Da un certo tempo a questa parte
nello sport italiano la parola d’ordine è
“largo ai giovani”. Per le diverse componenti
essi sono diventati la panacea
delle degenerazioni dello sport d’élite
professionistico.
Per alcune federazioni (tennis, atletica...)
la linea verde è lo stimolo alla
rifondazione dei rispettivi movimenti
agonistici di vertice in disgrazia.
Per le istituzioni un segnale di sensibilità
nei confronti delle aziende in crisi:
fondi permettendo, la confindustria del
calcio di serie C, la Lega di Firenze,
ha deciso di ripartire dal prossimo torneo
tra le società affiliate le quote del
concorso Totocalcio in via direttamente
proporzionale alla quantità di giovane
manodopera impiegata sul campo; il
tutto in attesa delle norme di attuazione
delle disposizioni contenute nella Legge
Finanziaria 2001 circa gli incentivi fiscali
e previdenziali all’occupazione giovanile
previsti per i datori di lavoro nel calcio di
serie C. In diverse discipline di squadra
i management puntano sul vivaio per
motivi di contenimento del costo del
lavoro. E non mancano per finire sponsor
storici e nuovi che, rifiutando la vetrina
dello sport di vertice, hanno deciso
di investire negli esordienti (Mapei,
Liquigas...).
A questo punto il fenomeno merita
alcune considerazioni.
Innanzitutto questa attenzione verso
la formazione sportiva giovanile è ben
diversa da quella a sfondo sociale dell’Italia
del boom economico fine anni
Sessanta, un’epoca in cui di “lavoro sportivo”
si parlava limitatamente al calcio.
Cioè qui non stiamo formando sportivi
nel tempo libero, ma futuri “lavoratori
dello sport”. Il tutto avviene forzatamente
al di fuori di un sistema scolastico
che dovrebbe essere in grado di offrire
quelle valide alternative, allorchè scopriremo
che oggi questo disegno sembra
sottovalutare le delicate prospettive
di quel mercato sbocco finale degli
investimenti:
- un professionismo sempre più selettivo
(anche e soprattutto per motivi
finanziari) che va verso il “numero chiuso”;
- uno pseudo-dilettantismo sempre
più legato alle alterne fortune dello
sponsor principale;
- il comparto dei gruppi sportivi di
Stato sulle spalle dei cittadini che deve
fare i conti con il debito pubblico ed il
rispetto dei Patti di stabilità comunitari;
- la crescente manodopera sportiva
extracomunitaria, a partire per l’industria
del calcio da quella proveniente
da un contiente allo sbando come il
SudAmerica. In Brasile i dollari della Nike
del recente trionfo mondiale seguiranno
i campioni all’estero, mentre quelli nelle
tasche della federazione difficilmente
riusciranno a contrastare con progetti
concreti l’espatrio organizzato dei giovani
calciatori.