Rischio calcio globale

22 Giugno 2001

Per Gilberto Benetton lo sport del calcio

non è un investimento nel sociale.

Secondo una indagine del periodico

americano Sport Illustrated intorno

al derby-scudetto della pallacanestro,

in Bologna il calcio è un fenomeno

così sociale e socializzante che il basket

diventa anche una fuga elitaria.

Due recenti visioni antitetiche che

confermano quanto sia complesso

accostarsi alla rivoluzione industriale

del pallone, cioè di quella che i sociologhi

da tempo definiscono la ricreazione

di massa della domenica.

Una massa che in generale da una

parte fa resistenza al processo di “aziendalizzazione”

a tappe forzate dello sport

nazionale, allorchè questo impone di

non acquisire rinforzi sul mercato o di

cedere l’atleta “bandiera” della squadra,

e che dall’altra è pronta a sorvolare

sui passi falsi delle dirigenze fuori

dal campo. D’altronde il calcio, proprio

in quanto industria, porta con sé le

degenerazioni di qualsiasi altra realtà

imprenditoriale:

- lo spionaggio dei programmi di

produzione attraverso il continuo trasferimento

dei quadri tecnici (allenatori,

ds, ecc...);

- la costituzione di fondi neri all’estero

attraverso gli acquisti di atleti o di

società sul mercato internazionale;

- l’aggiustamento dei bilanci aziendali

attraverso l’abuso delle plusvalenze e

delle sponsorizzazioni gonfiate.

E come in tutti i mercati saturi, scatta

un altro processo naturale per l’economia:

l’assorbimento delle piccole

imprese (C1 e C2) da parte dei soci e

dei manager di quelle più potenti (A)

risponde sovente a strategie precise:

aumentare il monitoraggio territoriale

del mercato della manodopera, là in

particolare dove l’offerta è prevalente

su quella dei capitali (Italia meridionale:

Acireale, Palermo...). Ciò che viceversa

non è in linea con i criteri di gestione

aziendale è il perdurante squilibrio fra

proventi e costi del lavoro.

La pace sociale è un bene collettivo,

ma non può diventare nello stesso

tempo ricatto ed alibi per gestioni a

continuo rischio di fallimento, e ciò

anche a tutela degli operatori che entrano

in contatto con le imprese. Questa è

la vera sfida non solo del calcio italiano,

ma anche di quello europeo. Altrimenti

la rivoluzione che stiamo vivendo in

questi anni non sarà nulla di fronte ad

una possibile globalizzazione Usa/Cina

del football. Spieghiamo: al di là dell’oceano

cresce il numero degli investitori

ai quali interessa l’industria del

calcio: diversi venture capitalist che non

avrebbero problemi a rilevare a suon di

miliardi l’intero spettacolo; dall’altra c’è

il continente cinese, con la sua potenziale

immensa audience, che si sta innamorando

del football.









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