumi vari. Alcuni macinavano persino i sarmenti delle viti, il fusto dei cardi, i torsi dei cavoli, delle pere e delle mele. I più fortunati preparavano il pane con fave o ghiande, o confezionavano pastoni con la farina delle noci o delle castagne (A. Lonni, Le sofisticazioni alimentari nell’età industriale, in Storia d’Italia, Annali 13, L’alimentazione, Einaudi, Torino 1998, p. 534).

[30] ASCB, Comune di Biella, serie III, sec. XX, mazzo 3.24, Lettera della Regia Prefettura di Novara, 1915.

[31] R. Bachi, L’alimentazione e la politica annonaria in Italia, Laterza, Bari 1926, p. 284.

[32] Digiuni e astinenza, in «Il Biellese», 13, 12 marzo 1917.

[33] ASB, Comune di Ponderano, mazzo 25, Denuncia del consumo di sostanze alimentari, 1916.

[34] Per l’alimentazione delle classi operaie piemontesi si vedano: G. Levi, L’alimentazione dei lavoratori in Piemonte nell’ultimo ventennio del secolo XIX, in AA.VV., Il tempo del riposo. Squarci di vita sociale del proletariato torinese di fine secolo, Feltrinelli, Milano 1991; M. Franco, Pane e polenta. L’alimentazione popolare in Piemonte fra Ottocento e Novecento, in «Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino», C, Fasc.I, 2002.

[35] I conti Ferrero della Marmora, per esempio, spesero in un mese (il settembre del 1914) 1.208 lire per la dispensa. Solamente per la carne 483. Altre 95 per il pesce (consumato ogni venerdì), 132 per il burro, 70 per le uova, 107 per lo zucchero e, fra i tanti generi cosiddetti voluttuari, 14 lire per cioccolato e vaniglia, senza contare rhum, marsala, formaggio, paté (ASCB, Fondo Famiglia Ferrero della Marmora, serie IV, mazzo 22, I a Conti della cucina).

[36] ASCB, Comune di Biella, serie III, sec. XX, mazzo 3.24, Schema dello Statuto dell’Ente autonomo per i consumi, s.d.

[37] Ente Autonomo pei Consumi del Circondario di Biella, Relazione morale e finanziaria. Esercizio 1917, Tipografia Cooperativa Biellese, Biella 1918, p. 6 sg.

[38] Spese voluttuarie: le uova, in «Tribuna Biellese», 74, 14 settembre 1916.

[39] ASCB, Comune di Biella, serie III, sec. XX, mazzo 3.24, Esposto del Comune di Biella al Commissario Generale dei Consumi, s.d.

[40] Ivi, Verbale del consiglio comunale di Biella, 20 agosto 1918. La contrapposizione fra la maggioranza dei comuni biellesi ed il capoluogo del circondario fu tanto evidente da giustificare un intervento del sottoprefetto di Biella nel gennaio del 1919.

[41] Ivi, Relazione della Giunta municipale di Biella sui provvedimenti di annona, s.d.

[42] Cfr. P. Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Einaudi, Torino 1972, specie i capitoli 19, 20, 21.

[43] Controllo sul consumo dello zucchero, in «Tribuna Biellese», 4, 14 gennaio 1917.

[44] Controllo sul consumo dello zucchero, in «Il Biellese», 3, 9 gennaio 1917.

[45] Circolare dell’intendenza di Finanza di Novara per l’applicazione del d.l. 18 ottobre 1916 sul consumo di zucchero, 9 febbraio 1917.

[46] ASB, Comune di Pollone, mazzo 25.

[47] Secchia, Capitalismo e classe operaia… cit., p. 306.

[48] Si veda P. Camporesi, La terra e la luna. Alimentazione folclore società, Garzanti, Milano 1995, alle pp. 193 sgg. per una geografia dei grassi e degli olii. Al di là dell’utilizzo di olii particolari come quello di noce, resta il fatto che il consumo di grassi animali, tendenzialmente, era in quegli anni ancora diffuso e che il brodo quotidiano delle classi povere era fatto, quando possibile, sciogliendo in acqua pezzi di carne di maiale salata.

[49] Le incette inverosimili, in «Tribuna Biellese», 21, 15 marzo 1917.

[50] Dentoni, «Questione alimentare» … cit., p. 627.

[51] Anastasia, Questione annonaria… cit., p. 78.

[52] P. Macry, Sulla storia sociale dell’Italia liberale: per una ricerca sul “ceto di frontiera”, in «Quaderni storici», 12, 1977, pp. 521-50.

[53] ASB, Tribunale di Biella, Fascicoli penali, mazzo 727, p.p. contro Olito Erminia.

[54] Per Torino cfr. Anastasia, Questione annonaria… cit., p. 90 sg.

[55] ASB, Tribunale di Biella, Fascicoli penali, mazzo 736, procedimenti vari.

[56] Ivi, p.p. contro Libois Caterina.

[57] Cfr. C. Ginzburg, C. Poni, Il nome e il come. Scambio ineguale e mercato storiografico, in «Quaderni storici», 14, 1979, pp. 181-90.

[58] ASCB, Comune di Biella, serie III, sec. XX, mazzo 5.52.

[59] Ivi, mazzo 16 (cfr. Franco, Dazio-consumo… cit., p. 76 sg.).

[60] ASB, Tribunale di Biella, Fascicoli penali, mazzo 746, p.p. contro Saettone Andrea.

[61] L’espressione, incisiva, è di M. Isnenghi, in La tragedia necessaria. Da Caporetto all’otto settembre, il Mulino, Bologna 1999, pp. 8 sgg.

[62] Dentoni, «Questione alimentare» … cit., p. 635.

[63] Cfr. Istruzioni per l’applicazione del razionamento, Stabilimento Tipografico Soc. Cartiere Centrali, Roma 1917.

[64] Comune di Ponderano, mazzo 20.

[65] ASCB, Comune di Biella, serie III, sec. XX, mazzo 11.10, Lettera del Sindaco al Direttore dell’Unione Cooperativa Biellese, 27 maggio 1918.

[66] Ivi, mazzo 5.53, Ricorso del Presidente del Consorzio daziario di Biella a S.E. il Ministro delle Finanze, 25 gennaio 1919.

[67] Ivi, mazzo 3.24.

[68] Isnenghi, Rochat, La Grande Guerra… cit., p. 470.

[69] In forza del regio decreto n. 403 del 5 aprile 1920 continuò a restare vietata la vendita al pubblico ed il consumo nei pubblici esercizi delle carni bovine, bufaline, ovine, caprine, suine ed equine, fresche, congelate, conservate crude o cotte ed in scatola, nei giorni di giovedì e venerdì. Esulavano dal divieto solo le carni dei volatili da cortile, la cacciagione, la selvaggina nonché le frattaglie di ogni specie e gli insaccati (tranne zamponi, cotechini e salsicce).

[70] Cfr. Secchia, Capitalismo e classe operaia… cit., p. 324, per un quadro sintetico dei problemi: i mercati esteri persi, l’organizzazione sconvolta, i magazzini ricolmi di invenduto, la manodopera eccedente, le difficoltà della riconversione.