PILLOLE DI STORIA

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Il 6 agosto 1915, i tedeschi attaccarono tramite gas velenoso la fortezza russa di Osowiec, questo terribile attacco prende il nome di “attacco dei morti viventi”.

 La fortezza di Osowiec, situata vicino alla città polacca di Bialystok nella Polonia nordorientale , fu edificata tra gli anni ottanta e novanta del XIX sec. dai russi per proteggere i propri confini occidentali da un ipotetico attacco tedesco  modernizzandola poi  allo scopo di adeguarla agli sviluppi dell’artiglieria da assedio. Per i tedeschi questa fortezza rappresentava un grande ostacolo, tentarono di prenderla già due volte, la prima nel settembre 1914, la seconda nel marzo 1915, facendo addirittura uso dei temibili cannoni “Grande Berta”, fallendo però entrambe le volte. Quindi il 6 agosto del 1915 alle 4 del mattino, presero la decisione di fare un attacco estremo: attaccarono facendo uso di un gas velenoso; si trattava di una miscela di cloro e bromo, che grazie al vento favorevole era riuscita a estendersi  intorno alla fortezza con una nube verdastra alta 15 metri. Come ricordò Sergej Khmelkov, uno dei sopravvissuti all’attacco, nelle sue memorie:

“Tutto ciò che viveva all’aria aperta sulla piazza d’armi della fortezza è stato avvelenato a morte. Tutta la vegetazione nella fortezza e nelle vicinanze è stata distrutta, le foglie sugli alberi sono ingiallite, arricciate e cadute, l’erba si è annerita e accasciata per terra, i petali dei fiori sono caduti. Tutti gli oggetti in rame sulla piazza d’armi della fortezza si sono ricoperti di uno spesso strato verde di ossido di cloro; I prodotti alimentari conservati senza sigilli sono stati avvelenati e resi inadatti al consumo”.

                                                                                                                                                                                                                                                               Sergej Khmelkov

Al momento dell’attacco tedesco la fortezza era difesa da 500 soldati del 226° Reggimento di fanteria Zemlyansky  e da altri 400 miliziani, comandati dal tenente Vladimir Karpovich Kotlinsky. Mentre i tedeschi disponevano di 7-8 mila soldati, nei 14 battaglioni di fanteria .

Il tedeschi lanciarono una offensiva frontale alla fortezza di Osowiec agli inizi del luglio 1915; l’attacco comandato da Paul von Hindenburg coinvolse 14 battaglioni di fanteria, un battaglione di zappatori, circa 30 cannoni d’assedio e 30 batterie di artiglieria equipaggiate con gas. Le difese russe consistevano in circa 500 uomini del 226º Reggimento di fanteria Zemlyansky e 400 miliziani. 

I tedeschi attesero fino alle 4:00 di mattina del 6 agosto così da avere il vento a favore all’avvio del bombardamento di artiglieria con gas al cloro. Il gas” fece diventare l’erba nera le foglie gialle; uccelli, rane, insetti e altri animali morti giacevano tutto attorno. La terra era diventata un inferno”. I russi o non disponevano di maschere antigas o quelle disponibili erano di pessima qualità, quindi i soldati furono costretti a usare i propri panni come protezione imbevendoli di acqua o urina. Il tenente Vladimir Karpovich Kotlinsky, il soldato di più alto grado a sopravvivere all’attacco, radunò i superstiti e tutti insieme decisero di lanciarsi alla carica contro i tedeschi in avanzata. 

Oltre dodici battaglioni della 11ª divisione Landwehr, ovvero più di 7.000 uomini, avanzarono dopo il bombardamento aspettandosi poca o nessuna resistenza. Alla prima linea di difesa si videro caricare dai superstiti della XIII compagnia del 226º reggimento di fanteria. Il panico travolse i tedeschi quando videro le condizioni dei soldati russi che con le bocche sanguinanti tossivano pezzi dei loro stessi polmoni mentre l’acido cloridrico formatosi dalla reazione del cloro con la condensa nei polmoni disfaceva lentamente i soldati dall’interno. I tedeschi si ritirarono disordinatamente in preda al panico e finirono per cadere nelle loro stesse trappole. Cinque mitragliatrici russe, le uniche rimaste, aprirono il fuoco sui soldati in fuga. Lo stesso Kotlinsky morì alla sera. 

I russi non riuscirono a tenere l’area a lungo. I tedeschi minacciavano di accerchiare la fortezza dopo la cattura di Kovno e Novogeorgiesk. I russi demolirono ciò che rimaneva della fortezza e si ritirarono infine il 18 agosto.

I soldati all’interno della fortezza, privi di maschere antigas, vennero massacrati.

Così i tedeschi, dopo esser riusciti ad annientare la prima linea di difesa russa, dotati di maschere antigas, si fecero strada all’interno della fortezza, convinti di trovare solo cadaveri, ma ciò che li attese fu scioccante… i soldati russi superstiti, guidati dal sottotenente Vladimir Kotlinskij, attaccarono pieni di rabbia i tedeschi rimasti terrorizzati; lo spettacolo fu a dir poco raccapricciante: i soldati russi avevano il volto coperto da stracci impregnati di sangue, tremavano, sputavano sangue, la pelle era piena di pustole, alcuni di loro avevano perso la vista… ma nonostante ciò, assetati di vendetta combatterono (da qui il nome dell’attacco). Per i tedeschi fu una visione infernale, i superstiti russi ai loro occhi apparivano come fantasmi in cerca di vendetta, e sopraffatti dal terrore e dal panico scapparono via, diventando bersagli facili per i russi, i quali approfittando della situazione riuscirono a riprendere il “comando”. Dopo sette ore, alle 11 del mattino, la battaglia finì.

Vladimir Karpovich Kotlinsky

 

Dopo due settimane la fortezza fu evacuata.

Grazie a questo attacco vennero salvate migliaia di vite, e Osowiec riuscì a resistere per ancora un po’ di tempo, fino all’ aprile dello stesso anno, quando le forze austriache e tedesche sfondarono il fronte russo in Russia e in Galizia.

La notizia di questa battaglia, chiamata poi “carica dei morti viventi” o “attacco dei morti viventi”, venne largamente celebrata dalla propaganda nazionale russa.

Le fasi della battaglia.
FASE 1 DAL 25 FEBBRAIO AL 3 MARZO 1915.

I tedeschi della XI armata ai comandi deTenente Vladimir Karpovich Kotlinsky, comandante della fortezza di Osowiec durante l’attaccol feldmaresciallo August von Mackensen martellano la fortezza russa di Osowiec con intensi bombardamenti di artiglieria. Vengno usati anche cannoni M-Gerat 14L/12 (il “cannone di Guglielmo” o “la grande Berta”.

FASE

Dopo aver constatato che le difese del forte sono ancora in grado di resistere a un attacco via terra, il 6 agosto i tedeschi ricorrono all’uso dei gas (iprite). Una nuvola alta 15 metri e larga 8 chilometri investe una fascia di territorio profonda 20 km, contaminando tutto quello che incontra.

FASE 3

Per stroncare ogni residua resistenza dei russi ulteriore bombardamento con le loro batterie. Nelle stesse ore, il gas si dirada in misura sufficiente a far avanzare le truppe senza che corrano il pericolo di respirarlo.

FASE 4

Convinti che i difensori della fortezza siano tutti morti o messi fuori combattimento dal gas, i tedeschi muovono all’attacco con 14 battaglioni della fanteria (Landwehr), in tutto circa 7mila soldati, puntando verso la posizione chiave di Sosneskaja.

FASE 5

Il comandante del II dipartimento della guarnigione russa, Svechnikov, raccoglie i pochi sopravvissuti e organizza un contrattacco,  guidato dal sottotenente Kotlinskij. La mossa coglie di sorpresa i tedeschi, che ripiegano spaventati dall’aspetto dei soldati russi: questi, i volti fasciati e le divise lacere, camminano a stento e sputano sangue.

FASE 6

Con un assalto alla baionetta, i russi riconquistano alcune posizioni nel perimetro più esterno della fortezza che avevano perdute, dalle quali mitragliano i nemici in fuga. I tedeschi, ormai nel panico, si ritirano disordinatamente, incalzati dal fuoco nemico. Una sconfitta del tutto inattesa, anche per la loro netta superiorità numerica e … fisica.

LA LETALE NUVOLA VERDE. Un primo attacco con i gas fu tentato già alla fine dell’inverno, ma invano: le temperature erano ancora troppo basse per permettere ai vapori venefici di librarsi fino all’obiettivo, portando con sé i loro effetti letali. Arrivata l’estate, però, le condizioni climatiche erano decisamente cambiate. Con il sopravvenire dell’agosto, la temperatura si era alzata al punto giusto; restava solo da aspettare con pazienza che il vento prendesse forza e la direzione adatte. Cosa che avvenne il 6 agosto. Alle prime ore del mattino, migliaia di contenitori furono aperti dai tedeschi per liberare la miscela di cloro e bromo in direzione delle fortificazioni russe. In pochi minuti, una nuvola giallo-verdastra alta fino a 15 metri e larga 8 chilometri avanzò silenziosa investendo una fascia di territorio profonda una ventina di chilometri. La guarnigione del forte, o meglio quel che ne restava dopo mesi di assedio, non aveva nulla per difendersi contro un simile espediente. Nessun rifugio a tenuta stagna, né tanto meno maschere antigas.

Dal punto di vista tattico, l’attacco con il gas risultò perfettamente riuscito. Tutto ciò che era nella fortezza e negli immediati dintorni fu avvelenato e la sua sorte segnata. Le foglie degli alberi si ingiallirono, si accartocciarono e caddero al suolo, come se in pochi secondi fosse trascorsa un’intera stagione. Ma non era il ciclo naturale della natura che li aveva ridotti a scheletri inanimati. L’erba si annerì e si afflosciò al suolo, i fiori persero i petali. Nulla poteva sottrarsi a quella nuvola di morte. Gli oggetti di rame, come lavandini e cisterne per l’acqua, ma anche cannoni e proiettili, si ricoprirono di uno strato di ossido di cloro e presero anch’essi quel colore verde che, a Osowiec, era sinonimo di morte. Le provviste di cibo e di acqua vennero irrimediabilmente contaminate. E gli uomini? Soffocati dal gas, che riempiva di bolle la loro pelle, impregnava le divise ed entrava nei polmoni, provocando devastanti lacerazioni negli organi interni, cercavano disperatamente un rifugio inesistente, o un po’ d’acqua per placare l’arsura che li aveva presi alla gola, come una morsa. Chinandosi a terra per bere dalle fonti d’acqua, però, respiravano ancora di più le esalazioni venefiche, cadendo stremati. Uno scenario apocalittico, da cui sembrava che nessuno potesse sopravvivere. Per essere certi che non avrebbero più incontrato alcuna resistenza, i tedeschi pensarono bene di procedere con un ulteriore bombardamento del forte, prima di lasciare che il gas si diradasse abbastanza da permettere un’avanzata senza danni. Quattordici battaglioni della fanteria, non meno di 7mila soldati, mossero verso posizione chiave di Sosneskaj. I loro ufficiali li avevano rassicurati: “State tranquilli, il gas non c’è più e non incontrerete alcuna resistenza: i russi sono tutti morti, o nono sono più in grado di combattere”. I fanti del Kaiser, così, si mossero convinti che l’occupazione della postazione sarebbe stata una formalità. Ma i russi non erano tutti morti. Certo, quelli sopravvissuti non avevano proprio l’aspetto di chi è ancora in grado di muoversi, figuriamoci di combattere.

L’uso del gas nella Grande guerra.

effetti dell’iprite

Vietate dalla Convenzione dell’Aia del 1907, le armi velenose furono prodotte e impiegati da quasi tutti i contendenti nella Grande guerra, Italia compresa. L’obiettivo era tanto semplice, quanto spietato: eliminare fisicamente i nemici che nessun bombardamento o assalto avrebbe snidato dalle loro posizioni trincerate o fortificate. I gas utilizzati spaziavano dai lacrimogeni all’iprite (una miscela di zolfo e cloro, detta “gas mostarda” per il suo odore) al fosgene. Mentre i lacrimogeni procuravano effetti invalidanti, gli altri erano mortali. Si calcola che le vittime complessive dei gas durante il conflitto furono più di un milione, di cui 400mila russi, 200mila tedeschi e 190mila francesi – pari al 6% del totale. I primi ad usare il gas sul fronte di battaglia furono i francesi, già nel 1914, ma si trattava di lacrimogeni. L’impiego su vasta scala avvenne l’anno seguente per  mano tedesca sul fronte orientale. Ben presto ci si rese conto che l’impiego di questa nuova arma era soggetto a una serie di varianti atmosferiche quali la temperatura e l’umidità dell’aria, la forza e la direzione del vento, che se non opportunamente tenute conto potevano annullarne l’efficacia o addirittura ritorcerla contro lo stesso esercito che aveva deciso di farne uso, come avvenne per gli inglesi a Loos, in Francia, nel settembre del 1915. Un altro problema era rappresentato dalla modalità con cui procedere per investire dei gas le linee nemiche, ovvero se sparare con cannoni e mortai proiettili pieni di veleno, oppure liberarlo da contenitori (come bombole), collocati nelle proprie trincee e collegati a tubi e rubinetti. Il gas che si rivelò più micidiale, nonché il più noto, è l’iprite, che prese nome dalla città belga di Ypres, sul fronte occidentale, dove venne usato per la prima volta. Oltre ad avere violenti effetti vescicanti, tali da causare emorragie interne ed esterne assai dolorose, questo agente chimico ristagnava sulle divise, sul terreno e si insinuava persino nel sottosuolo, continuando ad agire per settimane. Ne subivano i danni gli stessi portaferiti e il personale medico che assistevano quanti ne erano contaminati. A ben poco servivano le maschere antigas distribuite ai soldati in prima linea (e anche ad animali come muli e cavalli) , dal momento che avevano una riserva limitata d’aria. Le prime maschere in flanella, inoltre, facevano sudare moltissimo e appannavano la vista, così che i soldati finivano con il togliersele prima che il pericolo fosse cessato. Le linee non lontane dagli abitati, inoltre, fecero sì che dai gas fosse investita in alcuni casi anche la popolazione civile, che non disponeva di protezioni. Alcune stime indicano tra 100mila e 250mila le vittime civili della guerra chimica, i cui effetti si sarebbero protratti sui sopravvissuti ancora per anni dopo la fine delle ostilità. La gran parte di quanti avevano inalato gas, infatti, non morirono: alcuni rimasero invalidi, i più dovettero fare i conti con le conseguenze sulla loro salute per il resto della vita.

L’ULTIMA CARICA DELLA 13a COMPAGNIA. I soldati si erano fasciati il volto con pezze strappate dalle uniformi, che si erano presto imbevute dl sangue fuoriuscito dalle piache sul volto e sulle mani. Respiravano a fatica, fra atroci dolori, sputando sangue, schiuma e pezzi di essuti dai polmoni. Le loro lacere uniformi e le armi con le parti in metallo ossidate concorrevano a dare loro l’aspetto di cadaveri. Invece erano vivi. Nella maggior parte dei casi, ancora per poco. Insomma, non avevano nulla da perdere. E prima di lasciare questo mondo, erano mossi da un solo desiderio: farla pagare cara a chi li aveva ridotti così. Contro ogni aspettativa dei tedeschi, il capo del II dipartimento della guarnigione, Svechnikov, decise di raccogliere i sopravvissuti per organizzare un contrattacco. A comandarlo sarebbe stato il sottotenente Vladimir Karpovich Kotlinskij con quello che restava della 13a compagnia del 226° reggimento Zemliaskij, dimezzata nell’organicol. Le sofferenze alimentarono una insospettabile volontà che si tramutò in furia. I soldati uscirono dalle fortificazioni e mossero contro i tedeschi, seppure questi fossero assai superiori di numero e in condizioni fisiche incomparabilmente migliori. E contro ogni pronostico, ebbero la meglio.

I tedeschi non si sarebbero mai aspettati lo spettacolo che si presentò ai loro occhi. Non solo i russi non erano morti o fuori combattimenti, ma muovevano al contrattacco. Il loro aspetto, poi, era terrificante: a vederli avanzare, parevano morti che camminavano. Colti di sorpresa e terrorizzati dalle figure che vedevano avanzare contro di loro, le truppe della Landwehr furono prese dal panico. Qualcuno, forse, pensò che si trattasse dei fantasmi dei soldati del forte, che volevano trascinarli con sé nel regno dei morti. In breve, i tedeschi fecero dietrofront e scapparono a gambe levate verso le loro postazioni, incalzate dal fuoco dei russi. Con un assalto alla baionetta, questi riuscirono a riprendere alcune posizioni perdute, da dove mitragliarono i nemici in fuga.

Quella terribile giornata – che sarebbe passata alla storia come l’attacco dei morti – si concluse con la perdita, nelle file russe, di 660 uomini. Fra loro, anche il sottotenente Kondiskij, che era stato ferito a morte nel corso dell’attacco da lui guidato. L’anno seguente fu insignito dell’Ordine imperiale di San Giorgio di IV grado, una onorificenza introdotta da Caterina II per chi si distingueva nelle imprese militari. Al IV grado erano ammessi gli ufficiali che avessero partecipato ad almeno a una battaglia. L’utilità del suo sacrificio, però, si rivelò di breve durata. Poche settimane dopo, infatti, la fortezza fu evacuata allorché l’arretramento del fronte a est rese inutile la sua difesa. I russi portarono con sé ogni arma rimasta intatta e la notte del 24 agosto fecero saltare in aria le poche opere difensive ancora in piedi. Il giorno dopo i tedeschi poterono occuparne solo le rovine. A differenza di Kotlinskij, gli ultimi difensori della fortezza non furono considerati eroi, al contrario. Nel 1917, con la salita al potere di Kerenskij, vennero accusati di tradimento per essersi ritirati. Solo dopo che i sovietici avevano preso il potere con la rivoluzione, furono riabilitati e il loro comportamento portato ad esempio in seguito all’invasione nazista del 1941.

Articolo in gran parte di Andrea e Federico Accorsi, pubblicato su Storie di guerre e guerrieri n. 21- altri testi e immagini da Wikipedia.  


ARTICOLO DI MARTINA AIELLO DELLA CLASSE 3^A DEL LICEO CLASSICO


SITOGRAFIA:

https://it.rbth.com/storia/81233-lattacco-dei-morti-viventi

https://it.wikipedia.org/wiki/Carica_dei_morti

Osowiec, la carica dei morti