Lo sport sostenibile

15 Novembre 2002

La nostra società periodicamente si

interroga ed invoca lo sviluppo “sostenibile”.

Sostenibile. Un termine che richiama

la memoria al principio informatore

della scuola di pensiero austriaca di

due secoli addietro, che caratterizzava

il ciclo di studi economici negli istituti

tecnici superiori ad indirizzo ragionieristico:

la capacità di autolimitazione

nell’agire economico.

Un atteggiamento responsabile che

va oltre il “non fare il passo più lungo

della gamba” da parte dell’operatore

(famiglia, impresa, Stato) con mezzi

contenuti a disposizione; esso dovrebbe

infatti diventare un sentire comune

che muove anche chi di risorse ne ha, e

molte, ma non le impiega in un mercato

fragile per non alterare certi equilibri, a

partire da quelli inerenti il costo della

manodopera. Senza contare poi che a

lungo termine quella “supremazia” non

verrebbe premiata in proporzione agli

investimenti sia in termini di immagine

che di profitti. Questi ultimi sconterebbero

infatti le ripercussioni negative del

settore.

Riflettiamo: in una delle massime

espressioni dell’industria sportiva spettacolistica

oggi in fase di stagnazione,

la Formula 1, con modi di fare forse

discutibili non si sta cercando in fondo

di portare le grandi scuderie (Ferrari in

testa) all’applicazione di quel principio?

Allora si può e si deve cominciare

a parlare di “sport sostenibile”, a maggiore

ragione nell’àmbito dei confini

nazionali.

Per esempio nel massimo campionato

francese di pallavolo il budget di

spesa annuale di un sodalizio tipo è di

895mila euro, fatta eccezione per quelli

dei club di Parigi (1.500) e di Tourcoing

(1.250) che impiegano lavoratori stranieri

per 3/6; questo mercato non

sarebbe più “sostenibile” allorchè un

imprenditore decidesse di costruire un

club transalpino “mondialista” per 6/6

a 3.000euro; quanti delle attuali società

potrebbero fare fronte al conseguente

incremento salariale senza l’aiuto pubblico?

In Canada la questione è aperta

nientemeno che nello sport nazionale,

l’hockey su ghiaccio. Per aiutare i club

impegnati nel costosissimo circuito statunitense,

le autorità distrettuali preleveranno

da questo anno e fino a tutto il

2005 il 12,5 per cento della retribuzione

giornaliera dei lavoratori delle società

che pagano ingaggi oltre certi tetti

(Edmonton, Calgary), e redistribuiranno

il gettito (in totale 3,6milioni di euro)

a favore delle aziende in difficoltà. In

barba al liberismo ed alla libera concorrenza.









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