La Tragedia è un genere teatrale di origine greca. È attestato  che essa trovi le sue origini nei culti dedicati a Dioniso, in origine il dio degli alberi, dei fiori e dei frutti,  e in generale del mondo naturale; più avanti divenne anche il dio della vite e del vino. La stessa parola “tragedia” (dal greco τραγῳδία, parola formata dall’unione del sostantivo tragos, il capro, e oidè, il canto) è un richiamo ai riti dedicati a Dioniso, cioè, originariamente, delle danze in cui i danzatori erano vestiti da capri, (da cui l’origine del sostantivo), accompagnate da riti orgiastici, che producevano nei suoi fedeli (i baccanti, dal secondo nome del dio Bacco) stati di ebbrezza e di esaltazione psicofisica, grida e contorti e sconclusionati movimenti del corpo: una vera e propria pazzia, (argomento di cui tratta la tragedia di Euripide Baccanti).

La figura di Dioniso è passata alla storia e alla letteratura come il simbolo delle passioni, dell’irrazionalità e sfrenatezza, valori considerati, nel periodo dell’Umanesimo, del Neoclassicismo e del Romanticismo nettamente in contrasto con l’immagine della grecità come trionfo della ragione, dell’ordine, dell’armonia, proporzione e compostezza. Gli umanisti  del ‘400 consideravano solo questo lato della tragedia e dell’Uomo Greco per come è passato alla storia, l’uomo ateniese del V secolo, l’uomo del trionfo della democrazia ad Atene, che ha vissuto il periodo della massima fioritura artistica e culturale, l’uomo della ragione, il cittadino attivo e partecipe nella politica della sua città, l’uomo della polis greca nella sua massima espressione di individualismo e indipendenza: in una parola, Apollo.

La storia politica di Atene ha avuto uno sviluppo indipendente da quello delle altre poleis, in particolare per quanto riguarda la forma di governo, che cambiò e crebbe nei secoli precedenti al V a.C., diventando una democrazia sempre più allargata ed inclusiva (anche se anche nel periodo della massima inclusione i cittadini che avevano il diritto di voto non erano che una minima parte della popolazione), sotto personaggi come Solone, Clistene e soprattutto Pericle. La tanto decantata democrazia ateniese del V secolo, pur essendo di certo un’innovazione rispetto agli altri regimi del tempo che, al di fuori delle poleis greche, che già di per sé erano una novità molto moderna, erano  imperi e monarchie teocratiche, ha commesso forse un errore di autovalutazione, causato dall’indiscutibile unicità del suo caso.

IL cittadino ateniese, forte della sua virtù cittadina, incentrata sulla libertà e sul senso di responsabilità, secondo cui è un diritto-dovere fondamentale di ogni uomo libero partecipare attivamente alla vita pubblica, ammira e ama l’arte, l’architettura, il teatro, la letteratura, la scienza, la medicina, tutti ambiti in cui in questo periodo fiorente si riscontra un fortissimo sviluppo: vediamo Ippocrate con tutti i suoi scritti di medicina, Fidia, l’artista a cui venne affidata la realizzazione di numerose opere pubbliche, tra cui il Partenone; è l’epoca d’oro dei grandi tragediografi Eschilo, Sofocle, Euripide e del commediografo Aristofane ed è anche il periodo in cui assistiamo allo sviluppo della storiografia, con Erodoto e Tucidide. Anche la filosofia pose le basi per accogliere i grandi pensatori come Socrate, Platone.

Attorno al 450 a.C. lo scultore Policleto scrisse il suo celebre Canone, un trattato andato perduto sulle proporzioni dell’anatomia umana che teorizza i temi della bellezza e dell’armonia del corpo, stabilendo rigide misurazioni degli arti e del volto che definiscono, escludendo tutto ciò che non è perfetto, il BELLO in quanto tale, che non può essere altro che ciò che è anche giusto, demonizzando ogni altra possibilità di bellezza, che non può assolutamente essere soggettiva. Il Doriforo (“portatore di lancia”), il capolavoro di Policleto, è la programmatica realizzazione delle sue teorie estetiche. Tutta la figura del soldato è costruita su multipli e sottomultipli di un modulo proporzionale, e l’unità della composizione è data dalla coerenza geometrica dell’insieme. Il principio alla base del Canone è che l’armonia del corpo sia espressione della perfezione morale, concetto contenuto nel noto ideale greco della kalokagathìa,in cui καλός e ἀγαθός, bello e buono sono inseparabili. E per bello si intende ordine, armonia, per bello si intende razionale, esatto. In una parola, Apollo.

In netta contrapposizione con questo stile definito classico abbiamo invece le rappresentazioni di Dioniso, sopravvissuto in arte anche se esiliato dal suo teatro, nell’arte del periodo ellenistico (III-I sec. a.C.). L’arte ellenistica si allontana molto dal Canone di Policleto, a favore di figure dalla forte sensualità, con un richiamo ai riti orgiastici dedicati a Dioniso.  Una sensualità priva di regole, libera e sfrenata caratterizza infatti i compagni del tìaso del dio, come fauni, satiri e sileni, contorti in pose provocanti che esprimono un desiderio sessuale o una forte passione, il disequilibrio, la sfrenatezza e l’irrazionalità. La statua del Satiro Danzante, nella sua contorta danza, è un  esempio dell’audacia compositiva, fluidità e intensità che sarà sempre associata a Dioniso.

Ma chi è il vero uomo greco? Apollo o Dioniso?

Apollo, il dio del Sole, con le nove Muse custodi e protettrici delle arti, simbolo dell’ordine, della ragione e dell’armonia, trova il più grande trionfo nell’Atene del V secolo, soppiantando completamente l’altro lato della medaglia, il suo opposto Dioniso, fissando così un’immagine dell’uomo greco che però manca di un elemento fondamentale per la sua completezza, cioè manca di tutto ciò che Apollo per sua natura rinnega, cioè la passione e l’irrazionale follia di Dioniso. Di certo, il Socrate del quinto secolo trasse moltissimo vantaggio nello sviluppo del suo pensiero da questo trionfo della ragione, l’uccisione di Dioniso a favore di una nuova “serenità greca” calma, pacata, fino alla visione edonistica di Epicureo. Una crescita esponenziale del mito di Apollo, ma a costo di una tragica e fatale, per l’immagine della grecità successiva, mutilazione nell’essenza dell’uomo greco. Il risultato di questa insanabile ferita è lo stesso che troveremmo se, nel mito platonico, l’auriga che deve guidare e coordinare il cavallo nero, simbolo della libido e dell’amore carnale, e quello bianco, simbolo dell’anima passionale, dotata di sentimenti di carattere spirituale, lasciasse andare il cavallo nero (nel paragone, Dioniso): il carro dell’auriga sbanderebbe completamente e perderebbe l’equilibrio, e il cavallo bianco (Apollo), non più compensato dal suo opposto, andrebbe in una direzione divergente rispetto a quella cui puntava l’auriga (allegoria dell’ego razionale nella tripartizione dell’anima freudiana). Questo paragone mostra bene come la tanto amata εγκράτεια (dominio di se stessi, autocontrollo) di Socrate, non sia altro che uno squilibrio delle naturali inclinazioni dell’uomo.

Chiaramente, Socrate era convinto che il grido, il dolore irrazionale e travolgente della follia di Dioniso fosse necessariamente un segno di declino, di decadenza, di fallimento, sostenendo come scopo della vita dell’uomo la sua felicità, raggiungibile tramite il pensiero razionale. Nessuno, nel periodo dell’Umanesimo, Neoclassicismo e Romanticismo ha messo in dubbio questa visione positiva, ottimistica.

 

Ma perché proprio Apollo, che nelle rappresentazioni degli dei olimpici non occupa che una posizione laterale, poco pretenziosa e appariscente, ha avuto quest’infinito successo e questo ruolo fondamentale nello sviluppo dell’arte, della letteratura greca?

Il filosofo tedesco Nietzsche, nella sua opera d’esordio La nascita della tragedia, pubblicata del 1876, dà una spiegazione al ‘geniale edificio della cultura apollinea’, risalendo alle prime origini dell’intero mondo divino.

Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza, testimoniati dall’immenso dolore tramandato da miti e racconti popolari: l’impotenza degli uomini di fronte alle forze titaniche della natura, l’avvoltoio torturatore di Prometeo, la Moira spietata troneggiante su tutto e tutti, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio; tutto questo non poteva sortire altro effetto che far sprofondare gli uomini in un ceco terrore per la vita stessa.

Stirpe malata e effimera, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggioso non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, NON ESSERE, essere NIENTE. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto”. Le aspre parole del Sileno di uno dei più antichi racconti popolari, che risponde così alla domanda di un re che, dopo averlo catturato, si chiedeva quale fosse la cosa migliore da fare, ci mettono di fronte a due opzioni, una delle quali irrealizzabili. Quello che fecero i Greci fu rivendicare una terza possibilità: scelsero di vivere, nonostante tutto il dionisiaco che c’è nell’esistenza, ma per farlo, ebbero bisogno dell’aiuto di qualcuno che potesse rivaleggiare con il dio silvestre: ebbero bisogno per forza, per vivere, di Apollo. L’impulso di bellezza che prese figura sensibile nel dio del Sole generò l’ordinamento divino olimpico della gioia, come le rose che spuntano dai cespugli spinosi. L’unico modo che il popolo greco ebbe per sopportare di vivere fu quello di separarsi quasi fisicamente dalla propria esistenza per donarla agli dei, perché questi la mostrassero loro circonfusa da una gloria superiore. Lo stesso impulso che suscita l’arte, come completamento e perfezionamento dell’esistenza che induce a continuare a vivere, fece nascere il mondo olimpico. Così gli dei giustificano la vita umana vivendola essi stessi.

Questa spiegazione mostra e dimostra come, per garantire l’esistenza di entrambi, non ci può essere un trionfo di Apollo su Dioniso, o viceversa: per esprimere il concetto in termini filosofici, è valida la coincidentia oppositorum di Eraclito, e cioè le due parti non possono essere considerate opposte, né si può dare un giudizio di valore sull’una o sull’altra: l’esistenza di entrambe è infatti garantita dalla continua lotta con l’altra parte, un infinito conflitto che non può avere fine né può presentare un vincitore, perché questo significherebbe la morte di entrambe le parti. Non esiste Apollo senza Dioniso, non esiste Dioniso senza Apollo.

  Ed ecco che Apollo non poteva vivere senza Dioniso! Il “titanico” e il “barbarico” erano alla fine una necessità, così come lo era l’apollineo. E ora immaginiamo come gli accenti estatici delle feste di Dioniso risuonassero, in questo mondo costruito sull’illusione  e la moderazione e ingegnosamente arginato, con melodie incantate e sempre più allettanti, come in queste tutto l’eccesso della natura si palesasse in gioia, dolore e conoscenza, fino al grido lacerante; immaginiamo che cosa potesse significare, rispetto a questo demonico canto popolare, il salmodiante artista di Apollo, con il suono spettrale della sua arpa! Le Muse delle arti dell’illusione impallidirono davanti a un’arte che nella sua ebbrezza diceva la verità, la saggezza di Sileno gridò il suo dolore contro i sereni dei olimpici. L’individuo con tutti i suoi limiti e le sue misure sprofondò qui nell’oblio di sé degli stati dionisiaci e dimenticò i canoni apollinei.

(Nietzsche, La nascita della tragedia)

 

“C’è un pessimismo della forza? Un’inclinazione intellettuale per ciò che nell’esistenza è duro, raccapricciante, malvagio e problematico, in conseguenza di un benessere, di una salute straripante, di una pienezza dell’esistenza? C’è forse un soffrire della stessa sovrabbondanza? Una sperimentante prodezza dello sguardo più acuto, che anela al terribile, come al nemico, al degno nemico su cui può provare la sua forza? Da cui vuole apprendere che cosa sia la paura? Che cosa significa, proprio presso i Greci dell’epoca migliore, più forte, più valorosa, il mito tragico? E l’enorme fenomeno del dionisiaco? Che cosa significa la Tragedia, nata da esso? E d’altra parte, ciò per cui la tragedia morì, il socratismo della morale, la dialettica, la moderazione e la serenità dell’uomo teoretico, – ebbene, non potrebbe essere proprio questo socratismo un segno di declino, di stanchezza, di malattia, di instinti che si dissolvono anarchicamente? E la “serenità greca” della grecità posteriore non potrebbe  essere solo un tramonto? 

(Nietzsche, La nascita della tragedia)

 

L’importanza della tragedia greca nel comprendere a fondo la vera grecità sta nel fatti che essa ha conservato invariata nei secoli la presenza di Apollo e quella di Dioniso: anche quando quest’ultimo sembrava essere stato sconfitto, ecco che invece ha continuato a vivere nell’unico luogo in cui persisteva lo spirito originario. La rappresentazione della tragedia ha come spina dorsale il ruolo del coro, il primo a entrare in scena e l’ultimo a lasciarla. Schlegel considerava il coro lo spettatore ideale, composto e sempre consapevole di non avere di fronte altro che un’opera d’arte: più questo spettatore ideale riesce a cogliere e analizzare l’estetica dello spettacolo, più sarà considerato dotato. Nietzsche, al contrario, afferma che il coro greco è costretto a riconoscere nelle figure della scena esistenze concrete, deve voler correre in scena per intervenire nelle vicende dello spettacolo. Secondo Nietzsche la tragedia greca è nata dall’aver posto sopra una realtà inventata personaggi inventatati, liberandola così dall’obbligo di riprodurre ligiamente la realtà, senza però essere intesa come un mondo immaginario: la tragedia ha per il Greco la stessa credibilità che hanno gli dei dell’Olimpo, ed è dunque considerata una realtà trascendente al mondo terreno ma non per questo meno tangibile e reale. Il coro, il punto di partenza da cui nasce la tragedia, trasmette tutta la musica e la saggezza dionisiaca, appartenente da sempre allo spirito greco. Gli spettatori di ogni classe sociale che prendevano parte alla rappresentazione si sentivano tutti annullati al cospetto del coro dionisiaco, che è quindi in grado di appianare tutti gli abissi e le differenze tra le persone, generando in loro un sentimento di unità che li riconduce alla grecità originale, a prescindere dal periodo storico e in generale da ogni cosa che si trovi all’esterno del teatro. Trascinato dal coro, lo spettatore vive in prima persona le vicende narrate, soffre insieme a Prometeo ogni volta che l’aquila gli divora il fegato, e alla fine, come se avesse vissuto in prima persona le vicende narrate, se ne esce purificato (κάθαρσις, catarsi). L’apollineo invece emerge nei dialoghi, trasmettendo una serenità che ricorda uno stato di sogno, nettamente in contrasto con il “mare eterno, il mutevole agitarsi, la vita ardente”  che è la musica del coro. Apollo è l’epos, è la cura, è la determinazione degli eroi tragici, la possibilità di salvezza.

 

Fonti:

  • La nascita della tragedia, Friedrich Nietzsche
  • Lezioni di letteratura latina, Gian Biagio Conta, Emilio Pianezzola
  • Filosofia antica e medievale, Antonello La Vergata, Franco Trabattoni
  • Invito all’arte, Carlo Bertelli

ARTICOLO DI TERESA PIDELLO DELLA CLASSE III B DEL LICEO CLASSICO