Chi lavora viene pagato per "cosa fa".
Poi qualcuno anche per "chi è". Un fenomeno
diffuso nel mondo dello sport.
Si pensi al calciatore che in campo
mette a disposizione della società sportiva
i suoi piedi buoni, e nell'agenzia
pubblicitaria vende la sua persona
abbinata ai prodotti della ditta commerciale
di turno.
E' la cosiddetta "immagine", che per
l'atleta è un bene prezioso quanto i
muscoli. Anzi di più, considerato che
spesso è la "paga" ad essere un arrotondamento
dei compensi incassati
per la cessione appunto dell'immagine.
Un'attività, se tale è il mostrare la
faccia, che ha messo in crisi i sistemi
fiscali europei. Perchè se è vero che il
calciatore presta la sua opera in pubblico,
alle dipendenze di un datore di
lavoro conosciuto (il club sportivo) e
sotto gli occhi di milioni di testimoni
(Erario compreso), è altrettanto vero
che egli l'immagine la presta in privato
in un remoto studio di foto o di video
pubblicitari. Una società con sede in
un paradiso fiscale fattura le "prestazioni"
ed incassa dall'azienda (o dal club
sportivo titolare dei diritti di immagine
del suo dipendente) delle somme esentasse.
Per conto dell'atleta? Tutto da
dimostrare.
I francesi ci stanno rinunciando, i
tedeschi si sono spinti fino al padre di
Steffi Graf, mentre l'ufficio imposte di
Napoli da dieci anni rincorre le scatole
cinesi di Maradona in giro per il mondo.
D'altronde in Italia (e non solo) nella
lista dei massimi contribuenti è raro
trovare tantissimi Paperoni sportivi ai
primi posti. Regolata la questione "diritti",
con l'atleta dipendente si pattuisce
uno stipendio "ordinario", che sconta
l'Irpef e contributi altrettanto contenuti
per il club. Per gli sportivi militari scatta
poi il sistema retributivo dei dipendenti
statali.
Il meccanismo non vale invece per
gli autonomi: se per l'organizzatore
aumentare il montepremi è infatti un
segno di prestigio, per il vincitore ciò
significa maggiori imposte. Da qui le
fughe di numerosi atleti verso i paradisi
fiscali.