Dal novembre del 1982 siamo in attesa
della legge quadro sullo sport non
professionistico.
Un buco di venti anni in cui ha fatto
da supplente il legislatore fiscale che, in
modo disordinato e sempre a rimorchio,
ha seguito l’evoluzione del movimento.
Egli ha soddisfatto in modo parziale la
forte istanza degli anni Ottanta, allorchè
ai vertici del Ministero delle finanze
e del Coni siedevano rispettivamente
Rino Formica e Bruno Gattai: il paradiso
fiscale per lo sport no-profit. Si
può affermare infatti che da allora il
carico tributario in media del settore
si è ridotto; pensiamo per esempio alla
abrogazione dell’onerosa imposta sugli
spettacoli.
Oggi la nuova partita fra associazionismo
sportivo non professionistico e
mondo della politica si gioca sulla semplificazione
amministrativa.
Una richiesta rafforzata dalla deregulation
varata in diversi rami della pubblica
amministrazione dagli ultimi governi.
Nel settore in esame il legislatore è
andato in sostanza in controtendenza,
nel tentativo di affrontare attraverso la
burocrazia alcune degenerazioni.
Se ragioniamo scopriremo infatti che
le tre principali “oppressioni amministrative”
che soffocano l’organizzazione
dell’odierno associazionismo trovano
in quella direzione la giustificazione
della loro esistenza. Ora non si tratta di
cancellarle tout-court, ma di semplificare
dove è possibile.
1) Tenuta libri e corrispondenze
sociali. L’assenza di un impianto di schedatura,
di controllo e di comunicazione
nei confronti dei soci secondo rigidi
adempimenti non può continuare a
rappresentare per il fisco la figura sintomatica
dello status di “falso no-profit”
di un ente.
2) Vincoli all’attività amministrativa.
Limitare l’impiego dell’uso dei contanti
oltre certi tetti di spesa e di entrata per
contrastare il fenomeno delle “sponsorizzazioni
gonfiate” ha senso applicato
solo in presenza di soggetti che percepiscono
proventi commerciali.
3) Burocrazia della gestione dei
compensi ai dilettanti. Schedare, farsi
quietanzare, certificare e denuciare al
fisco (modello 770) alla stessa stregua
lo stipendio di un pallavolista di serie
A ed il rimborso forfettario di un allenatore
a tempo perso del settore giovanile
non risponde ad alcuna logica.
Il lavoro sportivo come prima fonte di
reddito o residuale merita oggi una
legislazione ad hoc che imponga meno
adempimenti al soggetto erogatore il
compenso (associazione), e garantisca
a certi livelli più certezza sull’incasso di
tributi e di eventuali contributi attraverso
strutture periferiche pubbliche, che
provvedano al prelievo del dovuto in
capo al percipiente sulla somma lorda.