L’inserimento stabile di giovani comunitari
ed extracomunitari nel mondo del
lavoro è una delle questioni più delicate
nella Unione Europea. E’ una triste realtà
di cui si conoscono alcuni aspetti in
chiaroscuro: per ottenere un impiego
sovente è necessario fare carte false e la
qualità, intesa come merito, non sempre
è il parametro per una assunzione.
Quanto sopra vale anche per la carriera
sportiva, ma solo oggi se ne prende
coscienza a pieno perchè l’attività
fisica a trecentosessanta gradi è diventata
in questi anni anche una forma di
impiego alternativo per i giovani, nel
senso di uno sfogo alla di-soccupazione.
L’obiettivo non è diventare Ronaldo
piuttosto che Indurain o Jordan o
Tomba, ma è quello di portare a casa
(preferibilmente in via sommersa) ciò
che può dare una indipendenza economica,
od integrare uno stipendio magari
part-time.
In altre parole dobbiamo renderci
conto che tra il superprofessionismo
miliardario ed il puro volontariato c’è l’
“occupazione sportiva”, che non necessariamente
si lega alla ricerca di un titolo,
ma che significa un minimo garantito,
un impiego remunerato. Essa è
molte volte precaria, nel senso di una
durata limitata nel tempo, ma d’altronde
è ciò che oggi offre come tendenza
il mercato del lavoro.
Ed allora anche l’occupazione sportiva
è ormai da tempo alla base del dinamismo
verso l’esterno delle gioventù
di quelle regioni (Italia meridionale, ex
Ddr), di quei Paesi (Europa orientale)
e di quei continenti (Africa, Asia) in
ritardo sul percorso dello sviluppo. Un
elemento di possibile tensione che il
riequilibrio delle condizioni fra nord e
sud potrà contribuire a mitigare.
Ministero del lavoro/previdenza e
Coni, sebbene alle prese con questioni
delicate, dovrebbero quanto prima
inquadrare questo spaccato della
nostra società. In questa ottica anche
le cifre enunciate ogni anno da federazioni
ed enti di promozione circa i
tesserati non sono più sufficienti come
dato. Sarebbe opportuno conoscere
con minore approssimazione possibile
quanti di quei praticanti sono dei
“lavoratori”. Per comprenderne le dinamiche
e le problematiche. Facciamo
un esempio. Il professionismo sportivo
in Italia, sia privato che pubblico, è
destinato a vivere fasi di contrazione
per questioni economiche: si tagliano
le rose dei club e delle squadre nazionali
minori. Politiche di incentivazione
negli sport professionistici dovrebbero
tenerne conto. Viceversa anche sotto
questo aspetto cresce l’importanza per
una legge quadro sul lavoro nello sport
non professionistico e nell’industria
del benessere fisico, cioè proprio quei
settori più vicini alla disoccupazione
giovanile.