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https://www.albyphoto.it/articoli/cimitero-abbandonato-di-darola/

http://www.piemonteparchi.it/cms/index.php/territorio/architettura/item/465-il-principato-di-lucedio

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La “strada delle grange” è quella che va dalla città di Vercelli fino al paese di Crescentino. La distanza tra le due località è di circa 30 km, ma le deviazioni che si devono effettuare dalla strada maestra se si vogliono visitare i diversi luoghi d’interesse sono numerose e si finisce per percorrere molti più chilometri. Sul sito Internet di Borgo Ramezzana, una delle diverse grange, viene fornita questa descrizione:

Il paesaggio che possiamo ammirare tra Vercelli e Crescentino, in particolare durante il periodo della sommersione delle risaie, è davvero unico. Le Grange sembrano sorgere dall’acqua come piccole isole e, se siamo fortunati e la giornata è limpida, possiamo meravigliarci dinnanzi ai giochi di luce prodotti dall’acqua e, al tempo stesso, osservare l’incanto di un paesaggio caratterizzato dalle montagne innevate dell’arco alpino e dalle colline del Monferrato. Nel mese di novembre e nel resto della stagione invernale il paesaggio é completamente diverso: la fitta nebbia prevale su tutto il resto, e regala al visitatore un panorama carico di mistero.

Le grange, letteralmente “granai” (dal francese antico granche = granaio), erano antiche unità abitative e centri agricoli. Al loro interno, i conversi, ovvero i monaci cistercensi staccati dal convento, attuavano opere di bonifica su un’area territoriale coperta da “bosco planiziale”, al fine di renderla adatta ad impiego agricolo.

Si definisce “bosco planiziale” una formazione boschiva che si sviluppa in pianura su terreni molto umidi. Il Bosco delle Sorti della Partecipanza di Trino è l’ultimo esempio rimasto. Questo gioiello naturalistico (600 ettari circa), che un tempo copriva gran parte della pianura, è giunto sino a noi grazie a rigide regole di gestione dei tagli che risalgono al Medioevo. Secondo alcune fonti, le modalità di cura del bosco, oggi ancora in vigore, furono fissate nel 1275, quando il marchese del Monferrato Guglielmo il Grande fece una donazione ai “partecipanti”, cioè alle famiglie trinesi che partecipavano alla gestione del Bosco. L’estesa foresta, ancora all’inizio del III secolo, andava da Crescentino a Costanzana e venne sfruttata in svariati modi dall’uomo: dall’agricoltura e pastorizia nomade dei Liguri, allo sfruttamento su larga scala da parte della colonizzazione romana, a scopo di bonifiche, e dall’uso del legname per costruzioni e fonderie, alla lenta riduzione a coltura operata dalle comunità agricole monastiche, soggette all’abbazia di Lucedio. Quest’ultima corrose progressivamente lembi di foresta e serrò sempre più da vicino il Bosco delle Sorti, fino a farlo apparire quale è oggi. I motivi per i quali il Bosco delle Sorti sopravvisse alla secolare pressione esercitata dai molteplici interessi umani sono almeno due: il primo consiste nel fatto che la selva era parte del Lucus Dei, cioè del bosco sacro, probabilmente ad Apollo, e come tale protetta a fine di culto; il secondo, valido a partire dal XIII secolo, quando si costituì di fatto la Partecipanza, fu il fattore della comunanza di interessi e dell’amministrazione collettiva. In seguito, anche i socialisti trinesi del primo Novecento, pur considerando la Partecipanza una società per eccellenza collettivista” e addirittura “un esempio concreto di Comunismo”, proposero di realizzare “un sogno che sarà la realtà di domani: la messa a coltivazione delle seimila giornate di terreno dalla Partecipanza”. Ma ciò non si è mai concretizzato. La fruizione del Bosco da parte dei soci-partecipanti è regolata oggi come lo era nei secoli passati. Ogni anno una zona del Bosco viene messa in turno di taglio e suddivisa in un determinato numero di aree minori dette sorti o punti. Ciascun punto è poi diviso in quattro parti, da qui il nome di quartaruoli. Ad ogni punto è assegnato un numero ed i “partecipanti” sono chiamati annualmente, nel mese di novembre, ad estrarre a sorte uno dei punti. La sorte deciderà in quale zona ciascun socio avrà diritto di abbattere uno o due quartaruoli di ceduo. Per questo il Bosco è detto “delle Sorti della Partecipanza”. Accanto a tale tipo di fruizione, soggetta a una plurisecolare normativa, il lavoro nel Bosco era, un tempo, cadenzato da un ritmo stagionale, che da gennaio a dicembre impegnava molti “partecipanti” in svariate attività: provviste di tortie (piantine di taglio di almeno 3 anni, necessarie per la legatura delle fascine), taglio delle capitozze (alberi potati di tutti i rami), scalvo di piante per la manifattura di fascine e bastoni, riempimento di buche, pulizia del sottobosco e taglio dell’erba in varie prese. Sfortunatamente, nel 1977, la Partecipanza, non seppe cogliere l’urgenza dell’istituzione del Parco, che avrebbe tutelato i diritti dei soci e salvaguardato la rilevanza naturalistica di un bosco importante per l’intera collettività piemontese. Ora l‘obbiettivo a lungo termine è quello di riportare il Bosco a ritrovare la sua identità planiziale, cammino da misurare a decenni, applicando un metodo colturale flessibile.

Bosco delle Sorti della Partecipanza

Iniziatore dell’ordine cistercense fu Roberto di Molesme, che nel 1098 fondò a Citeaux, presso Digione, un nuovo monastero, dove furono ristabiliti gli antichi precetti. Ma la storia vera dell’ordine cominciò con Bernardo di Chiaravalle che, entrato nell’abbazia nel 1112, avviò subito l’opera di diffusione del movimento in Europa. Nel 1134 i cistercensi avevano 70 monasteri, alla fine del XII secolo 530 e alla fine del XIII secolo circa 700. Le ragioni dello straordinario sviluppo dell’ordine vanno cercate nelle condizioni religiose e morali dell’Europa dopo la lotta per le investiture, ma anche nel favore incontrato dal rigorismo morale della regola cistercense in un’età in cui le aspirazioni al ritorno ai tempi evangelici premevano molto. Seguendo la tradizione benedettina, i cistercensi furono grandi bonificatori e colonizzatori, pertanto le loro abbazie ebbero grande importanza per la storia dell’economia agraria medievale. I monaci cistercensi, iniziando la coltivazione del riso, fecero un’opera grandiosa e geniale da un punto di vista economico e sociale, che molti definirono miracolosa. Nel Medioevo la pianura vercellese era malsana, inospitale e vi cresceva una fitta boscaglia. I monaci, con grande fatica e dedizione, disboscarono e dissodarono il terreno ed incanalarono l’acqua per permettere la coltivazione del riso, pianta allora semisconosciuta, ma che in seguito andò persino a sostituire il grano, molto più costoso e con un minor apporto nutritivo. Inoltre, per quanto limitassero molto il valore degli studi letterari, Bernardo e i suoi discepoli crearono una corrente culturale, a tendenza mistica, destinata ad avere non poco influsso sul pensiero medievale. Con la riforma della Trappa (1664), i cistercensi furono divisi nel ramo dell’osservanza comune (cistercensi propriamente detti) e in quello dell’osservanza primitiva (trappisti). I cistercensi ebbero una particolare importanza anche nello sviluppo storico dell’architettura: con la costruzione delle loro abbazie in vari Paesi europei, contribuirono alla diffusione delle tradizioni costruttive e delle forme architettoniche sviluppatesi in Francia nel XII secolo. Riproposero, nella disposizione e nella realizzazione dei loro complessi abbaziali, l’austerità e la monumentalità spoglia e funzionale dei modelli benedettini, in contrapposizione al carattere più esuberante delle cattedrali del nord della Francia e dei complessi cluniacensi. Tra le principali abbazie cistercensi in Piemonte vanno annoverate quelle di Santa Maria di Staffarda nel Saluzzese, di Santa Maria di Casanova presso Carmagnola, di San Pietro di Rivalta Torinese, di santa Maria di Lucedio nel Vercellese e di Santa Maria di Rivalta Scrivia nel Tortonese. Nel Medioevo, monasteri e abbazie di campagna costituivano spesso il nucleo intorno al quale sorgeva poi un centro abitato. La fine del secolo XI e l’inizio del XII segnarono il momento di estremo splendore delle abbazie benedettine, mentre nuove e severe regole informarono le comunità dei certosini e dei cistercensi, riflettendosi sui loro monasteri. Le abbazie cistercensi, si basavano su un rigido principio modulare, che regolava anche edifici posti all’esterno del recinto abbaziale (infermeria, grangia, ecc.). Il chiostro rimase il punto di snodo dei vari momenti della vita in comune, ma acquistò maggiore rilevanza la sala capitolare. L’ordine razionale che regnava nell’impianto planimetrico dell’abbazia torna anche nel complesso sistema di canalizzazione delle acque. Le abbazie cistercensi apparivano, dunque, come comunità contadine modello.

Le grange sorte nella pianura vercellese, e più precisamente nel lembo di territorio che si estende tra Trino, Crescentino e Larizzate, avevano il proprio fulcro nell’Abbazia Cistercense di S. Maria di Lucedio. Fondata nel 1123, acquisì da subito numerosi possedimenti, ognuno dei quali faceva capo a una grangia. Le grange rappresentarono uno strumento determinante nel processo di trasformazione di una zona incolta in terreno arabile: quando un proprietario terriero intendeva trasformare i propri possedimenti al fine di renderli produttivi, gli abati inviavano un proprio monaco, il granciere, il quale dirigeva i lavori di bonifica. È innegabile che l’attività svolta dai monaci nel Vercellese fu determinante per la nascita e il successivo radicarsi nei secoli di una vocazione agricola e risicola. Furono proprio i cistercensi, infatti, a introdurre la coltivazione del riso nel XV secolo, iniziando da Castelmerlino e Ramezzana. La sola abbazia di Lucedio possedeva ben sei grange: Montarolo, Montarucco, Leri-Cavour, Castelmerlino, Ramezzana e Darola. Oggi questo territorio è occupato in prevalenza proprio da risaie ed è riconosciuto dalla Comunità Europea come unica e vasta zona umida ancora intatta in Europa.

Il successo dell’economia agraria dei cistercensi e la sua superiorità nei confronti delle grandi proprietà terriere furono dovuti soprattutto alla loro straordinaria capacità di organizzazione e di pianificazione dello sfruttamento delle innumerevoli proprietà dell’Ordine. I coloni cistercensi, infatti, lavoravano meticolosamente per se stessi, perché dal lavoro dipendeva la loro sopravvivenza; l’abate esercitava poi il suo costante controllo sullo sfruttamento di tutti i possedimenti terrieri. Al fine di poter curare ogni possedimento nel migliore dei modi, lo strumento di maggior successo fu proprio l’organizzazione di grange, ovvero di stanziamenti monastici agrari, i quali univano ai vantaggi della pianificazione centrale, l’autonomia locale. Nonostante vi fossero già stati dei precedenti, le grange possono essere considerate caratteristiche della prima agricoltura cistercense. Quando le proprietà dei monaci diventarono eccessivamente estese, esse vennero suddivise in singoli appezzamenti di circa 400 o 500 acri, poi successivamente recintati. All’interno di essi, si costruirono degli edifici a scopo unicamente pratico, in quanto utilizzati come abitazione da un gruppo di fratelli conversi, oltre che per raccogliere gli animali della fattoria e per immagazzinare sia gli attrezzi indispensabili che il prodotto delle messi. Secondo le norme più antiche, le grange non dovevano distare dall’abbazia più di una giornata di cammino, per poter essere costantemente controllate e per consentire ai fratelli conversi di ritornare ogni domenica all’abbazia per gli uffici religiosi. Durante il XII secolo, la gestione delle grange era affidata esclusivamente ai monaci, anche se al tempo dell’aratura o della mietitura si ricorreva di frequente a manodopera esterna. Con il passare del tempo, tuttavia, il moltiplicarsi delle grange rese sempre più indispensabile l’aiuto degli abitanti dei villaggi vicini, quindi la realizzazione di nuovi luoghi di insediamento. Tra i primi edifici costruiti per le grange cistercensi non erano incluse cappelle, poiché era richiesto che i fratelli ritornassero all’abbazia per gli uffici religiosi, ma con il progressivo aumento delle distanze questo divenne irrealizzabile e si cominciarono ad edificare anche luoghi di culto. L’abbazia continuò comunque a esercitare il suo controllo anche in questo ambito: la celebrazione quotidiana dell’eucarestia poteva essere organizzata solo grazie al permesso del vescovo della diocesi, il quale, prima di concederlo, si assicurava che la cappella non entrasse in competizione con la chiesa parrocchiale più vicina. L’insieme degli edifici della grangia veniva spesso circondato da mura o da fossati, per impedire furti o scorrerie. Nei momenti di maggiore pericolo i servi dell’abbazia venivano armati, in modo tale da assicurarne la difesa.

Da Larizzate (casello autostradale Vercelli Ovest), seguendo la strada che conduce a Crescentino, si raggiunge Lignana e la splendida Tenuta Veneria: questo insediamento rurale, che rappresenta in maniera esemplare il modello della grande corte monoaziendale, fece da sfondo al film neorealista “Riso amaro” (1949, regia di Francesco De Santis).

Proseguendo lungo la stessa strada, si raggiunge Castell’Apertole, un insieme di edifici fatti realizzare nel 1774 dalla famiglia Savoia e deputati all’allevamento dei cavalli. Nelle immediate vicinanze si trova Cascina Colombara, un’azienda agricola ancora attiva che rappresenta un altro splendido esempio di cascina a corte chiusa e che ha saputo conservare e valorizzare i suoi ambienti originari. Qui troviamo anche il Cimitero della Colombara, costruito nel XVI secolo e oggi detto “Cimitero delle rane” per la grande presenza di questi animali. Infatti, il cimitero ha ormai perso la sua funzione e versa oggi in uno stato di totale abbandono.

Cimitero della Colombara 

A circa 4 km da Crescentino, proseguendo lungo la strada delle grange, ci s’imbatte in San Genuario. Tenuta agricola un tempo sede di un’antica abbazia, San Genuario è sicuramente il più antico insediamento monastico benedettino all’interno dell’allora foresta di Lucedio. Quel poco che è rimasto a testimonianza dell’antico complesso è stato inglobato all’interno di Cascina Badia. Gauderio (o Gaudenzio), generale di Ariperto II, sedicesimo re dei Longobardi, secondo un diploma del 9 ottobre 707, fondò un monastero benedettino e ne fu nominato abate dal vescovo di Vercelli Emiliano II. Il monastero, intitolato a San Michele di Lucedio, fu il più antico insediamento monastico in quelle terre. L’imperatore Lotario I, nell’843, donò all’abbazia il corpo di San Genuario e da allora l’abbazia, con la chiesa ed il villaggio, presero il suo nome. Il territorio del monastero, al tempo del suo massimo splendore, era molto esteso; ma dal XIII secolo, con la nascita e lo sviluppo dell’abbazia cistercense di Santa Maria di Lucedio e l’insediarsi a Crescentino dei conti Tizzoni, ebbe inizio la lenta decadenza di San Genuario. Oggi frazione di Crescentino, ebbe grande importanza strategica per la sua posizione di confine tra i possedimenti dei marchesi di Monferrato e quelli della diocesi vercellese.

Dopo diverse controversie con gli abitanti del borgofranco di Crescentino e le guerre tra guelfi (S. Genuario) e ghibellini (Crescentino), i monaci si ritirarono a Verrua fino al 1364, anno in cui, per mezzo dell’abate Bartolomeo, si riappacificarono con i crescentinesi. Per intercessione dell’abate Antonio Tizzoni, cugino di Bartolomeo, Giacomo Tizzoni, conte di Crescentino, il 5 settembre 1419, con un breve di Papa Martino V, ottenne la cessione di metà del territorio di San Genuario, a condizione che vi edificasse un castello per la difesa del monastero, del borgo e dell’abbazia. Il Tizzoni dispose per costruire il castello circondato da fossato, probabilmente sulle rovine di un’antica fortezza. Fu però edificato  solo dopo la metà del 1400 dai suoi figli e fu testimone delle numerosissime lotte tra fazioni opposte, che travagliarono il territorio e i suoi abitanti. Dopo la rivolta dei crescentinesi contro Riccardo IV Tizzoni, il castello vide i processi sommari, le impiccagioni ai suoi merli e gli altri innumerevoli castighi impartiti da Giovanni Andrea II Tizzoni ai congiurati crescentinesi. La casata Tizzoni dominò fino al 1592, anno in cui il duca Carlo Emanuele I di Savoia ricondusse il feudo in mano regia. Nel 1601 il feudo passò alla signoria del procuratore generale Molino di S. Marco, nobile veneziano, poi al marchese Ascanio Bobba e al marchese Morozzo Della Rocca nel 1722. Agli inizi del XIX secolo i beni del Morozzo, compreso il castello, passarono al banchiere Giani e da questo al cavalier Gonella. Nei primi decenni del 1900, la famiglia Garella lo adibì a moderna azienda agricola, facendo edificare nel suo ampio cortile alcuni fabbricati tuttora esistenti che mostrano un forte contrasto con il resto del castello. Dopo ulteriori passaggi di proprietà, nel 1980 il castello passò all’attuale proprietario. L’abbazia intanto, tra varie vicissitudini, era sopravvissuta fino al 1854, quando fu istituita la parrocchia, mentre la maggior parte dei suoi beni era stata venduta all’inizio del secolo.

Castello di San Genuario

Il castello è una costruzione fortificata di modeste dimensioni, che si presenta come un massiccio parallelepipedo con addossata un’unica torre cilindrica, il tutto coronato da apparato a sporgere. Su di un muro esterno è ancora distinguibile un’apertura, in seguito murata, molto alta e larga circa 1 m, che potrebbe costituire un ingresso. La torre cilindrica è unita alla rocca da un breve tratto di cortina e presenta un’ininterrotta serie di beccatelli. I merli ghibellini della torre sono stati murati e il camminamento che unisce la rocca alla torre è stato tramezzato e coperto. In un cascinale all’esterno del castello, su di una parete, si può vedere un affresco ormai quasi completamente rovinato da alcune finestre aperte successivamente. Il tetto del castello è stato rifatto e i solai, che stavano ormai crollando, sono stati restaurati. L’antichità del luogo sarebbe attestata dalle sei pietre miliari che erano sul sagrato della chiesa, oggi conservate al Museo Leone di Vercelli. Sulla porta d’entrata della fortificazione, inoltre, è murato un frammento di lapide romana in cui sono leggibili, con ottima grafia, le lettere AULIO. Ma se la struttura esterna sembra essersi mantenuta praticamente intatta, la stessa cosa non si può dire della struttura interna. I grandi saloni, sparsi sui tre piani, furono tramezzati per ricavarne delle stanze, adibite, durante la seconda guerra mondiale, ad alloggi per gli sfollati. L’originaria chiesa abbaziale di San Genuario è stata sostituita dall’attuale chiesa parrocchiale, risalente al XVII secolo, la quale ha comunque conservato abside e campanile della prima chiesa. L’impianto originario era sicuramente costituito da una navata centrale e due laterali più basse e strette. 

Nel territorio appartenente al comune di Trino, si trova l’Abbazia di Santa Maria di Lucedio, che venne fondata nel 1123 da alcuni monaci cistercensi provenienti dal monastero di La Ferté, in Borgogna, su terreni donati loro dal marchese Ranieri I del Monferrato. Si trattava di terreni da bonificare, in quanto paludosi e coperti da vaste e incolte boscaglie; queste vennero denominate Locez, termine da cui è derivato il nome dell’abbazia, rimasto invariato nel corso dei secoli. Il toponimo è già attestato nel 904 e pare che vi fosse già un insediamento romano. Spesso in contrasto con l’episcopato vercellese per ottenere o ribadire l’indipendenza istituzionale e giuridica, nel 969 l’abbazia accolse tra le sue mura come oblato, ossia “offerto alla devozione di Dio”, Guglielmo di Volpiano, all’età di appena 7 anni. Sulle orme del monachesimo cluniacense, egli lasciò una splendida testimonianza di vita e di disciplina monastica. Il patrimonio terriero dell’abbazia si estendeva ben oltre le terre prossime al monastero (con le grange di Montarolo, Darola, Castelmerlino, Leri, Montarucco, Ramezzana, Cornale e Gaiano), comprendendo anche appezzamenti dislocati in un’ampia area del Monferrato e del Canavese. Nel 1171, nacque l’abbazia di Rivalta Scrivia, come filiazione di quella di Lucedio. Nel 1457, con breve di papa Callisto III, l’abbazia divenne Commenda e passò sotto il patronato dei Paleologi, marchesi del Monferrato, che acquisirono così il diritto di nominare l’abate e di riscuotere le rendite. In seguito, il feudo passò ai Gonzaga, subentrati a Casale nella reggenza del Monferrato. Nel 1707, i Savoia riuscirono a impossessarsi dell’abbazia. Da quel momento due figure iniziarono ad occuparsi del monastero: l’abate commendatario, che gestiva il patrimonio terriero godendone i frutti, e l’abate claustrale, che esercitava la giurisdizione spirituale. Nel 1784 l’abbazia venne secolarizzata da Papa Pio VI e le sue grange divennero parte della Commenda Magistrale dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. I monaci cistercensi, ridotti ormai a una decina, furono trasferiti a Castelnuovo Scrivia. Nel 1792, l’Ordine di San Maurizio ne conferì la commenda al duca Vittorio Emanuele I di Savoia. Dopo pochi anni, tuttavia, il monastero cadde nei decreti napoleonici di soppressione: Napoleone cedette la proprietà di Lucedio al cognato, il principe Camillo Borghese, allora governatore generale del Piemonte, per risarcirlo delle collezioni d’arte che gli erano state requisite a Roma. Dopo la caduta di Napoleone, ebbe inizio un lungo dibattito tra Camillo Borghese e i Savoia sul possesso di Lucedio. Nel 1818 ci fu un nuovo cambio di proprietà: il sistema delle grange afferenti a Lucedio venne acquistato in comproprietà dal marchese Carlo Gozzani di San Giorgio, dal marchese Giuseppe Benso di Cavour e da Luigi Festa. Quattro anni dopo, nel 1822, l’intero possedimento venne suddiviso in lotti e ceduto a diversi personaggi, tra cui il padre di Camillo Benso, conte di Cavour. Il lotto comprendente l’abbazia di Lucedio venne definitivamente assegnato al controllo del marchese Giovanni Gozzani di San Giorgio, che nel 1861 cedette la proprietà a sua volta al duca genovese Raffaele de Ferrari Duca di Galliera, al quale i Savoia conferirono il diritto di onorarsi con il titolo di Principe di Lucedio, in virtù dei suoi servigi a favore dello Stato Italiano. Fu così che, a partire dal 1875, nacque il “Principato di Lucedio”, denominazione che ancora oggi possiamo osservare sul portale d’ingresso della tenuta. Dopo la morte di Raffaele de Ferrari, i possedimenti ed il titolo vennero ereditati dal nipote, il marchese Andrea Carega Bertolini, che nel 1937 vendette infine Lucedio al conte Paolo Cavalli d’Olivola, padre dell’attuale proprietaria, la contessa Rosetta Clara Cavalli d’Olivola Salvadori di Wiesenhoff.

Principato di Lucedio

L’abbazia di Lucedio si presenta oggi come una grande e moderna azienda agricola. Dell’antico monastero medievale fortificato, eretto nel XII secolo e ampliato nei due secoli successivi, oltre alla cinta muraria che lo racchiudeva, si sono conservate notevoli strutture architettoniche. Salta subito all’occhio il campanile duecentesco dalla curiosa forma ottagonale, decisamente contro gli schemi architettonici dell’epoca. Possiede numerose decorazioni in stile gotico-lombardo e nelle bifore dell’ultimo piano si nota un’impronta circolare: vi venivano inseriti bacini di ceramica, che, riflettendo i raggi del sole, potevano essere visti in lontananza dai pellegrini che percorrevano la via Francigena, segnale che presso il convento si potevano ricevere vitto e alloggio. Ricordiamo poi il chiostro, molto ampio, l’aula capitolare, con colonne in pietra e capitelli di foggia altomedievale, il refettorio, con slanciate volte a vela che poggiano su basse colonne, i dormitori e le prigioni. Il passato religioso di Lucedio è oggi testimoniato dalla presenza delle due chiese che si affacciano sull’ampia corte. La prima si incontra sulla destra appena superato il portone di accesso al Principato ed è conosciuta come Chiesa di Sant’Oglerio o chiesa del popolo. Costruita nel 1741 dal monaco-architetto Valente de Giovanni, venne adibita a funzioni sacre destinate alle famiglie contadine e alla gente comune residente in Lucedio. Anche se oggi è stata ridotta a deposito agricolo, possiamo ancora ammirarne le linee tardo barocche. Ha dimensioni massicce ed un campanile a pianta quadrata. Retrostante ad essa, sorge la settecentesca Chiesa di Santa Maria: venne costruita a sud del complesso, non a nord, contrariamente a quanto si faceva normalmente. Se fosse stata innalzata a nord, infatti, sarebbe stata più protetta dai venti e l’illuminazione solare, per le cerimonie religiose del mattino, sarebbe stata ottimale; ma considerando la classica pianta a croce delle chiese, costruire con l’ingresso a sud era come disegnare una croce capovolta. Si racconta che la chiesa di Santa Maria di Lucedio, sorta su resti romani, sia stata costruita in corrispondenza di un fiume sotterraneo chiamato Lino, il quale avrebbe un sifone proprio sotto l’altare. Poche notizie si conoscono a proposito del Lino: alcune persone sostengono sia un fiume che scorre nel vecchio letto, oggi sotterraneo, della Dora; altre che sia uno dei tanti corsi d’acqua ipogei della zona. Le ipotesi considerate non sono comunque improbabili. Infatti, nell’antichità molti luoghi di culto venivano edificati dove c’erano corsi d’acqua, perché il movimento generava una particolare energia che veniva avvertita da rabdomanti e sciamani. La Provincia, che attraverso l’Ecomuseo delle Terre d’Acqua si occupa della promozione del sito, ha avviato e seguito, sin dal 2004, la messa in sicurezza delle coperture ed il restauro della facciata e del campanile.

Sulla chiesa di Santa Maria sono fiorite numerose leggende, tutte contraddistinte da una vena macabra. Tra queste, la diceria secondo cui il Diavolo, dal vicino cimitero di Darola, ora abbandonato ma un tempo ritrovo per sabba, sprigionò una forza oscura e crudele contro Lucedio. Quella forza satanica riuscì a vincere la resistenza spirituale dei monaci dell’abbazia, trasformandoli in servi del suo volere. Così i monaci, posseduti e colpiti da degenerazione sessuale e blasfema, cominciarono ad infliggere sofferenze e torture alla popolazione. Mentre il Papa chiudeva l’abbazia, si dice che qualcuno riuscì a catturare quel male oscuro, sprigionato durante un sabba, e ad imprigionare la forza maligna nelle cripte della chiesa di Santa Maria. Queste furono poi murate e alcuni abati innocenti, mummificati e seduti su troni, vennero disposti in cerchio per sorvegliarle.

Di questi e altri fatti terribili, sarebbe stata testimone la “colonna che piange”, la quale diede presto origine ad un’altra leggenda. All’interno della Sala Capitolare di Lucedio si trovano quattro colonne che si raccordano in volte a vela. Le colonne sembrano apparentemente identiche, ma una di esse, la prima che troviamo a sinistra, ha una caratteristica ben precisa che la rende misteriosa: sembra che pianga. Il suo fusto, infatti, trasuda acqua in particolari momenti. Il fatto che gli spietati processi e le atroci sentenze del centenario nero di Lucedio ebbero luogo proprio in questa sala, favorì la nascita della leggenda secondo cui la colonna piange perché testimone delle agghiaccianti punizioni inflitte alla povera gente. La colonna di pietra versa ancora oggi le sue lacrime per tutti quegli innocenti, che vide sfilare davanti a sé, condannati e torturati. In realtà, si tratta di un fenomeno riconducibile alla particolare porosità della pietra con cui è costruita la colonna, che assorbe l’abbondante umidità presente nel terreno per poi trasudarla lentamente all’interno della Sala Capitolare.

Sala Capitolare di Lucedio

Altra leggenda vuole che sotto Lucedio si diparta una serie di tunnel sotterranei, che lo collegano con svariate località di importanza strategica. Sembra che in ogni paese nelle vicinanze, e addirittura in alcune località del Monferrato, esistano cunicoli di collegamento con il Principato. Alcuni testimoni affermano di aver percorso le gallerie sotterranee fino ad un certo punto, altri dicono che tali ambienti siano addirittura carrozzabili, ma nessuno ha mai percorso un cunicolo per intero tanto da poter arrivare a Lucedio.

All’interno del campanile ottagonale della chiesa di Santa Maria di Lucedio si trova un sarcofago, che la tradizione ha sempre considerato come il sepolcro della regina di Patmos. La leggenda narra che la donna, per sfuggire alle attenzioni incestuose del padre, fuggì disperata nel bosco fuori Lucedio. Vedendo il padre rincorrerla ed avvicinarsi sempre di più, con un gesto disperato raccolse un bastone e disegnò sul terreno una riga. Questa si trasformò in un profondo corso d’acqua e le offrì protezione, impedendo allo sciagurato genitore di raggiungerla. Secondo un più approfondito esame storico, l’incisione Re sul coperchio del sarcofago sarebbe stata aggiunta a posteriori, vanificando le possibilità che la leggenda sia alla base vera. Tuttavia, nella tradizione aleramica si ritrova ancora la figura della regina di Patmos. Durante la IV crociata, nel 1204, l’imperatore Alessio III e l’imperatrice Eufrosina furono catturati dal comandante dell’esercito latino Bonifacio, marchese del Monferrato. I prigionieri, scortati e piantonati, vennero condotti proprio a Lucedio, dove un’altra leggenda vuole che Eufrosina, terribilmente impazzita, morì. In molti sostengono che Eufrosina coincida con la mitica figura della regina di Patmos. Altre teorie affermano, però, che la regina di Patmos sia sepolta a Montarolo e che l’attuale Santuario della Madonna delle Vigne sia stato costruito sui resti della cappella funebre della donna. Inoltre, ulteriori voci sostengono che fosse stata sepolta assieme al proprio giovane figlio deceduto prematuramente.

Collocata a nord di Lucedio, la Cascina Darola vanta antichissime origini. Nel 933, quando ancora era riconosciuta con il nome di “Corte Auriola”, venne donata dai re d’Italia Ugo e Lotario ai marchesi del Monferrato. Questi ultimi la cedettero in proprietà a Lucedio e nel 1123 divenne una delle sei grange possedute dall’abbazia. Dal punto di vista strutturale, rappresenta un eccellente esempio di cascina a corte chiusa. Interessante e ancora ben conservata è la torre quadrilatera, testimonianza architettonica del processo di fortificazione che interessò Darola nel XV secolo. La porta carraia è originale ed era impiegata per passare da un cortile ad un altro.

Ingresso della Tenuta Darola

La zona di Trino è un vero e proprio “tesoro” dell’abbandono, del mistero e del fascino antico: Darola altro non è che un luogo unico, ove giacciono segreti e storie. Il cimitero di Darola si trova nelle immediate vicinanze del Principato di Lucedio, a meno di 1 km dalla chiesa della Madonna delle Vigne. Non si conosce la data in cui venne costruito questo cimitero, ma è molto probabile che sia esistito già intorno al 1500, prima dell’acquisizione dei terreni da parte dei Savoia. Purtroppo non è possibile sapere con certezza a che anni risalgano le prime sepolture, in quanto le lapidi non esistono più, la maggior parte delle tombe è stata traslata in altri cimiteri e le lapidi rimaste sono state distrutte dai vandali. Oggigiorno, come 300 anni or sono, il cimitero in questione non ha mai goduto di buona fama, famoso per fatti di sangue, riti oscuri e leggende al limite della credibilità. Darola ha da sempre fatto parlare di se come luogo sinistro, oscuro e portatore di sventura. La sua storia si può identificare a doppio filo con la vicina chiesa della Madonna delle Vigne, sconsacrata nel 1784 da Papa Pio VI in persona, in seguito a continue voci di fatti peccaminosi e riti oscuri. Il cimitero di Darola venne a contatto con strani avvenimenti, risalenti al 1684, quando alcune ragazze e suore del principato di Lucedio parteciparono a sabba organizzati nella chiesa del luogo. Oggi il cimitero è in completo stato di degrado: non viene utilizzato da 60 anni e da almeno mezzo secolo non è stata fatta una sola manutenzione. Le erbacce, i rovi e gli alberi invadono questo piccolo spazio di terra, circondato da un muro di mattoni e protetto da un semplice ed inquietante cancello in ferro battuto. Nonostante la vegetazione incolta, grazie al fatto che sono molti i curiosi a visitare questo luogo, un piccolo sentiero permette di raggiungere facilmente l’interno. Si salvano solo due strutture: la chiesa ed un’anonima tomba di famiglia. La Chiesa è la struttura nelle condizioni “migliori”. L’esterno, invaso dall’edera, presenta un piccolo porticato a tre arcate a vela, che precede l’entrata; l’interno, a navata unica, è puro degrado: decine di lapidi rotte lungo tutto il pavimento, polvere, calcinacci e resti d’antiche tombe aperte, teatro di quella che un tempo probabilmente era stata una struttura ricca di marmi e sculture. Nel complesso, la chiesa non è assolutamente pericolante ed il tetto è ancora in buone condizioni; vandalismo permettendo, potrebbe durare ancora per decenni senza mostrare alcun tipo di cedimento. La seconda struttura è una tomba di famiglia: i sepolcri all’interno sono stati tutti aperti ed in parte trafugati. Questo luogo decisamente fuori dall’ordinario, malgrado sia in completo stato d’abbandono, é comunque proprietà privata. Le leggende e le credenze ad esso collegate possono aver avuto origine dai culti pagani, molto in voga tra la popolazione ancora in tempi piuttosto recenti, e spesso scambiati per culti demoniaci. Ad esempio, si dice che le due targhe lapidee poste sul muro esterno della chiesa, ai due lati dell’ingresso, siano in memoria di due gemelle quindicenni, morte nel 1868, e del loro padre, morto nel 1876. Salme e tombe sarebbero state portate qui da un altro cimitero, entrambe l’11 febbraio 1894. L’Ottocento, infatti, fu chiamato da alcuni “il secolo dei cimiteri”, a seguito dell’editto di Napoleone del 12 giugno 1804. Questa delibera sancì a tutti gli effetti la nascita dei cimiteri moderni e regolò una volta per tutte la pratica delle sepolture, ciò con due principali obiettivi: il primo di tipo igienico-sanitario, per evitare di continuare a stipare i corpi dei defunti nelle chiese, con la conseguente diffusione di orrendi olezzi e malattie; il secondo di tipo ideologico-politico, in quanto le tombe dovevano essere tutte uguali tra loro, nel rispetto del principio rivoluzionario di uguaglianza. Ovviamente, però, ai personaggi o alle famiglie illustri fu consentito di avere in concessione dei terreni su cui costruire il loro sepolcro con monumento commemorativo annesso. In questo caso, il cimitero di Darola si rivelò rispettoso delle caratteristiche prescritte dall’editto e divenne abbastanza importante da accogliere anche salme già sepolte in altri luoghi.

Chiesa del cimitero di Darola

Il Santuario della Madonna delle Vigne è una graziosa chiesetta. Tra le decorazioni che si sono conservate all’interno, proprio sopra al portone d’ingresso, vi è un singolare affresco: rappresenta un organo a canne, decorato con due leoni stilizzati che reggono uno stemma, sotto ad una corona reale. Al centro di questo disegno è raffigurato un pentagramma, il cui rigo e le cui note sono ancora parzialmente leggibili: “lo spartito del Diavolo”. Esiste una leggenda legata a questo brano, cioè che il motivo musicale sia in realtà una musica capace di respingere la presenza demoniaca imprigionata nelle cripte di Lucedio; se suonato al contrario, ne consentirebbe la liberazione. Questa sorta di “sigillo” bivalente è stato analizzato da alcuni esperti di musica antica. Dopo alcune settimane di studio e di elaborazioni grafiche, un’esperta ricercatrice è stata in grado di riprodurre il brano, che si può leggere in due versioni: tradizionale ed inversa. Dall’ascolto della versione inversa, l’esperta ha notato come la musicalità grave dei primi tre accordi di apertura del brano potrebbe essere la chiusura dello stesso, in quanto si tratta della tipologia di sonorità normalmente utilizzata alla fine di uno spartito. Eseguendo strumentalmente il brano, si può chiaramente constatare la mancanza di un’adeguata musicalità. Queste osservazioni le hanno fatto ipotizzare che il segreto del brano musicale non stesse espressamente nella sonorità, ma nel significato della successione delle note, sostituite in termini di lettere.

Chiesa della Madonna delle Vigne

A sud di Lucedio si trovano Ramezzana e Montarolo, quest’ultima collocata in posizione panoramica, non lontano dal Santuario della Madonna delle Vigne. Nella parte di territorio che si estende a nord-ovest del Principato, sono ubicate Leri e Castelmerlino, Queste due località corrispondono ai possedimenti della famiglia Benso di Cavour, a cui appartiene l’illustre figura di Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella, che fu consigliere comunale a Trino da luglio a novembre del 1859, poco prima del suo terzo governo, dal 1860 al 1861, l’ultimo prima della proclamazione del Regno d’Italia.

In particolar modo Leri rappresentò per il Conte Camillo Benso un bueno retiro, un ambiente in cui ancora oggi si possono respirare atmosfere risorgimentali. Nel lontano 1822, Michele Benso di Cavour acquistò l’intero borgo. La famiglia Benso trasformò il complesso in un’enorme tenuta agricola da 900 ettari di terreno. Complessivamente, fu Camillo Benso a rendere Leri quella che vediamo oggi. Verso la metà dell’800, prese le redini dell’azienda del padre, introducendo innovazioni in grado di migliorare la sua produttività e sperimentando nuovi sistemi d’irrigazione. Progettò dei macchinari per l’epoca avanzati e moderni, volti sia al lavoro nei campi, sia a migliorare il sistema di irrigazione, promosse e testò nuovi sistemi di coltivazione del riso, costruì strutture utili per la vita degli operai, come dormitori, mense e servizi igienici, e propose attività di miglioramento nei settori dell’allevamento del bestiame, dei concimi e delle macchine agricole. Per di più, sappiamo che il grande statista piemontese amava trascorrere più tempo possibile presso questo borgo, cui era molto affezionato, permanendovi anche durante le vacanze estive. Si dice che qui abbia scritto ben 83 lettere documentate. Così la giornalista Alessia Cagnotto descrive Leri su “il Torinese”, quotidiano online di Informazione Società Cultura, pubblicato il 6 Aprile 2018:

Una villa a pianta quadrata, suddivisa su due piani, ha pareti sobrie e bianche, eleganti nella loro austerità. Semplici bassorilievi decorano le finestre ed il portone principale, su tutto dominano i toni del bianco, dell’azzurro e del grigio; con educato contrasto, si delineano le linee marroni e terra d’ombra del legno delle finestre e del portone principale.

Una volta varcata la soglia, si accede ad un grande salone affrescato: i decori sono sulle tinte del blu e dell’oro, mentre sulla parete di fronte all’ingresso e in quella a sinistra sono stati dipinti dei finti caminetti; il muro a destra è squarciato da due grandi finestre rettangolari. La villa è abbastanza grande, priva di arredamento interno, e ogni sala è dominata da una tinta differente.

Leri Cavour

Il destino di Leri Cavour è però stato segnato dalla decadenza. Intorno agli anni ’70 del Novecento, gli abitanti dovettero abbandonare il borgo così come la speranza di tornarci. Una serie di scomodi eventi hanno portato all’abbandono più totale della grangia. Erba alta, vetri rotti, muri e porte sfondate, graffiti e pavimenti pericolanti caratterizzano ad oggi l’ex dimora del Conte di Cavour, un tempo emblema di vita e ricchezza. Intorno agli anni ’80, l’enorme proprietà passò nelle mani dell’Enel. Qui sarebbe dovuta sorgere la seconda centrale nucleare di Trino, ma il referendum del 1987 pose fine al nucleare in Italia e la centrale venne quindi modificata e riconvertita in termoelettrica a ciclo combinato, oggi conosciuta con il nome di Galileo Ferraris. Per un decennio, Leri Cavour venne occupata dagli uffici della centrale e abitata dai suoi dipendenti. Secondo un calendario affisso alle pareti, la villa venne abbandonata nuovamente a lavori terminati nel 1996. La proprietà è rimasta all’Enel per molti anni fino a quando il Comune di Trino ha ricomprato il borgo a una cifra simbolica, lasciando comunque all’Enel i terreni adiacenti. Negli anni ’90 qualcuno propose di costruirvi un Museo Nazionale dell’Agricoltura, ma le parole si persero nel vento, come l’ipotesi del 2011 di iniziare i lavori di restauro, per recuperare la tenuta della famiglia Cavour in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Tra i ruderi della dimora di Camillo Benso, sono rimasti ancora fienili, scuderie, granai, abitazioni dei lavoratori e un vecchio mulino. L’unico edificio chiuso ermeticamente è la chiesa. Ad oggi il suo valore storico ha perso gran parte del suo fascino e nessuno ha voluto effettivamente restituirlo all’antico splendore. Le due torri della centrale Galileo Ferraris, così vicine alla grangia, non fanno altro che aumentare il senso spettrale che Leri fa penetrare fin nelle ossa di tutti coloro che vi giungono anche semplicemente a farvi un giro. 

La centrale termoelettrica Galileo Ferraris (a sinistra) e Leri Cavour (a destra)

 


ARTICOLO DI BILLIA NOEMI DELLA CLASSE IIIA DEL LICEO CLASSICO


SITOGRAFIA:

http://www.atlvalsesiavercelli.it/le_grange_ita.php

https://www.treccani.it/enciclopedia/ordine-cistercense/

https://www.treccani.it/enciclopedia/abbazia/

http://www.borgoramezzana.it/FR/le-strade-delle-grange-e-l-abbazia-di-lucedio

http://www.vercellink.com/vercelli/grange.php

https://initalia.virgilio.it/cimiteri-piu-famosi-e-inquietanti-in-italia-3476

http://archeocarta.org/crescentino-vc-castello-e-chiesa-di-san-genuario/

https://www.comune.crescentino.vc.it/san-genuario.html

https://www.albyphoto.it/articoli/cimitero-abbandonato-di-darola/

https://www.fondoambiente.it/luoghi/antico-cimitero-abbandonato-di-darola

https://www.lacivettaditorino.it/editto-di-saint-cloud/

https://vercelli.italiani.it/scopricitta/leri-cavour-l-immensa-reggia-di-camillo-benso/

https://iltorinese.it/2018/04/06/leri-cavour-le-estati-di-camillo-benso/

https://www.albyphoto.it/articoli/paese-abbandonato-leri-cavour/


 

BIBLIOGRAFIA:

La Grande Storia del Piemonte – Casa Editrice Bonechi (Firenze)