Semplificare dove possibile

29 Marzo 2002

Dal novembre del 1982 siamo in attesa

della legge quadro sullo sport non

professionistico.

Un buco di venti anni in cui ha fatto

da supplente il legislatore fiscale che, in

modo disordinato e sempre a rimorchio,

ha seguito l’evoluzione del movimento.

Egli ha soddisfatto in modo parziale la

forte istanza degli anni Ottanta, allorchè

ai vertici del Ministero delle finanze

e del Coni siedevano rispettivamente

Rino Formica e Bruno Gattai: il paradiso

fiscale per lo sport no-profit. Si

può affermare infatti che da allora il

carico tributario in media del settore

si è ridotto; pensiamo per esempio alla

abrogazione dell’onerosa imposta sugli

spettacoli.

Oggi la nuova partita fra associazionismo

sportivo non professionistico e

mondo della politica si gioca sulla semplificazione

amministrativa.

Una richiesta rafforzata dalla deregulation

varata in diversi rami della pubblica

amministrazione dagli ultimi governi.

Nel settore in esame il legislatore è

andato in sostanza in controtendenza,

nel tentativo di affrontare attraverso la

burocrazia alcune degenerazioni.

Se ragioniamo scopriremo infatti che

le tre principali “oppressioni amministrative”

che soffocano l’organizzazione

dell’odierno associazionismo trovano

in quella direzione la giustificazione

della loro esistenza. Ora non si tratta di

cancellarle tout-court, ma di semplificare

dove è possibile.

1) Tenuta libri e corrispondenze

sociali. L’assenza di un impianto di schedatura,

di controllo e di comunicazione

nei confronti dei soci secondo rigidi

adempimenti non può continuare a

rappresentare per il fisco la figura sintomatica

dello status di “falso no-profit”

di un ente.

2) Vincoli all’attività amministrativa.

Limitare l’impiego dell’uso dei contanti

oltre certi tetti di spesa e di entrata per

contrastare il fenomeno delle “sponsorizzazioni

gonfiate” ha senso applicato

solo in presenza di soggetti che percepiscono

proventi commerciali.

3) Burocrazia della gestione dei

compensi ai dilettanti. Schedare, farsi

quietanzare, certificare e denuciare al

fisco (modello 770) alla stessa stregua

lo stipendio di un pallavolista di serie

A ed il rimborso forfettario di un allenatore

a tempo perso del settore giovanile

non risponde ad alcuna logica.

Il lavoro sportivo come prima fonte di

reddito o residuale merita oggi una

legislazione ad hoc che imponga meno

adempimenti al soggetto erogatore il

compenso (associazione), e garantisca

a certi livelli più certezza sull’incasso di

tributi e di eventuali contributi attraverso

strutture periferiche pubbliche, che

provvedano al prelievo del dovuto in

capo al percipiente sulla somma lorda.









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