Tesserati e lavoratori

31 Maggio 2005

L’inserimento stabile di giovani comunitari

ed extracomunitari nel mondo del

lavoro è una delle questioni più delicate

nella Unione Europea. E’ una triste realtà

di cui si conoscono alcuni aspetti in

chiaroscuro: per ottenere un impiego

sovente è necessario fare carte false e la

qualità, intesa come merito, non sempre

è il parametro per una assunzione.

Quanto sopra vale anche per la carriera

sportiva, ma solo oggi se ne prende

coscienza a pieno perchè l’attività

fisica a trecentosessanta gradi è diventata

in questi anni anche una forma di

impiego alternativo per i giovani, nel

senso di uno sfogo alla di-soccupazione.

L’obiettivo non è diventare Ronaldo

piuttosto che Indurain o Jordan o

Tomba, ma è quello di portare a casa

(preferibilmente in via sommersa) ciò

che può dare una indipendenza economica,

od integrare uno stipendio magari

part-time.

In altre parole dobbiamo renderci

conto che tra il superprofessionismo

miliardario ed il puro volontariato c’è l’

“occupazione sportiva”, che non necessariamente

si lega alla ricerca di un titolo,

ma che significa un minimo garantito,

un impiego remunerato. Essa è

molte volte precaria, nel senso di una

durata limitata nel tempo, ma d’altronde

è ciò che oggi offre come tendenza

il mercato del lavoro.

Ed allora anche l’occupazione sportiva

è ormai da tempo alla base del dinamismo

verso l’esterno delle gioventù

di quelle regioni (Italia meridionale, ex

Ddr), di quei Paesi (Europa orientale)

e di quei continenti (Africa, Asia) in

ritardo sul percorso dello sviluppo. Un

elemento di possibile tensione che il

riequilibrio delle condizioni fra nord e

sud potrà contribuire a mitigare.

Ministero del lavoro/previdenza e

Coni, sebbene alle prese con questioni

delicate, dovrebbero quanto prima

inquadrare questo spaccato della

nostra società. In questa ottica anche

le cifre enunciate ogni anno da federazioni

ed enti di promozione circa i

tesserati non sono più sufficienti come

dato. Sarebbe opportuno conoscere

con minore approssimazione possibile

quanti di quei praticanti sono dei

“lavoratori”. Per comprenderne le dinamiche

e le problematiche. Facciamo

un esempio. Il professionismo sportivo

in Italia, sia privato che pubblico, è

destinato a vivere fasi di contrazione

per questioni economiche: si tagliano

le rose dei club e delle squadre nazionali

minori. Politiche di incentivazione

negli sport professionistici dovrebbero

tenerne conto. Viceversa anche sotto

questo aspetto cresce l’importanza per

una legge quadro sul lavoro nello sport

non professionistico e nell’industria

del benessere fisico, cioè proprio quei

settori più vicini alla disoccupazione

giovanile.









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