DESAPARECIDOS  Persone sequestrate e detenute in forme non legali e clandestine da forze di repressione di Paesi a regime dittatoriale (per lo più militare), e sulla cui sorte le autorità si rifiutano di fornire informazioni. Lo stato di detenzione clandestina permette infatti il più largo impiego di brutali, e in genere mortali, torture sui sequestrati, e assai spesso anche la loro eliminazione fisica senza formale condanna e senza pubblicità alcuna; al tempo stesso ingenera un clima di diffuso terrore nella popolazione, volto a scoraggiare ogni possibile attività di resistenza. In particolare, si parla di d. nel caso delle persone sequestrate, e molto spesso torturate e uccise, dai regimi militari al potere in Argentina e Cile negli anni Settanta del sec. 20°, nel quadro della «guerra sporca» e dell’operazione Condor avviate in quegli anni. In gran parte i d. erano oppositori e attivisti politici o sindacali, giudicati sovversivi; moltissimi tra loro i giovani, talora anche minorenni. In Cile il fenomeno iniziò all’indomani del golpe di A. Pinochet che rovesciò il governo di S. Allende (11 sett. 1973), dando avvio a un duro regime para-fascista, con arresti e sparizioni di massa. Il fenomeno dei d. si manifestò poi in modo ancor più rilevante in Argentina, dove durante la dittatura di J.R. Videla, dei militari e dell’Alleanza anticomunista argentina (1976-82) fu molto frequente la pratica dei sequestri da parte di squadre non ufficiali della polizia o dell’esercito. Molti degli attivisti rapiti venivano sedati e poi lanciati da aeroplani nell’oceano o nel Rio della Plata, nei cosiddetti «voli della morte»; altri inviati in campi di concentramento. Lo scandalo dei d. emerse anche a seguito della coraggiosa battaglia delle madri di molti di loro che, organizzandosi nel movimento delle Madres de Plaza de mayo, ogni settimana scendevano in piazza per chiedere la verità sulla sorte dei loro figli. Si calcola che in Argentina, durante la dittatura, siano scomparsi circa 30.000 oppositori politici; circa 9000 sono stati censiti dalla commissione istituita dal presidente argentino R. Alfonsín nel 1983, allorché nel Paese fu ripristinata la democrazia parlamentare.


 

Ventiquattro marzo 1976. Tutto finì all’una di notte, quando il generale José Rogelio Villareal disse a Isabel Martínez de Perón: «Signora, le Forze armante hanno preso il controllo politico del Paese. Lei è in arresto».

Il controllo del Paese fu assunto da una triade di comandanti: il tenente generale Jorge Rafael Videla, l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera e il generale di brigata Orlando Agosti.
Fu il maggior genocidio nella storia del Paese: 30 mila desaparecidos e 500 bambini rubati, secondo le madri di Plaza de Mayo, 7/8 mila morti ammazzati secondo lo stesso Videla, che già nel 1977 aveva dichiarato: «In ogni guerra ci sono persone che sopravvivono, altre che rimangono invalide, altre che muoiono e altre che spariscono. L’Argentina è in guerra e la sparizione di alcune persone è una conseguenza non desiderata di questa guerra».


ARGENTINA, QUELLA “GUERRA SPORCA” CHE LACERÒ LA CHIESA CATTOLICA

Il 24 marzo 1976, una giunta militare guidata dai comandanti dell’Esercito Jorge Videla, della Marina Eduardo Massera e dell’Aeronautica Orlando Agosti depone la presidente dell’Argentina “Isabelita” Peron e instaura la dittatura militare. Per il Paese sudamericano è l’inizio di una tra le pagine più drammatiche della propria storia, che conosce conclusione solo nell’ottobre del 1983, con il ritorno alla democrazia e l’elezione alla presidenza di Raul Alfonsin.

Il colpo di Stato, che le forze armate stanno organizzando da almeno un anno, viene da lontano. È figlio della crisi economica che attanaglia l’Argentina, del clima da guerra civile che rende il Paese una replica aggiornata delle pagine più cupe di Hobbes – il tutti contro tutti vede affžrontarsi peronisti e antiperonisti d’ogni fatta e tendenza, sindacalisti ed ecclesiastici, guerriglieri e militari – e di politiche di governo che puntellano con la violenza la propria debolezza e invece di porvi rimedio aumentano il disordine.
Giunta la loro ora, i leader della junta – imbevuti di nazionalismo, anticomunismo e cattolicesimo ultramontano – annunciano che «le forze armate hanno preso in mano la guida dello Stato» allo scopo di «farla finita con il disordine, la corruzione e l’azione sovversiva».

È l’inizio del cosiddetto processo di riorganizzazione nazionale, incardinato su due grandi obiettivi: da un lato normalizzare un’economia alla deriva, incarico assunto da uno dei due soli civili della junta, il ministro Martinez de Hoz, che prova (invano) a porvi rimedio aprendo il Paese agli investitori esteri e ai loro capitali; dall’altro, per l’appunto, ritornare all’ordine, alla disciplina e alla pace sociale – parole care anche agli industriali, agli agrari e ai ceti medi – e dunque reprimere la «sovversione». Tuttavia, i nuovi leader argentini interpretano quest’ultimo termine in maniera decisamente estensiva: come ha proclamato rudemente Videla, per stroncarla e riportare la pace «dovranno morire tutte le persone che sia necessario».

Convinte di combattere una guerra contro un nemico interno con il quale non sono possibili patteggiamenti, di incarnare il bene tanto quanto gli avversari il male, in breve, di essere strumenti della provvidenza divina, le forze armate non limitano l’attacco alle manifestazioni più evidenti della sovversione – si ponga il caso, stroncando la guerriglia dei montoneros – ma puntano a estirparla alle radici, a distruggerne ogni canale d’infiltrazione, dalle scuole alle università, dalle fabbriche ai giornali.
A tal fine, apprestano misure e strutture repressive tanto uffi•ciali quanto clandestine.

Sul primo versante, ciò che si realizza è né più né meno che lo scardinamento dello Stato di diritto: aggiornamento sine die dello stato d’assedio, restrizione della libertà di stampa e di associazione, riordino (previa purga) della magistratura, ampliamento della giurisdizione dei tribunali militari su quelli civili, ripristino della pena di morte e via discorrendo. Sul secondo versante ciò che si organizza è un apparato repressivo occulto, destinato alla soppressione fisica dei nemici. Poiché i generali tengono enormemente alla loro immagine di rispettabilità internazionale (anche il mundial di calcio del 1978 dovrebbe contribuire a ripulirla dal fango della guerra sporca) e a non fare la figura dei boia come il vicino Pinochet – con il quale i rapporti sono oltremodo tesi – è a questo livello, pervicacemente negato, che il terrorismo di Stato si scatena in tutta la sua ferocia.

Per colpire gli obiettivi selezionati il metodo è quasi sempre lo stesso: nella notte, a bordo d’una Ford Falcon in dotazione alla polizia, 5 o 6 uomini si presentano a casa della vittima – che però può anche essere prelevata per strada, sul posto di lavoro o di studio – la incappucciano, la sequestrano e la conducono verso uno dei molti centri di detenzione clandestina allestiti dalle forze armate:
tra questi, più tristemente noti divengono il Campo de Mayo e la Escuela de Mecanica de l’armada, entrambi a Buenos Aires. Qui gli arrestati subiscono ogni tipo di sevizia – la peggiore è la picaña, la tortura tramite scariche elettriche – e infine partono per il volo: imbarcati su aerei, vengono sedati, condotti sull’oceano e, una volta denudati, gettati a mare dai portelloni. È la sorte dei desaparecidos, circa 30 mila persone – operai (il 30%), studenti (il 21%), impiegati (il 18%), docenti (oltre il 5%), giornalisti (oltre l’1,5%), due terzi dei quali hanno tra i 16 e i 30 anni – che scompaiono senza lasciar traccia di sé.

Mentre il Paese precipita in quest’orgia di violenza, che cosa fa la Chiesa? Finisce lei pure travolta nella barbarie, vivendo la più grande crisi che l’abbia mai lambita. Ma, al di là di ogni vulgata, sarebbe errato assegnarle un ruolo soltanto. Fin dalla creazione dello Stato, e ancor più dagli anni d’oro di Peron (1946-1955), il cattolicesimo impregna ogni aspetto della vita del Paese; e là dove tutto è cattolico – ha scritto Loris Zanatta – la Chiesa finì «per interpretare tutti i ruoli: benedisse militari e crebbe guerriglieri, protesse operai e confessò industriali, invocò il Cristo rivoluzionario e il Dio antisovversivo».
Basta uno sguardo, dunque, per cogliere nel corpo ecclesiale tutto e il contrario di tutto.

C’è il vicario castrense Adolfo Tortolo, intimo dei militari, che intende il proceso come un’opera d’espiazione e c’è il suo clero, che – tra infiltrazioni e delazioni – è largamente coinvolto nell’opera di repressione se non nella stessa logistica della violenza. Ma c’è anche il vescovo di La Rioja, Enrique Angelelli, impegnato a fianco dei più poveri, che denuncia la violenza dei militari e che finisce assassinato in un incidente d’auto simulato. Ci sono vescovi che, in nome d’una lunga consuetudine tra Chiesa e forze armate, non concepiscono neppure l’idea di giungere a uno scontro con la junta, ora approvandone i metodi – d’altronde, se i nemici dell’Argentina (ovvero dei militari) «stanno col demonio… devono pagare le conseguenze» – ora cercando di utilizzare quell’antica familiarità per tentare di moderarli.

C’è la Conferenza episcopale argentina, spaccata a metà e incapace di produrre un documento di condanna del regime, ma solo pagine annacquate dagli estenuanti compromessi su cui si attesta per non spaccarsi. E ci sono gli ordini religiosi, dai Gesuiti che il provinciale Jorge Mario Bergoglio sta faticosamente tentando di riportare all’unità dopo la grande sbornia del connubio tra fede e rivoluzione, ai Pallottini colpiti perché accusati di essere «terzomondisti» e «avvelenatori» della gioventù argentina, fino ai Piccoli fratelli del Vangelo, la cui Congregazione viene completamente annientata per la sua vicinanza agli ultimi della terra.

Infine c’è Pio Laghi, il nunzio inviato da Paolo VI in Argentina, che parte nutrendo qualche fiducia nel regime, giunge presto ad avversarlo, barcamenandosi tra leader politici che professano una cattolicità del tutto sorda ai richiami romani, una Chiesa che non può prendere posizione se non acuendo le proprie fratture, un clero rivoluzionario che va ricondotto all’obbedienza e uno tradizionalista che non va spinto tra le braccia di Lefebvre. Il risultato finale non può che essere un miscuglio di diplomazia e coraggio, paura e silenzi, omissioni e partecipazioni alla violenza.

Del dramma argentino che cosa resta oggi? Nonostante tutti i leader della junta siano morti – Agosti nel 1997, Massera nel 2010, Videla nel 2013 – come ha ricordato il premio Nobel per la pace Pérez Esquivel (ai tempi del proceso imprigionato e torturato) la loro scomparsa non ha significato la scomparsa del male arrecato all’Argentina. Cessata la violenza sui corpi sono restate, e per alcuni aspetti restano ancora, le ferite della memoria. Eppure, tra non poche contraddizioni, il Paese ha provato a fare i conti con il passato, vuoi costretto dalla tenacia delle madres e delle abuelas di Plaza de Mayo, vuoi dai processi che – nonostante l’amnistia Menem del 1989-1990 – hanno toccato molti tra i maggiori (e mai pentiti) responsabili del proceso.

Nel 2000, anche la Chiesa argentina – primate Bergoglio – è giunta a confessare le proprie colpe riguardanti «la violenza guerrigliera e la repressione illegittima che hanno messo a lutto la nostra patria» e a chiedere perdono «per i silenzi responsabili e per la partecipazione effettiva di molti dei tuoi figli a una situazione di così grave scontro politico, all’oltraggio alle libertà, alla tortura e alla delazione, alla persecuzione politica e all’intransigenza ideologica, alle lotte e alle guerre e alla morte assurda che hanno insanguinato il nostro Paese».

da www.famigliacristiana.it


Già nel marzo del 2011 Martín Guevara figlio di Juan Martín, fratello minore del Che, aveva denunciato la tacita alleanza tra le due dittature. Ma non c’erano documenti che lo provassero. Nel novembre 2014 il Ministero degli esteri argentino ha pubblicato 70 documenti che provano l’appoggio tra i due governi.. I documenti testimoniano anche l’aiuto che Cuba offrì nel 1982  durante la guerra delle isole Falkland/Malvinas contro l’Inghilterra.

La dittatura argentina, attraverso il Plan Condor ordito dalla CIA, sosteneva con la complicità il premio Nobel per la pace Henri Kissinger, la giunta golpista argentina, che a sua volta forniva i cereali a Mosca  che a sua volta ordinava ai compagni dei partiti comunisti di tacere su quanto accadeva in Argentina.

Così Cuba non solo rimase zitta davanti ai crimini del governo Videla, ma diede appoggio diplomatico alla dittatura nei forum internazionali, evitando che l’Argentina fosse condannata per violazione dei diritti umani.


 

BIBLIOGRAFIA

  • Argentina 1976-2001. Filmare la violenza sotterranea. Con due sceneggiature scritte con Lara Frender: Garage Olimpo e Figli/Hijos, di Marco Bechis – Ubulibri, Milano 2001
  • Desaparecidos. La sentenza italiana contro i militari argentini, a cura di G. Miglioli – Il Manifesto Libri, Roma 2001
  • Il volo, di Horacio Verbitsky – Feltrinelli, Milano 1996
  • In Sudamerica, di Italo Moretti – Sperling & Kupfer, Milano 2000
  • Le irregolari, di Massimo Carlotto- Edizioni E/O, Roma 1998
  • Non piangere Argentina, a cura di Maurizio Chierici – l’Unità Edizioni, Roma 2003
  • Splendori e miserie del gioco del calcio, di Eduardo Galeano- Sperling & Kupfer Editori, Milano 1995
  • Storia dell’età moderna e contempoanea. Volume terzo 1945-1990, di Massimo L. Salvadori – Loescher, Torino 1990
  • Un continente desaparecido, di Gianni Minà – Sperling & Kupfer, Milano 1995