I PROSCRITTI ITALIANI NELLA PENISOLA IBERICA (1821-1835)

Le gesta dei “dimonios” italiani in Spagna

Prima di dedicarsi alle gesta dei volontari italiani nella penisola Iberica, è doveroso focalizzarsi sulle condizioni politico-sociali in cui versava la Spagna nella prima metà del XIX secolo. Ferdinando VII di Borbone, uno dei molteplici regnanti “restaurati” dal Congresso di Vienna in seguito alla caduta di Napoleone, si era accanito contro la costituzione votata dalle Cortes di Cadice nel 1812 e aveva ripristinato il regime assoluto, non dando tregua militare agli oppositori liberali. Costoro si accordarono con la carboneria spagnola  e crearono una sede di governo costituzionale proprio a Cadice, rendendo la città uno Stato nello Stato, dopo essersi garantiti appoggio morale e soprattutto militare dalle città dell’Andalusia, Valenza e Catalogna. Perfino le truppe dirette a sedare rivolte nelle colonie si ammutinarono e, temendo un colpo di Stato, il re fu costretto a riportare in vigore la Carta Costituzionale. I conservatori, caduta Madrid nelle mani dei liberali avanzati, si riversarono nelle province settentrionali per formare un esercito reazionario che avrebbe liberato il re da “quella morsa limitante e opprimente”. Dopo un biennio di scontri ed insuccessi numerici e tattici dell”armata apostolica”, la Santa Alleanza decise all’unisono (congresso di Verona del 1822), eccezion fatta per la platonica Inghilterra, di recare aiuto militare al re per salvaguardare l’assolutismo da loro voluto e propugnato, dal momento che  ricoprendo la Francia di tale onore. L’esercito, capeggiato dal duca d’Angouleme, varcò i Pirenei e, occupata prontamente Madrid, puntò su Cadice e assediò la città. I costituzionali dovettero capitolare dopo la caduta del Trocadero (31 agosto 1823), baluardo ultimo della loro disperata resistenza. Al moto insurrezionale parteciparono molti proscritti italiani, che, fuggiti o esiliati in Spagna, non esitarono ad imbracciare le armi per difendere la libertà di un popolo così ospitale. Negli scontri con il regio esercito, a partire dal 1822, i nostri connazionali marciarono sempre con la bandiera italiana in testa cantando l’ “inno dell’esule” e si accanirono sul nemico a tal punto da guadagnarsi il soprannome “dimonios” (effettivamente le testimonianze dei commilitoni liberali asseriscono che, alla sola vista dei nostri combattenti, gli uomini di Ferdinando VII si ritirassero senza impegnare battaglia). Di particolare violenza fu lo scontro di Lladò, ove la lotta sotto il sole cocente e le aspre montagne imperversò per ben cinque ore e fu ferito mortalmente lo stesso comandante Giuseppe Pacchiarotti, il quale, non vedendo più alcuna terra libera in cui vivere, non accettò le cure ospedaliere, lasciandosi morire in agonia. Come detto, l’esito finale fu deludente per se stessi e per il popolo spagnolo, ma persistono le testimonianze dirette di chi, come il capitano generale della Catalogna, il ministro della Guerra e molti sindaci delle città protagoniste del conflitto lodarono, tramandò a familiari e conoscenti le gesta di quei soldati italiani così infervorati dagli ideali di giustizia e libertà da mostrarsi totalmente noncuranti delle ferite infertegli.

Per la libertà del Portogallo

Morto nel 1826 Giovanni VI, il suo primogenito Don Pedro, proclamatosi imperatore del Brasile, rinuziò alla corona in favore della figlia Maria da Gloria, di otto anni, offrendo la reggenza al fratello Don Miguel, purché si impegnasse a sposare la regina una volta cresciuta. Ma nel 1828 Don Miguel si proclamò monarca assoluto. Si creò quindi il partito costituzionale, avverso alle idee del nuovo despota e fedele a quella dell’ormai solo più ricordato Giovanni, che si rifugiò nelle Azzorre e fu raggiunto anche da Don Pedro dal Brasile. In loco organizzarono un esercito di 7000 uomini  e salparono alla volta di Oporto, città in cui il 13 luglio 1832 caddero i “miguelisti” e l’usurpatore dovette riparare in esilio. Anche nel conflitto lusitano i proscritti italiani si arruolarono volontariamente tra le fila costituzionali, guadagnandosi una pensione dal nuovo regnante, privilegio che non venne conferito ad altri combattenti stranieri. Quegli stessi uomini combatterono anche tre anni dopo, nuovamente in Spagna e ancora per la causa liberale ( a favore di Maria Cristina della moglie dell’ormai defunto Ferdinando VII). Passarono alla storia con l’appellativo di “Cacciatori di Oporto”, erano 1600 uomini che vinsero anche quella guerra, definita da Mazzini una delle più cruente mai combattute, sotto il comando di Gaetano Borso Carminati. Egli ricalcava il carattere intrepido di ognuno dei suoi sottoposti, tanto che, immischiatosi anni dopo in una congiura e condannato a morte, impressionò i carcerieri dando di persona l’ordine di fare fuoco contro di lui.

IN DIFESA DELLA GRECIA (1822-1830)

Dopo l’infelice guerra di Spagna, numerosi esuli italiani si recarono a combattere in Grecia per liberarne i territori dal giogo della Turchia, facendosi promotori e ispiratori del movimento “filellenico”. Ucciso nel 1822 Alì Pascià di Tepeleni, che si era fatto paladino dell’indipendenza greca tramite la sua lotta con il sultano, le persecuzioni ai danni degli stessi abitanti del territorio che aveva consegnato al mondo occidentale la filosofia e la tragedia si fecero nettamente talmente efferate da attirare l’attenzione e commuovere gran parte dell’Europa occidentale. E ancora una volta gli italiani non furono gli ultimi. Il 15 luglio 1822 caddero, combattendo contro un nemico che contava il doppio degli effettivi, il colonnello torinese Giovanni Maria Tarella, reduce dalle campagne napoleoniche, il capitano genovese Andrea Dania, decapitato dai turchi insieme ai compagni Monaldi e Pecorara. La testa di quest’ultimo venne issata in cima ad una picca e poi venduta al miglior offerente. Universalmente più noto è il sacrificio di Santorre di Santarosa, animatore del moto piemontese nel 1821 e come tale condannato a morte dai Savoia e costretto a riparare in segreto all’estero. Egli, fine aristocratico ed imbevuto di cultura classica, volle battersi per la Grecia a causa di quel culto della libertà che in lui attingeva il poetico e il sublime, ma soprattutto per la commozione che scaturiva dal vedere la “patria di Socrate” così tremendamente abusata. La realtà effettiva fu ben diversa dalle aspettative: il governo greco non gli permise di combattere con il suo nome e grado di ufficiale per paura di possibili reazioni della Santa Alleanza. Il Santarosa però, non assecondando per nulla i suoi superiori, lasciò Napoli di Romania, l’allora nuova capitale, per raggiungere Atene con indosso l’uniforme da soldato semplice e partecipare alla difesa della città che tanto gli aveva dato a livello di studi. Si unì al corpo di spedizione che attuò la difesa di Navarrino e arrivò fino alla sperduta isoletta di Sfacteria, ove cadde ignorato per proteggere il porto. Anche Giacinto Provana di Collegno, amico di Santorre, ricevette lo stesso trattamento dai Greci e fu il primo a parlare pubblicamente di “ingratitudine ellenica”, seguito un anno solo dopo da un altro irripetibile uomo d’intelletto ed azione, Lord George Byron, che morì a Missolungi il 19 marzo del 1824, ma trovò comunque il modo di appellare le traballanti istituzioni greche “prive di riconoscenza”. La città appena citata, protagonista da una difesa sfiancante e inesauribile (almeno nei primi giorni), oggi ospita all’interno di un parco, chiamato Parco degli Eroi ed edificato a posteriori  quando finalmente si comprese l’importanza delle azioni di quegli uomini, taluni monumenti di pregevole fattura che celebrano il valore delle genti elleniche e straniere che combatterono in e per quella terra. Nello specifico, passando in rassegna tutte le sculture commemorative, si nota una rozza croce di legno tipica dei cimiteri campagnoli; è lì in rappresentanza dell’Italia.

GLI ESULI ITALIANI E IL SORGERE DELLA NAZIONE BELGA (1830-1831)

Questi campioni della libertà difenderanno la causa del loro paese prestandoci il loro braccio per far trionfare l’indipendenza del Belgio. La bandiera del popolo è uguale per tutte le nazioni: se è vittoriosa in una contrada, le altre non tarderanno a partecipare ai vantaggi della vittoria.                    “Le Courrier” di Bruxelles, 2 ottobre 1831.

Il Belgio non si sarebbe mai liberato della dinastia degli Orange, che lo legava inesorabilmente all’Olanda. Le condizioni erano divenute insostenibili: differenze lampanti ed inconciliabili di razza, lingua, economia e religione. La nazione non sarebbe mai divenuta autonoma se i proscritti dei vari stati europei non fossero intervenuti per aizzare la fiamma ed il desiderio di libertà. Per primi Filippo Buonarroti, vecchio rivoluzionario dall’anima indomita, e Guglielmo Pepe, militare di riconosciuta esperienza, spronarono gli animi belgi a nutrire avversione verso uno stato egemone,dissimile e , per giunta, di minori dimensioni. Lo riconobbe anche il ministro interinale presso il governobelga-olandese, Frank de Neglsfurst, che definì gli italiani i più duri tra tutti i rifugiati sia per la loro superiore abilità che per la vivacità trascinante del loro carattere. Si deve proprio al Buonarroti la riforma della Carboneria nelle Fiandre con l’assunzione di numerosi elementi che presero le redini di tutto il movimento insurrezionale e le riunioni societarie di maggior peso specifico avvenivano nella sua abitazione a Bruxelles. Quando nel 1830 si avvertiva l’immanente indipendenza, nuovi esuli giunsero anche dalle più inaspettate parti d’Europa, portando sulle spalle e sul petto la fatica, le ferite e l’impegno di altre battaglie (molti di essi combatterono sia in Spagna che in Grecia). Durante la seconda metà del 1830, nel momento in cui la Santa Alleanza optò per la concessione di indipendenza del Belgio, il principe di Orange riferì al padre la decisione presa dai superiori, la quale non venne apprezzata dal re a tal punto che decise di ricorrere alla forza per tentare un ultimo “colpo di coda”. Il popolo si preparò subito a sostenere l’urto e, seppur con mezzi inadeguati e senza la necessaria preparazione, sotto la guida degli italiani Tordo e Arrivabene non si perdettero d’animo e riuscirono ad organizzarsi in un piccolo esercito nel quale erano rappresentate anche le armi tecniche. Ancora una volta i nostri connazionali salvarono la situazione con il loro spirito e con l’esperienza militare acquisita durante l’età Napoleonica,  che permise di aspettarsi una seconda offensiva olandese (che avverrà dal 23 al 26 settembre dello stesso anno) e di bloccarla all’interno del palazzo reale. Ci furono altri futili tentativi “Orangisti” di impadronirsi nuovamente del Belgio, che andarono però tutti a vuoto e spianarono la strada verso l’incoronazione di Leopoldo di Sassonia-Coburgo il 21 luglio 1831, che assunse il comando delle forze armatre ed integrò con il suo esercito i legionari stranieri, protagonisti decisivi dell’ultima resistenza (2 agosto). Re Leopoldo fece corrispondere a tutti gli esuli che avevano preso parte al conflitto l’assegno di un franco al giorno come attestazione di riconoscenza, il quale venne però rifiutato dai nostri connazionali tramite l’argomentazione.” Non siam qui in veste di mercenari, il nostro compito è recar la libertà. Ciò è un dovere e pertanto non va ripagato”.

GARIBALDI ED I SUOI UOMINI NELL’AMERICA DEL SUD (1837-1847)

Io sarò fiero sempre d’aver appartenuto a quel pugno di prodi che si chiamò Legione Italiana di Montevideo, che veduto sempre sul cammino della vittoria.                        Giuseppe Garibaldi

Tra i proscritti dei primi moti d’indipendenza italiani che impugnarono le armi in difesa di altri popoli troviamo colui che meritò senza alcun dubbio il soprannome di “eroe dei due mondi”, ovvero Giuseppe Garibaldi. Sfuggito alla condanna a morte inflittagli dal governo piemontese e trasformatosi in “commerciante marinaio”, aveva diretto la sua goletta “Mazzini” dal peso di 120 tonnellate verso l’America meridionale. Due motivi avevano mosso Garibaldi a compiere il viaggio transoceanico: in primis aveva ben note le azioni degli eroici italiani che avevano contribuito alle evoluzione dei paesi latinoamericani; e in secondo luogo era certo che avrebbe trovato altri esuli volenterosi e capaci di cooperare con lui. L’Eroe giunse a Rio de Jeneiro nell’ottobre del 1836, trovando in loco alcuni uomini che sarebbero poi diventati suoi luogotenenti in ardite imprese. Nel 1837 fu impegnato nella lotta per la piccola repubblica di Rio Grande del Sud, insieme al genovese Luigi Rossetti ed al fianco del bolognese Livio Zambeccari, che era uno dei capi del movimento, battendosi duramente per mare e per terra, impressionando i nemici e sfiorando mille volte la morte tra catture ferite e torture. Volta la lotta al termine, nel 1842 Garibaldi si trasferì a Montevideo, a causa della guerra civile che straziava l’Uruguay, alleandosi con Fructuoso Ribera per fronteggiare e sconfiggere Manuel Orbe, alleato del dittatore argentino Rosas, autore di un’offensiva contro l’Uruguay stesso che avrebbe dovuto portare all’annessione del paese. Chiamata “guerra grande”, durerà fino al 1851, anno in cui Oribe fu costretto a togliere l’assedio a Montevideo, ribattezzata nel frattempo la “novella Troia” per l’assidua resistenza alla quale parteciparono i nostri connazionali.

Francesco Anzani

All’epica campagna è legato il nome di un altro eroe italiano, dotato ditali virtù morali e militari da far dire a molti, se la morte non lo avesse anzitempo tolto all’Italia, avrebbe occupato nel Pantheon dei grandi italiani un posto di primissimo piano a fianco del suo generale. Trattasi del colonnello Francesco Anzani, nato ad Alzate, in quel di Como, nel 1809, che partecipò alla guerra d’indipendenza del Portogallo  ed entrò nella legione dei Cacciatori di Oporto, fino a raggiungere il grado di capitano. La sua fama di generoso combattente della libertà si diffuse nel territorio della Repubblica del Rio Grande, prima ancora che proprio lì compisse le ben note imprese al fianco di Giuseppe Garibaldi, e sempre in ordine crescente fino a toccare il suo apice nel momento in cui debellò il capo dei “Mattos”.                                                                                                                      “In America, l’Anzani, essendo commesso in una casa in San Gabriele, aveva da solo affrontato il capo dei Mattos (capo delle selve), un indiano che aveva incusso un vero terrore in tutti i villaggi e nelle piccole città.”                                                      Il terribile guerrigliero, entrato in San Gabriele armato alla pesante e con la volontà di privare gli abitanti di ogni singolo oggetto di valore, dopo una serie infinita di porte chiuse che dovette forzare, si trovò dinnanzi ad un emporio merci che non chiuse l’ingresso. Al suo interno trovò Anzani, che venne intimato dal malvivente di versargli l’acquavite senza ottenere il corrispettivo pagamento. Indispettito l’italiano chiese un’altra volta il compenso, provocando l’estrazione della pistola da parte del capo dei Manos, che puntò l’arma contro di lui. Li separava solo il bancone quando l’eroe di San Gabriele spiccò un balzo felino, lo urtò strappandogli la pistola e gli sferrò una quantità ingente di pugni nella bocca dello stomaco. Il delinquente tornò senza la sua arma migliore nelle foreste equatoriali, conscio di aver perso il suo fascino terrorizzante.

 

Alla prima legione italiana costituita a Montevideo appartenne un garibaldino che ci appare spesso in un’atmosfera di mistero e di leggenda, il sardo Luigi Cogliolo, detto “Leggero”. Non si sa quale ruolo ricoprì nella guerre sudamericane, ma ne è certa la partecipazione. Appurata invece la sua partecipazione alle battaglie in Lombardia e a Roma e alla famosa ritirata del 1849, per citare infine l’essere stato testimone oculare  dell’angosciosa morte di Anita, alle Mandriole di Ravenna. Nel 1856 è in Costarica, ove combatte per l’indipendenza di quel paese contro l’avventuriero nordamericano William Walker che tentava di impossessarsi dell’America Centrale per ristabilirvi la schiavitù. Fu gravemente ferito al braccio destro, che gli fu amputato, e, quando nel 1857 la guerra riprese, benché privo del braccio destro, tornò in prima linea rimediando un’ulteriore ferita. Del suo valore attesta lo stesso colonnello Walker nell’opera “The war in Nicaragua”, in cui l’eroe sardo viene indicato, a mio modo di vedere riduttivamente, come “un italiano”.

IL COLONNELLO MONTI E LA SUA LEGIONE IN UNGHERIA

La partecipazione ungherese alla lotta per l’unità d’Italia ebbe un degno riscontro nella solidarietà dimostrata dai legionari italiani al conflitti per l’indipendenza magiara negli anni 1848-49. E’ necessario ricordare i rapporti tra Mazzini e Kossuth e le interferenze tra l’azione politica e cospirativa dei due paesi. Dalle vicende ungheresi erano attratti buona parte degli spiriti liberi d’Europa e specialmente quelli di enti politico-statali che, come l’Italia, attendevano di poter cogliere l’occasione propizia per insorgere e minare la potenza dell’Austria. Emerge in questo campo la maschia figura del bresciano del bresciano Alessandro Monti, che, dopo aver combattuto con le forze della sua città insorta nel marzo del 1848, si guadagnò il grado di tenente colonnello e venne inviato in Ungheria come ministro plenipotenziario presso Kossuth dal presidente del Consiglio piemontese Vincenzo Gioberti. Mentre stava per varcare il Danubio, gli giunse la notizia della disfatta di Novara, che veniva a compromettere la sua missione diplomatica. Spirito eroico e generoso, convinto che le sorti dell’Italia si sarebbero risollevate con l’azione militare in Ungheria, si mise alle disposizioni dei comandanti del luogo per combattere sotto le loro insegne e scrisse a Gioberti per giustificare la propria azione le seguenti parole:”L’Italia e l’Ungheria sono destinate a contribuire reciprocamente alla propria grandezza e prosperità”. Promosso colonnello, ebbe il comando della Legione italiana, formata da oltre mille uomini (tra cui figuravano, come ufficiali, il maggiore Camillo Fedrigoni e i capitani de Paoli, Massoneri, Caprin, Buolina e Spegarzini), che fu quasi immediatamente impiegata. Un gruppo di cavalleggeri, agli ordini del generale ungherese Bem, si distinse in tutti gli scontri avvenuti nell’estate del 1849. Quando l’esercito austriaco, rinforzato dai russi, trovò impreparata l’ala sinistra ungherese al punto di aggirarla, toccò proprio a Monti l’arduo compito di proteggere la ritirata, e fu per tale azione, condotta con singolare perizia, che poterono salvarsi migliaia di soldati. Il 7 agosto fu una giornata particolarmente gloriosa per i nostri legionari che riuscirono a bloccare per qualche tempo la cavalleria imperiale entro il villaggio di Bessenyo, causandole gravi perdite. Il giorno successivo si passò al contrattacco fra l’ammirazione di tutta l’armata. Il 9 agosto l’esercito ungherese, battuto sotto le mura di Temesvar, si disperdeva in preda allo sgomento ed al disordine, quando Monti, sopraggiunto, riuscì a riunire alcuni reparti e a trattenere il nemico a far fuggire i comandanti magiari in territorio turco. La legione italiana era ridotta a metà dei suoi effettivi, ma aveva assolto degnamente ai suoi compiti, tanto che il colonnello bresciano poté scrivere al console di Sardegna a Belgrado:”Ho messo in salvo fino all’ultimo carro della legione… Abbiamo salvato l’onore prima ed ora la pelle per migliori momenti”. Tornato in patria cercò di rientrare nell’esercito regolare, si vide rifiutato il riconoscimento del grado che aveva conquistato combattendo in Trentino ed Ungheria, motivo per il quale si ritirò a vita privata. Negli anni a venire erano stato ideato il piano, rimasto solo però su carta, che avrebbe dovuto annientare definitivamente l’Austria: sferrare due attacchi simultanei ai danni dell’impero, uno dalla parte della Transilvania con Klapka e l’altro dalla parte della Dalmazia con Garibaldi al comando delle operazioni. Ciò non si verificò per paura di inimicarsi l’Inghilterra e causare un’offensiva austro-russa sia sull’Ungheria stessa che sulla penisola italiana.

FRANCESCO NULLO IN POLONIA (1848-1863)

Affine, sotto l’aspetto politico e spirituale, all’alleanza italo-magiara e a quella italo-greca fu, nel secolo scorso, la serrata intesa italo-polacca. Come Quadrio e Antonini presero parte alla rivoluzione polacca del marzo 1848, il poeta polacco Adamo Mickiewicz, autore dell’ispirato “Libro della nazione polacca”, fondò a Roma una legione di connazionalinche accorsenin aiuto di Milano insorta. Scoppiata nuovamente nel 1863 l’insurrezione polacca in seguito alla feroce applicazione dell’ukase zarista sulla leva generale, il bergamasco Francesco Nullo, giovane industriale tessile che aveva combattuto a Milano, Roma e Varese ed aveva seguito Garibaldi con i Mille e sull’Aspromonte, volle accorrere con un gruppo di concittadini in difesa della Polonia. Chiese consiglio a Garibaldi, il quale esaltò la nobile iniziativa, ma sconsigliando di partire in molti “perchè un più sacro dovere impone alla nostra gioventù di attendere le ultime non lontane prove per la completa unificazione dell’Italia”. Alla metà di aprile del 1863 Francesco Nullo partì da Bergamo accompagnato dai fedelissimi e raggiunto da altri italiani a Cracovia. Al condottiero, che i polacchi chiamavano “il Garibaldi del nord”, venne assegnato il comando effettivo della colonna di 500 volontari (18 italiani, 7 francesi, gli altri polacchi). Il 5 maggio, anniversario della partenza dei Mille, evento che venne ricordato da Nullo e che invigorì i soldati ,i legionari si trovarono impegnati in un furioso combattimento a Krzykawka. Mentre Miniewski, comandante nominale per aver finanziato l’operazione, si nascose in un bosco ad osservare da spettatore le operazioni con il cannocchiale, il nostro connazionale (D’Annunzio lo definì:” Il maschio Nullo, ferino e umano eroe”)cavalcav davanti ai suoi al cospetto del nemico. Una palla di cannone uccise il suo cavallo, ma ai compagni accorsi per sgravarlo dal peso della cavalcatura, esclamò sorridendo:”Niente paura! La palla che deve uccidermi non è stata ancora fusa”. Così non fu; poco dopo il prode bergamasco cadeva fulminato da una seconda pallottola che, trapassato il cinturone di cuoio, gli trafisse il cuore. Fu rinvenuto nelle sue tasche un foglio di carta sul quale erano scritte codeste parole:”Amici, fratelli d’Italia! Volgete un pensiero a noi che qui combattiamo per la Polonia, sorella infelice della nostra terra. Non ci chiamate con nomi di disprezzo se, italiani, abbiamo abbandonato l’Italia con Roma e Venezia ancora schiave. Se io morrò, ricordatevi sempre per quale causa son morto, e il mio ultimo grido, anche in Polonia, sarà:”Viva l’Italia!”. Nella stessa battaglia furono catturati dalle truppe dello zar molti legionari volontari; alcuni furono condannati all’impiccagione, poi tramutatasi in fucilazione per riconoscere quantomeno la dignità militare dei morituri, la restante parte fu deportata prima a Mosca e poi trasportata in Siberia per darsi ai lavori forzati nei campi di prigionia. Durante il tragitto, pur essendo avviati verso la gelida ed inospitale Siberia (nonché loro tomba), i prigionieri cantavano come se andassero ad una gita di piacere, guadagnandosi per tanto il soprannome “ciorti” (diavoli) dai propri aguzzini.

LA GRANDE PAGINA DI DIGIONE (1870-1871)

 

Gesto sublime fu indubbiamente quello di Giuseppe Garibaldi, che volle chiudere il ciclo della sua vita eroica combattendo in difesa di quella Francia che lo aveva assalito nel 1849 a Roma e nel 1867 a Mentana. Il 2 settembre, a Sedan 88000 francesi cadevano prigionieri dei Prussiani, compreso Napoleone III. Non soddisfatti della semplice vittoria, i tedeschi vollero stravincere ed ebbe inizio la seconda fase della guerra franco-prussiana. La nuova Repubblica francese, sorta sulle macerie non certo gloriose del secondo impero, accettò la sfida e si accinse a difendere l’integrità del territorio nazionale.Quando scoppiò il conflitto, nell’estate del 1870, Garibaldi era intento alle sue opere di agricoltura ed allevamento a Caprera. Vista in pericolo la Francia, l’Eroe dei due mondi pur essendo, all’età di 63 anni,afflitto da diversi malanni e da non poche amarezze, scrisse al Governo di Francia per dare la sua disponibilità di partecipazione. Non ebbe risposta. Fu necessario l’intervento del generale Bordone, un francese che aveva combattuto con i Mille, affinché venissero vinte le prevenzioni dell’alta ufficialità francese. Il 4 ottobre si recò a Caprera e due giorni dopo, eludendo la sorveglianza portuale italiana, l’Eroe si imbarcava per Marsiglia, ove venne accolto da un popolo festante. Dopo che Leone Gambetta, capo del governo repubblicano, non affidò a Garibaldi il comando di 300 volontari, il Leone di Caprera si inalberò e, dal momento che minacciò di tornare indietro il giorno seguente, gli fu offerto il comando di tutti i corpi franchi dei Vosgi da Strasburgo a Parigi e di una brigata di guardie mobili. L’esercito contava 10000 uomini ed era composto per la maggior parte dai franchi “tiratori” e dai volontari italiani e francesi ardenti d’amor patrio, ma non mancava la presenza di spagnoli, polacchi, greci e algerini che creavano un vero e proprio cibreo cosmopolita di soldati. Purtroppo, oltre ad essere magro di effettivi, l’esercito era anche povero d’armi e di equipaggiamento e ciò, pur mettendo  in netta difficoltà Garibaldi, allo stesso tempo ne esaltò gli splendidi risultati e le improbabili vittorie. L’eroe seguiva ormai i combattimenti dalla carrozza, ma era palese il suo intervento nelle scelte di distribuzione ed azione, dividendo l’esercito in quattro brigate da poco più di 2000 uomini ciascuna, affidando una di esse al figlio Ricciotti. Dopo alcune azioni fortunate, il 14 novembre 1870 l’esercito dei Vosgi entrò in Autun. Era sera inoltrata e le monumentali rovine romane si palesavano di fronte ai combattenti e risplendevano al chiarore lunare, aspettando l’esercito garibaldino rigorosamente in camicia rossa. Il nemico non attaccò, motivo per il quale Garibaldi passò all’offensiva. Il 19 novembre mandò il figlio Ricciotti ad aggirare l’avanguardia nemica, azione compiuta con perizia ed efficacia tali da favorire l’entusiasmo degli scontri successivi (Messigny, e Usine Bargy), tutti vinti dai franco-garibaldini. Nella battaglia della cascina di Bargy, che vide i garibaldini guidati da Ricciotti Garibaldi barricati all’interno della fattoria e assediati dai Prussiani, trovò memoria leggendaria il giovane Curtat, diciottenne facente parte dei Cacciatori del Monte Bianco. Il prolungato assedio non portò ai prussiani altro che la necessità di ritirarsi per la resistenza nemica, lasciando sul luogo numerosi morti e perfino la bandiera del 61° Reggimento di Pomerania. Come tramandato dal figlio di Garibaldi, poiché testimone oculare della scena, il giovane si gettò nel cumulo di morti e feriti prussiani tra il fuoco nemico per prendere la bandiera, strisciò per evitare le pallottole, trovò tre nemici ancora in piedi non fuggiti per le ferite a cui sparò, strappò la bandiera dalle mani del tenente Putmeker che, essendo stato colpito, stramazzò a terra tenendo stretto a sé il vessillo, per poi dileguarsi nella foresta, noncurante dei continui e futili spari nemici. Quella bandiera venne poi consegnata a Ricciotti, che la passò al padre, il qualela portò a Digione come emblema di vittoria. Quella resistenza aveva impedito al fiume prussiano di dilagare su quella stessa città.

ANTONIO FRATTI A DOMOKOS (1897)

Come è già stato trattato , la causa dell’indipendenza greca era molto sentita dagli italiani dell’Ottocento, che non mancarono di dar prova con i fatti la sincerità del loro slancio solidale. Appena si sparsero nel 1897 le prime notizie della nuova insurrezione ellenico, un fremito d’entusiasmo corse da un capo all’altro della Penisola e la camicia rossa tornò a sfolgorare nella fede e nella speranza di tanti. Non fu facile organizzare le partenze, sia pure in piccoli gruppi, dal momento che persecuzioni di autorità, inadempienze di armatori, diffidenze e preoccupazioni di ogni genere aleggiavano sulla spedizione imminente. Sta di fatto che circa 1300 uomini accorsero sotto le insegne garibaldine, senza contare i 350 volontari raccolti e comandati dal colonnello Bertet, che rifiutò di mettersi agli ordini di Ricciotti Garibaldi, e la Legione internazionale filellenica, che aveva una sezione italiana comandata da ufficiali dell’esercito regolare. Ben presto il conflitto tra greci e turchi assunse un andamento poco rassicurante per i primi; nella pianura di Tessaglia gli ottomani andavano schierando truppe su truppe, costringendo gli 80000 avversari a ripiegare (i turchi annoveravano tra le proprie file 140000 uomini) sotto il comando di Edhem Pascià. Lo stato maggiore dell’esercito ottomano era stato da tempo istruito da una commissione tedesca (famoso fu l’ausilio e l’addestramento tedesco nella battaglia di Gallipoli a cavallo tra il 1915 e il 1916). Il 5 maggio 1897 aveva riunito a Farsaglia cinque divisioni, di cui la prima e la seconda, si trovarono di fronte ai garibaldini e ai legionari filellenici. Le forze garibaldine, comandate dal generale Ricciotti Garibaldi, erano distribuite in tre battaglioni e tra i volontari figuravano nomi che già godevano di una certa rinomanza (come Antonio Fratti, Amilcare Cipriani, Giambattista Pirolini) e altri appartenento anche alle sfere sociali meno abbienti. Il 25 aprile il I battaglione, composto da circa 250 uomini, fu mandato ad Arta, nell’Epiro, dove si addentrò in territorio turco, occupando le colline di Canopoulus. Ricciotti Garibaldi non tardò infatti a chiedere al governo greco il ricongiungimento dei battaglioni, ma ciò gli fu negato. Era singolare infatti questo contrasto: mentre nelle alte sfere politiche e militari i garibaldini erano oggetto di perplessità (o più maliziosamente di invidia), giovani greci guardavano con ammirazione alla camicia rossa e asprivano ad essere aggregati alla milizia. Veramente significativo è l’esempio del capitano Mauromichaelis, nipote di un comandante, il quale volle passare agli ordini di Riciotti e cadde nella battaglia di Domokos quasi in contemporanea con l’eroico forlivese Antonio Fratti. Il già citato I battaglione era stato richiamato dall’Epiro nella notte tra il 14 e il 15 maggio e, dopo una estenuante marcia di nove ore sotto la pioggia battente, a causa della mancata esecuzione di un ordine da parte del colonnello Mereu, i soldati non passarono dai monti e non si riunirono con i compagni all’estrema sinistra di Amaslar-Kasimir, trovandosi contro 500 nizam della brigata di Islam Pascià, armata di modernissime carabine Mauser.

I nostri volontari scrissero una notevole pagine dell’eroismo italiano, sfilando al canto degli inni del nostro Risorgimento, i volontari italiani occuparono la trincea più avanzata e, schieratisi in ordine di battaglia, i garibaldini aprirono un nutrito fuoco sui turchi, ma costoro risposero nella confusione individuando il rosso della camice come bersagli sin troppo facili. Dopo sette ore di aspro combattimento, esaurite le munizioni, i prodi legionari del I battaglione dovettero abbandonare le posizioni e riparare a Domokos, ove ebbero modo di rendersi ugualmente utili proteggendo donne e bambini dalle nefandezze dei mori. Poco più ad ovest il II ed il III battaglione, per ordine del generale Garibaldi, salirono sulla sommità di una collina per prendere posizione di vantaggio a discapito dei gheghides, tiratori scelti rinomatissimi per la loro precisione e perizia. Le due avanguardie arrivarono praticamente in stereofonia e l’una aprì il fuoco contro l’altra reciprocamente. Fu su questo colle che trovò morte gloriosa Antonio Fratti, che Ricciotti definì ” la più perfetta incarnazione dell’idea umanitaria filellenica”, cadendo sotto i colpi nemici. La lotta era durata per tre ore anche con violenti scontri corpo a corpo, i cecchini turchi fatti cadere in un torrente ed il resto dell’esercito nemico fatto indietreggiare di due chilometri. I volontari avevano scritto sul suolo di Tessaglia una pagina della miglior tradizione garibaldina e, nonostante ciò non valse a modificare il  triste destino che incombeva sulla Grecia, la giornata del 17 maggio 1897 ebbe il suo crisma di gloria. “La condotta di tutti i nostri fu splendida…-dichiarò Garibaldi- Avanzavano cantando con i loro ufficiali a capo…”

VOLONTARI IN ALBANIA  (1908-1912)

Il livornese Jacopo Sgarallino, reduce dalla campagne italiane del 1849,1859, 1860, 1862, da quella polacca del 1863 e da quella greca del 1867, capeggiò nel 1876-77 una spedizione di camicie rosse in Bosnia e in Erzegovina per far fronte alla volontà asburgica di annettere al proprio impero quelle terre, che trent’anni dopo si tradusse in un’occupazione militare. Il 4 novembre 1908, l’on. Eugenio Chiesa propose alla Camera dei Deputati che l’Italia si opponesse all’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina all’impero austroungarico, sottolineando la spaventosa desolazione di quelle terre, l’imminente sterminio di un intero popolo e la somiglianza con le situazioni polacche ed italiane del secolo precedente.  Nel 1911, essendo esplosa un’insurrezione in Albania contro l’occupazione ottomana, l’onorevole Chiesa vi si recò di persona, compiendo un viaggio disagiato e rischioso, a piedi o a cavallo per le aspre montagne albanesi. Il patriota di quella terra Jvanay Bey scrisse a Ricciotti Garibaldi per esortarlo a mettere la sua spada al servizio della causa balcanica. La lettera fu poi passata a Chiesa, il quale, servendosi della sua testimonianza diretta, l’8 giugno illustrò le infelici condizioni del popolo soggiogato dalla mezzaluna, auspicando una energica azione internazionale in favore di quel paese, nel nome di quegli stessi principi per i quali l’Italia era sorta a Nazione. Essendosi nel frattempo l’insurrezione trasformata in guerriglia, fu necessario rinunciare ad organizzare una spedizione militare con criteri organici ed abbondanza di mezzi, ma molti giovani partirono ugualmente per affrontare i disagi e i pericoli della lotta. Ai primi di giugno una trentina di volontari arrivati da varie parti d’Italia erano pronti ad entrare in azione, pur consapevoli delle difficoltà morfologiche del territorio e delle taglie affisse dal sultano sulle loro teste, che sarebbero state pagate a peso d’oro. In quel momento le sorti della guerriglia erano disperate, dal momento che i combattenti albanesi erano appena tremila, mentre i turchi contavano sulle capacità di oltre centomila uomini. Il battesimo di fuoco per i nostri combattenti fu ai primi di luglio 1911 sui colli di Greben, contro un battaglione turco che tentava una conversione verso la Vernosa; gli insorti e i legionari, agli ordini di Simon Doda, si opposero energicamente alla manovra aggirante avversaria e il loro sforzo fu apprezzato a tal punto da essere ospitati consecutivamente dalle più importanti “bandiere” (tribù) albanesi: Gruda, Shoshi, Dukagini, Kelmeni, Traboini e Hoti) e prendendo parte con essi ai fatti d’armi tra le grandi privazioni ed i molteplici disagi. La mattina del 20 novembre arrivò la notizia della pace di Podgorizza per l’azione diplomatica spiegata da Russia, Inghilterra e Francia da una parte, Austria e Germania dall’altra ( i primi tre stati facevano parte della Triplice Intesa, un sistema di accordi polito-militari stipulato nel 1907, i due imperi centrali rappresentavano invece l’Allenza, patto militare stipulato nel 1882 che comprendeva anche il Regno d’Italia). La Turchia aveva accettato i 12 capitoli delle richieste minime degli insorti albanesi. Fu creato il governo provvisorio di Alessio, presieduto da Terenzio Tocci, e fu questa la prima affermazione di un Governo albanese.

I GARIBALDINI NELLE ARGONNE (1914-1915)

Il 28 giugno 1914 l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria, accompagnato dalla consorte Sofia duchessa di Honenberg, si reca a Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina, da poco passata sotto il dominio della corona imperiale asburgica. La visita ha carattere strettamente militare, essendo l’arciduca l’ispettore generale dell’esercito imperiale. In un ambiente che fa prevedere il peggio, viene lanciata una bomba a mano contro la carrozza dei coniugi che ferisce alcuni ufficiali e l’attentatore, il giovane tipografo serbo Nedeljko Cabrinovic, viene arrestato dopo un breve inseguimento. A mezz’ora di distanza dal primo attentato, mentre la carrozza imperiale rallentava ad una curva sfiorando il marciapiede, un giovane che si trovava a pochi passi estrasse una pistola e sparò da distanza ravvicinata all’arciduca e alla moglie uccidendoli sul colpo. L’attentatore è lo studente bosniaco Gabrilo Princip, che pose fine al periodo di relativa tranquillità portando allo scoppio del primo conflitto mondiale. Il 5 luglio il governo di Vienna informa quello di Berlino della propria intenzione di muovere guerra alla Serbia, riconosciuta come la mandante dell’eccidio di Sarajevo ed il 23 luglio il governo austro-ungarico presenta l’ultimatum alla Serbia lasciando a quest’ultima quarantotto ore per rispondere e chiedendo a Belgrado di pubblicare un atto di condanna per la propaganda antiaustriaca, azione che non fu eseguita. Scoppiò la Grande Guerra con l’invasione della stessa Nazione centrale dei Balcani e i due grandi schieramenti europei (Triplice Intesa e Triplice Alleanza) iniziarono a battagliare. L’Italia nel 1914 rimase neutrale, affinando i rapporti con l’asse teoricamente avversario Francia-Gran Bretagna- Russia a tal punto che l’anno successivo, accettando gli ampliamenti territoriali promessi a discapito di Vienna in caso di entrata in guerra contro l’Austria, si schierò con le potenze dell’Intesa.

Lo stesso Peppino Garibaldi, il 22 agosto 1914, assicurò tramite un telegramma al Ministero francese la piena disponibilità di intervento, rimembrando i fatti di Digione del biennio 1870-1871, ed organizzò egli stesso un corpo di volontari (2500 uomini) che si recò in Francia alla fine dell’estate. Le battaglie nelle quali i volontari furono impegnati agli ordini del nipote dell’Eroe dei due mondi nel settore delle Argonne furono tre: Bolante, 26 dicembre 1914; Courtes Chausses e Four de Paris, 5 gennaio 1915; Ranvindes Meurissons, Fille Morte e Le Bas Jardinet, 8-9 gennaio 1915. In questi tre fatti d’arme il reggimento garibaldino ebbe complessivamente 93 morti, 136 dispersi e 337 feriti. Nella prima di queste feroci battaglie non fu possibile conquistare la trincea nemica a causa dell’interferenza degli ordini francesi con quelli del colonnello Garibaldi, che costrinsero i nostri uomini a cambiare il bersaglio all’ultimo minuto, mettendoli in serio pericolo (tra le vittime ci fu anche l’ufficiale Bruno Garibaldi). Per la battaglia del 5 gennaio, è opportuno riferire quanto riportato il giorno seguente in un comunicato dello Stato Maggiore francese:” Nelle Argonne, preso il burrone Courtes Chausses ove abbiamo fatto saltare con le mine le trincee tedesche, il reggimento italiano del colonnello Garibaldi ha vigorosamente attaccato nella breccia aperta dall’esplosione. Esso ha fatto 120 prigionieri e ha preso una mitragliatrice e un cassone, perdendo però sul campo Costante Garibaldi. La Legione italiana è piena di entusiasmo e non domanda che di ricominciare.” Questa battaglia fu teatro della morte dell’eroe anconitano Lamberto Duranti, il quale, per distrarre la difesa della trincea tedesca, la assaltò alla baionetta esclamando :”Venite a vedere come muore un garibaldino”, per poi essere trivellato dal piombo nemico. Tre giorni dopo a Meurissons le linee tedesche avanzarono per due chilometri sfondando le difese francesi, provocando di fatto la reazione garibaldina. Se i nostri volontari non avessero fatto argine, respingendo e bloccando il nemico per ventiquattro ore attendendo i rinforzi, territori come il Defilè des Islettes e la linea ferrata che da Sainte Menehould va a Verdun, sarebbe stata messa sotto il fuoco dell’artiglieria nemica e la linea di rinforzamento sarebbe stata bombardata.

LA BATTAGLIA DELL’ARDRE (1918)

Abbiamo trattato fino ad ora di eserciti volontari, mentre quello che si recò in Francia nel 1918 (il II corpo d’armata) fu il risultato di decisioni ufficiali prese dal Governo italiano e dal Comando supremo del nostro esercito. Ciò nonostante, a questa azione non mancò per nulla il carisma garibaldino: del II Corpo d’armata faceva parte, al comando di Peppino Garibaldi, la brigata Alpi, composta in parte da reduci delle Argonne, alla quale fu concesso di usare come contrassegno il fazzoletto rosso e la camicia rossa sotto la tunica grigio-verde. Raggiunto il suolo francese, le truppe ausiliarie italiane vennero riunite nella zona di Mailly- le Camp per la indispensabile fase di addestramento ed organizzazione. Furono dislocati ad ovest di Verdun, i  quel momento relativamente tranquillo, quasi offendendo il generale Albricci, che non esitò a chiedere al maresciallo Petain compiti più impegnativi, che prontamente gli vennero assegnati; l’esercito fu mandato a combattere nella zona di Reims. Tutta quella parte del fronte era duramente impegnata, specialmente in seguito all’offensiva tedesca che incominciò il 15 luglio 1918 e, grazie all’utilizzo dei tanks, i primi carri armati, gli uomini del secondo Reich  sfondarono le prime linee nemiche, per poi infrangersi contro la difesa italiana sull’Ardre. I tedeschi facevano ogni sforzo a costo di grandissime perdite per vincere la resistenza. L’azione continua si rivelò vana e il Comando germanico dovette ammettere il fallimento del “progetto sfondamento”, cercando di salvare la faccia accanendosi contro la V armata, facendo di conseguenza scoppiare la battaglia dell’Ardre, pianeggiante valle è attraversata da un fiume, alla destra del quale si trova il villaggio di Bligny. Il generale Albiricci ordinò che la III Divisione si portasse a ridosso del resto dell’esercito italiano affinché, pur così tremendamente indebolito, potesse reggere agli assalti nemici. I tedeschi però, comprendendo l’importanza della posta in gioca, non avevano alcuna intenzione di mollare la presa e per tanto con abbondante uso di lanciafiamme, continuarono ad attaccare, mettendo a dura prova la difesa italo-francese ormai sul punto di collassare. Passarono due giorni di mancato avanzamento tedesco, ma, allo stesso tempo, di gravi perdite italiane (l’ VIII Divisione era stata messa fuori combattimento ma aveva contenuto eroicamente il nemico). Nella notte del 20 luglio il II Corpo d’armata fu sostituito in linea da un battaglione britannico, col quale rimase un nostro gruppo di manovra che nel’azione controffensiva del giorno 23 espugnò la linea tedesca, catturando prigionieri e impossessandosi delle armi nemiche. Con questa vittoria si chiuse la partecipazione dell’esercito italiano al conflitto sul fronte francese, meritandosi l’acclamazione delle genti e guadagnandosi il sincero riconoscimento  da parte dei nostri alleati d’oltralpe.