CHI ERA JOHN LOCKE?

John Locke nasce nel 1632 in Inghilterra, e vive il turbolento momento storico a cavallo della rivoluzione guidata da Oliver Cromwell (1599-1658) e della decapitazione di Carlo I (1600-1649). Studia a Oxford, dove in seguito insegna, e diventa maestro delle arti. Locke qui si occupa della filosofia di Cartesio e Hobbes e di studi naturali e di medicina, sebbene non arriverà mai a diventare dottore. A trentacinque anni diventa segretario del conte di Shaftesbury, esponente del partito whig, e si occupa attivamente di economia e politica.                                                                                                                    Nel 1667 scrive il Saggio sulla tolleranza, che è fondamentale per la separazione tra il potere statale e le fede religiosa, e l’opera economica Considerazioni sulle conseguenze della riduzione dell’interesse (1668). Nel 1682, dopo il crollo della fortuna politica di Lord Shaftesbury per il suo coinvolgimento in una congiura contro Carlo II (1630-1685), il filosofo si autoesilia in Olanda. Prende qui parte ai preparativi per la spedizione di Guglielmo d’Orange del 1688 e quindi torna in Inghilterra nel 1689, diventando uno dei principali rappresentanti della cultura liberale del paese.

OPERE 

Pubblica anonimamente L’epistola sulla tolleranza (1689) e i Due trattati sul governo (1690), e sempre dello stesso anno è il Saggio sull’intelletto umano, che ha eco vastissima. Degli anni successivi sono i Pensieri sull’educazione (1693), i saggi su La ragionevolezza del cristianesimo (1695-1697) e la Condotta dell’intelletto (pubblicata postuma).

LA TEORIA POLITICA

Lo stato di natura secondo Locke Secondo Locke, gli uomini, in quanto appartenenti al mondo naturale, tendono a comportarsi secondo le leggi di natura. Se gli uomini fossero sempre razionali, lo stato di natura sarebbe più che sufficiente per regolare il loro comportamento. La libertà originaria di cui gode l’uomo nello stato di natura non è caratterizzata dallo ius in omnia (come accadeva in Hobbes) bensì da una condizione di assenza di obbligo o di vincoli verso chicchessia. Si tratta in altri termini di quella che è stata definita liberty from (libertà da). Così spiega Locke, la libertà è «il diritto di regolare le proprie azioni e disporre dei propri possessi e delle proprie persone come si crede meglio, entro i limiti della legge di natura, senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di nessun altro». Tuttavia lo stato di natura presenta un inconveniente. Per una serie di situazioni accidentali è possibile che le regole di natura vengano violate da qualcuno. In questo caso, secondo Locke, nello stato di natura non vi è alcun modo per riparare i torti e riportare i violatori all’obbedienza. Ciò accade perché nello stato di natura la vittima (colui che ha subito la violazione) dovrebbe farsi giustizia con le proprie mani (non esistendo alcuna autorità superiore, alcun giudice imparziale cui rivolgersi). Poiché “nessuno è buon giudice della propria causa” una qualunque contesa intorno a una violazione finirebbe per sfociare in una serie di ulteriori violazioni, esagerazioni, vendette e quindi si verrebbe a determinare uno stato pericoloso di sopraffazione e di guerra. In altri termini, lo stato di natura secondo Locke non è necessariamente malvagio, anzi è uno stato decisamente buono e pacifico, ma può facilmente degenerare in uno stato di guerra. Come si vede, la concezione di Locke dello stato di natura si colloca in una posizione intermedia tra una situazione totale di guerra (come in Hobbes) è una situazione totale di pace (come in Pufendorf). Ne deriva quindi – nella sua teoria politica – l’esigenza di una specie di compromesso volto a conservare, da un lato, gli aspetti positivi dello stato di natura e volto, dall’altro, a porre un rimedio ai suoi aspetti negativi.

LOCKE E L’EMPIRISMO                                                                                                                    

L’esperienza di John Locke si situa nell’alveo dell’empirismo inglese, di cui il filosofo può essere considerato a tutti gli effetti il fondatore, ed anticipa per molti aspetti la cultura dell’Illuminismo europeo cui parteciperanno, tra gli altri, Voltaire, Diderot, Rousseau e Cesare Beccaria. L’empirismo concepisce l’esperienza come origine primaria della conoscenza, nonché come criterio di verità e certificazione delle tesi, la cui validità deve essere testata empiricamente. L’esperienza si connota comunque come un limite fondamentale nel processo della conoscenza, in accordo con l’indirizzo anti-metafisico della corrente empirista. La ragione non viene quindi negata, ma limitata laddove essa pretenda di stabilire verità necessarie senza sottoporle alla verifica e al controllo empirico. La ricerca filosofica consente così di utilizzare tutti quegli strumenti che sono adeguati alle possibilità umane, purché i risultati conseguiti possano sempre messi alla prova, verificati e confutati.

RAGIONEVOLEZZA DEL CRISTIANESIMO

Nella Ragionevolezza del Cristianesimo (1695), Locke afferma che il nucleo essenziale del Cristianesimo è il riconoscimento di Cristo come Messia e della vera natura di Dio. Ciò costituisce la base per una religione semplice, adatta a tutti, libera dai sofismi teologici. Naturalmente la fede in Cristo implica anche l’obbedienza ai suoi precetti, per quanto nessuno sia obbligato a conoscere tutti quei precetti, che ciascuno deve invece cercare di apprendere e di comprendere da sé nelle Scritture. La ragione è in qualche modo intrinseca al Cristianesimo stesso, che è nato come sforzo di liberare l’uomo dalle vecchie tradizioni; in altre parole, il Cristianesimo è stata una nuova e più efficace promulgazione della legge morale e delle verità fondamentali che reggono la vita umana.

Il principio della tolleranza delle varie opinioni e in particolare delle diverse fedi religiose ha trovato un’ampia trattazione nella Lettera sulla tolleranza (1689). A fondamento del discorso vi è la netta separazione tra lo Stato e la Chiesa, cioè la distinzione tra le competenze dell’autorità civile e di quella religiosa, distinzione che fu di enorme portata storica. Pertanto lo Stato può intervenire per imporre leggi e sanzioni, ma non per imporre articoli di fede o dogmi o forme di culto. Anche il rapporto tra le varie Chiese deve ispirarsi al dovere della tolleranza. Nessuna di esse può infatti vantare alcun diritto sulle altre, giacché “ogni chiesa è ortodossa per se stessa, ed erronea o eretica per le altre”. Un conflitto potrebbe sorgere solo se non si rispettano i limiti delle proprie competenze da una parte o dall’altra. Questo è purtroppo quanto accade, secondo Locke, nel caso dei cattolici, i quali, proprio per questo, vanno esclusi dal campo di chi può beneficiare della tolleranza del sovrano. Infatti la sottomissione dei cattolici al Papa è un vero e proprio passaggio ad un sovrano straniero e questo non può essere tollerato, nella misura in cui, del resto, sono essi – i cattolici – che si rifiutano, dice Locke, di rispettare gli altri. Una seconda eccezione al principio della tolleranza è costituita dall’ateismo, perché esso compromette i presupposti di qualsiasi convivenza civile. È sicuramente una contraddizione, visto che se si parla della tolleranza e la si accetta come principio, non è possibile poi non tollerare gli atei.