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Biografia dell’autore

Figlio di Pio Serra e Rachele Favini, Renato Serra nasce a Cesena nel 1884 da una famiglia benestante di tradizione risorgimentale. Si formò presso il Regio Liceo Ginnasio “Vincenzo Monti” di Cesena dove concluse gli studi a sedici anni, senza sostenere l’esame di maturità per via degli altissimi voti. Nel 1900 si iscrisse all’Università di Bologna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, dove ebbe come insegnanti celebri personaggi tra cui Giosuè Carducci. Conseguì la laurea in Lettere nel 1904 con una tesi su Petrarca.

Nel 1906 fece ritorno a Cesena, dove svolse poi il servizio militare di leva, prestando servizio come sottotenente nel 69º Reggimento Fanteria della Brigata “Ancona”, per essere poi congedato lo stesso anno. Dopo i primi articoli sulla rivista La Romagna, si inserì ben presto nell’ambiente de “La Voce”, dove pubblicò diversi articoli e saggi, ed entrò in rapporti con Giuseppe Prezzolini e Giuseppe De Robertis. Fu anche in corrispondenza con Benedetto Croce. Allo scoppio della seconda Guerra mondiale partì come volontario. A questo stesso periodo risale anche un evento privata: una possibile storia d’amore si concluse prima ancora di cominciare quando la donna che amava andò in sposa ad un altro uomo. I fatti cambiarono Serra totalmente, come scrittore e come pensatore. Nel 1915, in piena guerra, Serra scrisse uno dei testi più significativi di riflessione sulla guerra, l’Esame di coscienza di un letterato. Richiamato alle armi il 1º aprile, giunse al fronte il 5 luglio, ancora sofferente per i postumi di un grave incidente automobilistico occorsogli il 16 maggio. Inquadrato, col grado di tenente, nell’XI Reggimento Fanteria della Brigata “Casale”, combatté col proprio reparto nel settore del Podgora, presso Gorizia, partecipando alla seconda e alla terza battaglia dell’Isonzo. Nel corso di quest’ultima, il 20 luglio 1915, rimase ucciso in combattimento sul monte Podgora a Gorizia, a soli 31 anni.

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Esame di coscienza di un letterato

L’Esame di coscienza di un letterato fu scritto nell’aprile 1915, e subito pubblicato su “La Voce”. In questo testo Serra dà sfogo al sentimento di frustrazione tipico della sua generazione. Tipico della sua generazione, passivamente convinta che l’attività degli intellettuali sia avulsa dalla vita, chiusa in un mondo di pura bellezza e fine a se stessa. Egli sente di dover aderire a una guerra che, sebbene inutile in termini politici e sociali, permetterà agli individui come lui di ritrovarsi immersi nell’ umanità dei propri simili. L’autore insiste sulla necessità di rompere la condizione di distacco in cui gli intellettuali si sono collocati, delineando così una generazione fallita nel suo individualismo, incapace di partecipare al flusso della vita. Dal punto di vista stilistico il testo è caratterizzato da una prosa semplice ma efficacie e mai banale. La penna di Serra si mantiene sempre lucidamente razionale, attenta a definire con esattezza le cose, anche le più spietate. Ne deriva un testo modernissimo, che non ha bisogno di note per spiegarsi e colpire nel segno.

La guerra non cambia niente

“E’ una così vecchia lezione! La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; accanto agli altri, che sono stati, e che saranno: non vi aggiunge; non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo. Neanche la letteratura.[…]

La letteratura non cambia. Potrà avere qualche interruzione, qualche pausa, nell’ordine temporale: ma come conquista spirituale, come esigenza e coscienza intima, essa resta al punto a cui l’aveva condotta il lavoro delle ultime generazioni; e, qualunque parte ne sopravviva, di lì soltanto riprenderà, continuerà di lì. È inutile aspettare delle trasformazioni o dei rinnovamenti dalla guerra, che è un’altra cosa: come è inutile sperare che i letterati ritornino cambiati, migliorati, ispirati dalla guerra. Essa li può prendere come uomini, in ciò che ognuno ha di elementare e più semplice. Ma, per il resto, ognuno rimane quello che era. Ognuno ritorna – di quelli che tornano – al lavoro che aveva lasciato; stanco forse, commosso, assorbito, come emergendo da una fiumana: ma con l’animo, coi modi, con le facoltà e le qualità che aveva prima.[…]

Sempre lo stesso ritornello: la guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati. In questo mondo, che non conosce più la grazia.

Il cuore dura fatica ad ammetterlo. Vorremmo che quelli che hanno faticato, sofferto, resistito per una causa che è sempre santa, quando fa soffrire, uscissero dalla prova come quasi da un lavacro: più puri, tutti. E quelli che muoiono, almeno quelli, che fossero ingranditi, santificati;senza macchia e senza colpa. E poi no. Né il sacrificio né la morte aggiungono nulla a una vita, a un’opera, a un’eredità. Il lavoro che uno ha compiuto resta quello che era. Mancheremmo al rispetto che è dovuto all’uomo e alla sua opera, se portassimo nel valutarla qualche criterio estraneo, qualche voto di simpatia, o piuttosto di pietà. Che è un’offesa: verso chi ha lavorato seriamente: verso chi è morto per fare il suo dovere.[…]

Che cosa è che cambierà su questa terra stanca, dopo che avrà bevuto il sangue di tanta strage: quando i morti e i feriti, i torturati e gli abbandonati dormiranno insieme sotto le zolle, e l’erba sopra sarà tenera lucida nuova, piena di silenzio e di lusso al sole della primavera che è sempre la stessa?[…]

E la vita continua, attaccata a queste macerie, incisa in questi solchi, appiattita fra queste rughe, indistruttibile. Non si vedono gli uomini e non si sente il loro formicolare: sono piccoli perduti nello squallore della terra: è tanto tempo che ci sono, che oramai sono tutt’una cosa con la terra. I secoli si sono succeduti ai secoli; e sempre questi branchi di uomini sono rimasti nelle stesse valli, fra gli stessi monti: ognuno al suo posto, con una agitazione e un rimescolio interminabile che si è fermato sempre agli stessi confini.[…]

Questo momento, che ci è toccato, non tornerà più per noi, se lo lasceremo passare.

Hanno detto che l’Italia può riparare, se anche manchi questa occasione che le è data; la potrà ritrovare. Ma noi, come ripareremo?

Invecchieremo falliti. Saremo la gente che ha fallito il suo destino. Nessuno ce lo dirà, e noi lo sapremo; ci parrà d’averlo scordato, e lo sentiremo sempre; non si scorda il destino.

E sarà inutile dare agli altri la colpa. A quelli che fanno la politica o che la vendono; all’egoismo stolto che fa il computo dei vantaggi, e cerca nel giornale quanti sono stati i morti; ai socialisti ed a Giolitti, ai diplomatici o ai contadini. La colpa è nostra, che viviamo con loro. Esser pronti, ognuno per suo conto, non significa niente; essere indignati, disgustati, avviliti è solo una debolezza. La realtà è quella che vale. Anche la disgrazia è un peccato; e il più grave di tutti, forse. Fra mille milioni di vite, c’era un minuto per noi;e non l’avremo vissuto. Saremo stati sull’orlo, sul margine estremo; il vento ci investiva e ci sollevava i capelli sulla fronte; nei piedi immobili tremava e saliva la vertigine dello slancio. E siamo rimasti fermi. Invecchieremo ricordandoci di questo. Noi, quelli delle mia generazione, che arriviamo adesso al limite, o l’abbiamo passato da poco; gente sciupata e superba. Chi dice che abbiamo spesa male la nostra vita, senza costruire e senza conquistare? Eravamo ricchi di tutto quello che abbiamo buttato; non avevamo perduto neppure un attimo dei giorni che ci son passati come l’acqua fra le dita. Perché eravamo destinati a questo punto,in cui tutti i peccati e le debolezze e le inutilità potevano trovare il loro impiego. Questo è il nostro assoluto. È così semplice!

Christian Ciucci –  3A