Per Gilberto Benetton lo sport del calcio
non è un investimento nel sociale.
Secondo una indagine del periodico
americano Sport Illustrated intorno
al derby-scudetto della pallacanestro,
in Bologna il calcio è un fenomeno
così sociale e socializzante che il basket
diventa anche una fuga elitaria.
Due recenti visioni antitetiche che
confermano quanto sia complesso
accostarsi alla rivoluzione industriale
del pallone, cioè di quella che i sociologhi
da tempo definiscono la ricreazione
di massa della domenica.
Una massa che in generale da una
parte fa resistenza al processo di “aziendalizzazione”
a tappe forzate dello sport
nazionale, allorchè questo impone di
non acquisire rinforzi sul mercato o di
cedere l’atleta “bandiera” della squadra,
e che dall’altra è pronta a sorvolare
sui passi falsi delle dirigenze fuori
dal campo. D’altronde il calcio, proprio
in quanto industria, porta con sé le
degenerazioni di qualsiasi altra realtà
imprenditoriale:
- lo spionaggio dei programmi di
produzione attraverso il continuo trasferimento
dei quadri tecnici (allenatori,
ds, ecc...);
- la costituzione di fondi neri all’estero
attraverso gli acquisti di atleti o di
società sul mercato internazionale;
- l’aggiustamento dei bilanci aziendali
attraverso l’abuso delle plusvalenze e
delle sponsorizzazioni gonfiate.
E come in tutti i mercati saturi, scatta
un altro processo naturale per l’economia:
l’assorbimento delle piccole
imprese (C1 e C2) da parte dei soci e
dei manager di quelle più potenti (A)
risponde sovente a strategie precise:
aumentare il monitoraggio territoriale
del mercato della manodopera, là in
particolare dove l’offerta è prevalente
su quella dei capitali (Italia meridionale:
Acireale, Palermo...). Ciò che viceversa
non è in linea con i criteri di gestione
aziendale è il perdurante squilibrio fra
proventi e costi del lavoro.
La pace sociale è un bene collettivo,
ma non può diventare nello stesso
tempo ricatto ed alibi per gestioni a
continuo rischio di fallimento, e ciò
anche a tutela degli operatori che entrano
in contatto con le imprese. Questa è
la vera sfida non solo del calcio italiano,
ma anche di quello europeo. Altrimenti
la rivoluzione che stiamo vivendo in
questi anni non sarà nulla di fronte ad
una possibile globalizzazione Usa/Cina
del football. Spieghiamo: al di là dell’oceano
cresce il numero degli investitori
ai quali interessa l’industria del
calcio: diversi venture capitalist che non
avrebbero problemi a rilevare a suon di
miliardi l’intero spettacolo; dall’altra c’è
il continente cinese, con la sua potenziale
immensa audience, che si sta innamorando
del football.