Sfamare i sazi?

24 Agosto 2001

Sport tax, l’ultima tentazione della

politica: tassare lo sport ricco (o presunto

tale) per sostenere quello povero,

nelle periferie delle metropoli od in

provincia, per fare nascere i nuovi campioni.

Come una volta.

Ma i tempi sono cambiati.

A partire proprio dallo sport, la cui

trasformazione da passatempo a professione,

o meglio, ad industria passa

attraverso incongruenze economiche e

nuovi scenari sociali.

Pensiamo alla crisi finanziaria del

Coni.

A metà degli anni ‘90, quando cominciarono

a calare sensibilmente le entrate

dei concorsi pronostici sportivi, le previsioni

degli addetti ai lavori erano date

per certe: in termini di reclutamento

e di formazione propedeutica ad una

attività professionale di alto livello, crescita

delle discipline povere con in testa

l’atletica, ed involuzione degli sport ad

alto investimento di risorse come ad

esempio il nuoto (noleggio corsie, costi

energetici, oneri per la manovalanza

negli impianti...).

Questa estate si sono svolti in

Giappone ed in Canada i Campionati

mondiali delle due discipline in questione.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti:

l’atletica, orfana di un significativo

ricambio generazionale, cede; il nuoto,

rinvigorito da atleti cresciuti nella emergenza

economica del Coni/federazioni,

primeggia. Con tanti saluti alle previsioni.

Molto probabilmente non si è tenuto

conto di una conseguenza della mondializzazione

dello sport: più una certa

pratica agonistica si “globalizza”, più la

Comunità Europea in media regredisce

in termini di prestazioni.

In questo senso sicuramente l’atletica

è più globale del nuoto.

Invertire la rotta non sarà facile, anche

perchè ad una crescita della domanda

di attività fisica nel tempo libero delle

famiglie europee occidentali, segnale

di benessere diffuso, non corrisponde

un incremento della volontà di “professionalizzarsi”

nello sport da parte delle

nuove generazioni.

Ciò che pretenderebbe invece l’istituzione

pubblica (Comitato olimpico,

federazioni sportive, enti territoriali...),

che però si scopre a corto di risorse.

Da qui il ricorso all’ipotesi di prelievo

coercitivo sui proventi dei privati, a partire

dai valori di realizzo miliardari dei

trasferimenti dei calciatori.

Con un paradosso di fondo. Il pubblico

si rivolge proprio a quella industria

dello spettacolo che, nella ricerca e

nell’ingaggio crescenti di manodopera

extra comunitaria, sembra aver compreso

per prima che la base indigena

non ha più fame di sport agonistico.









Museo Alessandro Roccavilla

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