Associazioni di pallavolo maschile di
serie A1 ed A2 in rivolta, pugili che fuggono
in Lussemburgo. L’inizio del nuovo
anno nel panorama sportivo nazionale
si è aperto anche con questi fatti accomunati
dalla motivazione: costringere i
consigli nazionali della Fipav e della Fpi
a revocare l’applicazione della Legge 23
marzo 1981, n. 91 sul professionismo
sportivo, in via retroattiva dal 1° gennaio
2000 per la boxe e dal prossimo 1°
luglio per il volley.
Cerchiamo di comprendere questo
fenomeno, seguendo un ordine.
La legge n. 91/1981 è una legge dello
Stato, ma la sua applicazione nei diversi
sport è subordinata ad una delibera di
consiglio nazionale delle varie federazioni.
La base della norma è il contratto di
lavoro subordinato con tanto di versamenti
obbligatori ai fini del tfr, fiscali
(irpef ed addizionali), previdenziali
(enpals) e, nel prossimo futuro, assicurativi
(inail). Insomma un aggravio di
costi per le parti, rispetto alla prassi
dei rimborsi spese esenti da tasse e
da contributi della ex Legge 25 marzo
1986, n. 80, nella quale associazione ed
atleta trovavano lo strumento ideale
per regolare i loro rapporti economici
di fronte allo Stato fino a 18milioni di
lire. Una cifra non più credibile ai massimi
livelli per pallavolo e pugilato. Da
qui la svolta alla luce del sole verso il
professionismo.
Ma il nuovo status fiscale dello sportivo
al servizio di una associazione dilettantistica
uscito a fine anno dal cilindro
di Visco ha cambiato (forse senza volerlo)
le carte in tavola: spazzata la legge n.
80/1986, il nuovo compenso non ha più
limiti, è esente da contributi, da tasse
fino a 6milioni e sulla parte eccedente
scatta una favorevole trattenuta secca
del 19% in barba alla progressività dell’Irpef.
Pugili e pallavolisti vogliono fare marcia
indietro. Ma a quelle condizioni, chi
applicherà ancora in futuro la legge sul
professionismo?