Sport tax, l’ultima tentazione della
politica: tassare lo sport ricco (o presunto
tale) per sostenere quello povero,
nelle periferie delle metropoli od in
provincia, per fare nascere i nuovi campioni.
Come una volta.
Ma i tempi sono cambiati.
A partire proprio dallo sport, la cui
trasformazione da passatempo a professione,
o meglio, ad industria passa
attraverso incongruenze economiche e
nuovi scenari sociali.
Pensiamo alla crisi finanziaria del
Coni.
A metà degli anni ‘90, quando cominciarono
a calare sensibilmente le entrate
dei concorsi pronostici sportivi, le previsioni
degli addetti ai lavori erano date
per certe: in termini di reclutamento
e di formazione propedeutica ad una
attività professionale di alto livello, crescita
delle discipline povere con in testa
l’atletica, ed involuzione degli sport ad
alto investimento di risorse come ad
esempio il nuoto (noleggio corsie, costi
energetici, oneri per la manovalanza
negli impianti...).
Questa estate si sono svolti in
Giappone ed in Canada i Campionati
mondiali delle due discipline in questione.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti:
l’atletica, orfana di un significativo
ricambio generazionale, cede; il nuoto,
rinvigorito da atleti cresciuti nella emergenza
economica del Coni/federazioni,
primeggia. Con tanti saluti alle previsioni.
Molto probabilmente non si è tenuto
conto di una conseguenza della mondializzazione
dello sport: più una certa
pratica agonistica si “globalizza”, più la
Comunità Europea in media regredisce
in termini di prestazioni.
In questo senso sicuramente l’atletica
è più globale del nuoto.
Invertire la rotta non sarà facile, anche
perchè ad una crescita della domanda
di attività fisica nel tempo libero delle
famiglie europee occidentali, segnale
di benessere diffuso, non corrisponde
un incremento della volontà di “professionalizzarsi”
nello sport da parte delle
nuove generazioni.
Ciò che pretenderebbe invece l’istituzione
pubblica (Comitato olimpico,
federazioni sportive, enti territoriali...),
che però si scopre a corto di risorse.
Da qui il ricorso all’ipotesi di prelievo
coercitivo sui proventi dei privati, a partire
dai valori di realizzo miliardari dei
trasferimenti dei calciatori.
Con un paradosso di fondo. Il pubblico
si rivolge proprio a quella industria
dello spettacolo che, nella ricerca e
nell’ingaggio crescenti di manodopera
extra comunitaria, sembra aver compreso
per prima che la base indigena
non ha più fame di sport agonistico.