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Tra il 1960 e il 1965, gli Stati Uniti conoscono, come tutti i paesi capitalisti avanzati, una crisi sociale senza precedenti, segnata da lotte di minoranze che rimettono in discussione i valori della società americana. Queste lotte hanno origine dall’attenzione rivolta ai conflitti del Terzo Mondo in cui gli Stati Uniti intervengono, sia finanziariamente sia militarmente, come in Corea e nel Vietnam, e rendono coscienti i gruppi minoritari americani della loro stessa oppressione.

La gente di colore analizza l’oppressione culturale ed economica cui è sottoposta e rivela l’esistenza “dell’altra America”, quella della povertà e della miseria psicologica. Questa America, che è la negazione del mito d’un paese prospero in cui tutti hanno uguali possibilità, spinge numerosi intellettuali a interrogarsi sul ruolo da essi svolto nella società e alcuni tuffandosi nell’attivismo rivoluzionario danno origine al movimento “hippy”. Gli hippy insorgono contro la repressione della sensibilità e dell’amore, sono pacifisti e antimilitaristi e riaffermano la validità dei sentimenti dell’individuo. L’indiano spesso serve loro da modello e del tribalismo e dell’amore verso la natura ne fanno una vera filosofia. Essi sono i primi abitanti del Nuovo Mondo e per millenni hanno vissuto in armonia con la natura. Gli importanti progressi degli studi preistorici e archeologici ci permettono di conoscere meglio le antiche società indiane, che avevano sviluppato tecniche e abitudini di vita molto originali.

Quando i primi uomini mettono piede sul continente americano, 35.000 anni prima della nostra era, devono aprirsi un varco attraverso l’enorme massa di ghiacciai che ricoprono tutto il nord dell’America. Discendono in seguito verso il sud, dove la selvaggina è più abbondante, costeggiando i fiumi Yukon e Mackenzie, e seguono la costa dell’oceano Pacifico, dove si aprono un varco tra i ghiacciai delle Montagne Rocciose e quelli che ricoprono la regione dei Grandi Laghi. Approdano così in regioni dal clima più mite, dove a foreste di betulle, ontani e conifere, s’alternano verdi praterie ricche di selvaggina. Il gran numero di scheletri ci permette di ricostruire la fauna di tale periodo, ma non solo anche dei territori presenti in quest’epoca. Nella zona delle Pianure (ovvero le praterie che si estendono dal Canada centrale fino al Messico e dal Midwest alle Montagne Rocciose) si erano installate popolazioni che vivevano in piccoli gruppi nomadi al seguito delle grandi mandrie di bisonti, in quanto la caccia ha costituito la principale risorsa alimentare fino al 1890, anche se lungo il Missouri e altri fiumi delle pianure erano presenti rare forme di agricoltura stanziale. La densità abitativa era molto bassa.

Tra i primi abitanti delle praterie possiamo ricordare i Blackfeet (cacciatori), i Mandan e gli Hidatsa (agricoltori); in seguito, quando i coloni europei conquistarono le zone orientali ricche di foreste, molte popolazioni del Midwest si spostarono nelle Pianure: tra questi i Sioux, gli Cheyenne e gli Arapaho, preceduti dagli Shoshoni e dai loro parenti Comanche, provenienti però dal Gran Bacino. Quando il cavallo fu introdotto dagli europei (XVII secolo) e poi si diffuse in tutte le Grandi Pianure (XVIII secolo), nella zona si mescolarono tutta una serie di popoli precedentemente sedentari, disturbati dai cacciatori-guerrieri a cavallo delle zone vicine. Gli antichi raccoglitori e agricoltori d’estate cominciarono a organizzarsi in accampamenti di dozzine di tipi (tende coniche fatte di pelli, corteccia di betulla o teli) trasportabili, disposti in cerchio, per praticare la caccia al bisonte in maniera intensiva.

In particolare i Blackfeet (i Piedi neri) erano soliti eseguire la caccia al bisonte, una pratica che richiedeva la partecipazione dell’intera comunità, la quale doveva occuparsi della costruzione di grandi trappole per bisonti, che rendevano possibile l’abbattimento di intere mandrie. Il gruppo di caccia si occupò dello sviluppo di un’opera permanente su larga scala che ha trasformato vaste aree di terreno in recinzioni artificiali per facilitare la cattura della selvaggina. La costruzione dei recinti è una modifica territoriale, che sfrutta il principio dell’allevamento brado, pratica resa possibile sia dalle grandi dimensioni del gruppo di caccia sia per la suddivisione del territorio di caccia da parte delle tribù. I Piedi neri erano suddivisi in tribù, caratterizzate da comuni tradizioni, riti cerimoniali e una solida struttura economica-sociale; gli spostamenti stagionali delle tribù dipendevano dai movimenti delle mandrie di bisonti, che in primavera migravano verso est.

In questa stagione le tribù elaboravano un grande accampamento estivo e si riunivano in un’unica tribù, per la caccia collettiva del bisonte, che consisteva in un accerchiamento della mandria da parte del cospicuo gruppo dei cacciatori, i quali agivano tramite movimenti coordinati. L’accampamento estivo, quindi, era composto da un vasto cerchio di tende, disposte su più file e di molte centinaia di metri di diametro. La caccia invernale, invece, dipendeva dalla proprietà che ciascuna singola tribù aveva su un determinato territorio; all’inizio dell’inverno ogni gruppo si ritirava nella sua zona e costruiva l’accampamento in luoghi riparati, dove avveniva l’instaurazione della caccia sedentaria, la quale era condotta autonomamente dalle singole tribù. Le mandrie di bisonti venivano direzionate in grandi trappole, ovvero grandi opere permanenti costruite in luoghi specificatamente scelti, che permettevano a un gruppo di caccia appiedato e non molto numeroso di uccidere una grande quantità di selvaggina. Le opere permanenti erano costituite da recinti, formati da tronchi, terra o pietre e venivano situate sul fondo delle vallate o alla base di una collina; sull’altura venivano elaborati due sbarramenti laterali, lunghi centinaia di metri, costruiti con cumuli di pietre o tronchi, che nei pressi del recinto divenivano più fitti e convergenti; di conseguenza la mandria veniva incanalata, spinta e intrappolata.

Anche nelle zone pianeggianti era impossibile praticare questo sistema, così che ogni singolo gruppo costruisse trappole interamente artificiali, una delle più comuni consisteva nell’elaborazione di un recinto a forma di cerchio, formato da tronchi e rami, con un’apertura in cui le pareti aumentavano di altezza fino a raggiungere due metri. L’ingresso del recinto era un ponte di tronchi, alto poco più di un metro, che determinava la caduta rovinosa dei bisonti, inoltre, per impedire che uscissero dalla trappola l’accesso veniva chiuso con dei pali. Dunque, ricapitolando, durante il periodo invernale ogni singola tribù aveva il diritto di cacciare il bisonte solamente nel suo specifico territorio, delimitato da corsi d’acqua e colline. Il territorio di caccia era caratterizzato da numerose modificazioni, dovute alle costruzioni di molteplici recinti-trappola, i quali erano costruiti nei luoghi maggiormente frequentati dalle mandrie, di conseguenza la caccia da attività nomade divenne sedentaria, quindi i luoghi hanno assunto la funzione di riserva alimentare di ogni specifica tribù. Ogni tribù era comandata da un capo, il quale non otteneva l’incarico tramite eredità bensì per il prestigio guadagnato durante l’attività di caccia; inoltre all’interno dell’accampamento estivo tra i capi dei diversi gruppi venivano scelti quelli che dovevano occuparsi della gestione dell’andamento della caccia e delle cerimonie estive.

indiani prigionieri ad Alcatraz

I nativi americani sono molto abili nel caccia e con l’aiuto di archi e frecce riuscirono a sopravvivere di caccia di carne selvatica. Nel Nord America, l’arco esiste da circa cinquemila anni. Nel corso dei secoli, furono sviluppate numerose tipologie a seconda dei materiali disponibili, delle condizioni climatiche e delle preferenze personali degli artigiani. Come regola molto generale, i legni più duri, come l’osage orange, venivano utilizzati per costruire archi con sezione trasversale rettangolare, mentre quelli più teneri, come il tasso, per archi più larghi e sottili. Sulla West Coast, il legno migliore era il tasso, sebbene venisse utilizzato anche il ginepro, come pure l’hickory e il frassino. Questo legno era impiegato per costruire archi larghi e piatti, generalmente provvisti di un’impugnatura più stretta. Questi attrezzi avevano una larghezza di 3,2-3,8 cm all’impugnatura, di 4,4-5,4 cm a metà flettente e si assottigliavano fino a circa 2 cm nei puntali. Alcuni erano piatti nel ventre e leggermente arrotondati nel dorso. Altri erano nettamente ellittici nella sezione trasversale con il rinforzo in tendine lungo tutto il dorso fino ad entrambi le estremità.

Altri aspetti fondamentali della vita dei nativi americani interessava la religione, sebbene essa vari enormemente da una tribù all’altra, ci sono alcuni elementi che si possono incontrare frequentemente e sono condivisi da molte tribù.

Il peyotismo (conosciuto anche come religione del peyote) è il culto praticato dagli aderenti alla Chiesa Nativa Americana. È la più diffusa religione indigena tra i nativi americani in Canada, Messico e Stati Uniti. Il peyotismo è una religione sincretica, che combina elementi del cristianesimo e delle religioni tradizionali, e comprende l’utilizzo di un enteogeno, il peyote, un cactus privo di spine con effetti psichedelici. Il peyotismo è praticato in più di 50 tribù native americane e ha fra i 100.000 e i 300.000 aderenti. La religione peyotista è nata nello stato dell’Oklahoma, introdotta nella regione delle Grandi Pianure dal Messico. Uno dei suoi primi leader fu il capo comanche Quanah Parker. Il peyote è utilizzato in diverse regioni del Messico dai tempi delle civiltà precolombiane come medicina tradizionale per la psiche e per lo spirito, oltre che per comunicare con il soprannaturale. Alla metà del XIX secolo, l’uso del peyote si diffuse nell’area delle grandi pianure degli Stati Uniti, soprattutto tramite il popolo apache.

Mentre per gli agricoltori e gli allevatori del Sud-Ovest era comune la pratica dell’animismo, una forma primordiale di religiosità basata sull’attribuzione di un principio incorporeo e vitale (anima) a fenomeni naturali, esseri viventi e oggetti inanimati, in special modo per tutto ciò che incide direttamente con la vita di queste popolazioni ed è essenziale per la loro sopravvivenza: i prodotti alimentari e la loro caccia e raccolta, i materiali per costruire utensili, monili e ripari, i fenomeni atmosferici, la morfologia stessa del territorio. Tutto ciò viene riconosciuto come animato e progressivamente associato a forme di venerazione, spesso direttamente funzionali alla buona riuscita delle azioni quotidiane per vivere. Infatti i fenomeni meteorologici erano per loro manifestazione degli spiriti naturali che potevano essere evocati durante lo stato di trance, indotto da svariate sostanze psicotrope: funghi, erbe o cactus allucinogeni. Si poteva entrare in contatto con gli spiriti anche mediante il digiuno, l’isolamento forzato o prove cruente come la danza del sole, un rito di purificazione che consisteva nello stare appesi ad un palo per quattro giorni per abituare il guerriero a sopportare i più terribili dolori. Mediatori fra la tribù e gli spiriti erano i medicine-men, gli sciamani che insieme alle donne si occupavano anche della salute di tutti. I guaritori indiani utilizzavano soprattutto la salicina, sostanza contenuta nella corteccia del salice e dei pioppi ed usata contro febbri ed infiammazioni. Dai cicli della natura derivava anche la loro cosmologia che immaginava un universo circolare, dove tutto torna alla natura. Questa particolare concezione cosmologica era rispecchiata nel cerchio magico dove si svolgevano assemblee e riti sacri. Al centro di tutto stava il Grande Spirito: gli indiani delle Grandi Pianure lo chiamavano Wakan Tanka, gli Algonchini invece Manitò.

Ma comunque il soggetto principale della religione degli indigeni americani rimane la natura, ritenuta il luogo in cui ogni manifestazione diventava un segno della grandezza della divinità e teatro di rivelazioni meravigliose. Tutto si basava su miti e leggende costituite da figure allegoriche ed animali simbolici, frequentemente associati ad un legame di parentela totemica. In particolare per totem s’intende un’entità soprannaturale o naturale che ha un significato simbolico particolare per una persona o per una comunità. In particolare il toteismo, ovvero il culto basato sui totem, si basa sulla relazione esistente fra un insieme di animali, o più raramente piante e fenomeni naturali, e un insieme di gruppi umani come clan e tribù. In diverse tribù nordamericane si tagliavano e decoravano tronchi d’albero in maniera da rappresentare una serie di totem sovrapposti per formare così dei “pali di totem”. Ciononostante per brevità spesso i pali di totem vengono impropriamente definiti anch’essi “totem”. Ad ogni membro della tribù veniva associato un proprio totem e ciò avveniva tramite una cerimonia d’iniziazione. In particolare allo spirito totem del coyote si attribuiva la proprietà per cui l’uomo è in grado di superare situazioni difficili che sembrano impossibili da affrontare. Inoltre si pensava che aiutasse l’umanità nel progresso e nell’evoluzione. Nelle tribù il cui capostipite era considerato una divinità esso stesso diventava il totem del clan. Il totem aveva soprattutto la funzione di far ricordare ai membri del villaggio i propri antenati e mantenere così un saldo rapporto con loro, tanto più quando venivano rappresentati sui pali dei totem perché era come se il loro sguardo li scrutasse continuamente. Ma comunque molto importanti, sotto il profilo culturale, erano gli animali: secondo i loro miti, il corvo e il coyote insegnarono all’uomo l’uso del fuoco. Ma ogni popolo di nativi aveva il proprio totem, animale da cui si considerava discendente.

Secondo la mitologia di alcune stirpi indiane, sarebbe stato proprio il corvo a creare la terra: l’uccello, infatti, avrebbe portato nel suo becco i ciottoli che lasciava cadere in mare per formare le prime isole. Nella mitologia degli indiani d’America il corvo, infatti, assume un ruolo di guida e di spirito protettore, di rappresentante della magia, colui che apre la strada a dimensioni non fisiche, spirituali ultraterrene e che appare nei sogni per spronare, scuotere, anche spaventare al fine di mutare una realtà statica e banale, per aprire all’ignoto al mistero, per confrontare il sognatore con il suo potere interiore. Inoltre come spirito totem delle culture indiane e aborigene, il corvo sarebbe in grado di proteggere dalla magia nera e dalla stregoneria, oltreché essere di aiuto per la preveggenza di avvenimenti futuri. Ma in linea di massima per i popoli nativi americani il corvo, come animale forte, rappresenta l’ampliamento della coscienza: le sue piume nere costituiscono un passaggio verso l’infinito e, essendo in contatto direttamente con il Grande Spirito, può avere proprietà curative nei confronti della persona che lo evoca con la magia.

A seguire troviamo anche il coyote, il canide più diffuso nel Nord e Centro America e nella cultura dei nativi americani è considerato una figura sacra. Questo animale è sempre stato amato ed odiato al tempo stesso da queste popolazioni a causa del suo essere un instancabile predatore. Di conseguenza, pur essendo un antagonista dell’uomo, è stato anche frutto di ammirazione da parte dei nativi. Per questo motivo la sua figura è stata ammantata da toni mitici tanto negativi quanto positivi. Per la maggior parte delle tribù il coyote svolgeva un ruolo di trickster, ossia d’imbroglione, di briccone, di produttore di caos, di colui che non ha voglia di faticare molto, che ripete i medesimi errori perché non li memorizza, capace di trasformismo e quindi perfino d’assumere sembianze umane. Al tempo stesso però veniva anche visto come un eroe che si ribella contro le convenzioni sociali con stratagemmi ed umorismo. Le sue gesta positive avevano ad esempio portato all’umanità la conoscenza del fuoco e delle tecniche agricole oltre alla pietrificazione di alcuni mostri. Pur essendo imparentato con il lupo grigio il coyote presenta una dimensione inferiore ed un aspetto un po’ meno nobile e fiero anche perché da un punto di vista filogenetico è più antico del lupo. Se il lupo è il simbolo di coraggio, d’intelligenza e del senso di gruppo invece il coyote rappresenta opportunismo, astuzia ed insolenza.


SITOGRAFIA

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ARTICOLO DI AURORA DE VITA DELLA CLASSE IV B DEL LICEO CLASSICO

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