Alcuni ribelli Boxer in tenuta ufficiale.

 


La rivolta dei Boxer o anche guerra dei Boxer, fu una ribellione sollevata in Cina da alcune organizzazioni cinesi popolari, riunite sotto il nome di Yihetuan (cioè Gruppi di autodifesa dei villaggi della giustizia e della concordia), contro l’influenza straniera colonialista. La rivolta ebbe come base sociale molte scuole di kung fu (identificate come «scuole di pugilato») che inizialmente utilizzarono il nome di «pugili della giustizia e della concordia», chiamati successivamente semplicemente «boxer». Alla fine del XIX secolo, il risentimento nei confronti degli occidentali giunse al suo apice a causa della continua ingerenza straniera negli affari interni della Cina, con la connivenza passiva dell’imperatrice vedova Cixi, detta anche Tzu hsi.  La sua figura autoritaria fu di enorme importanza per lo svolgersi delle vicende: nacque a Pechino nel 1835, fu concubina dell’imperatore Xianfeng, madre dell’erede al trono Tongzhi e reggente dell’Impero per 47 anni. Erano gli anni della decadenza della dinastia dei Manciù, di cui l’imperatrice faceva parte, e del grande assalto all’impero, avvenuto per strappare concessioni territoriali, zone di influenza, miniere e appalti per la costruzione delle ferrovie. Erano in corsa per la spartizione Inglesi, Russi, Giapponesi e Tedeschi; sembrava che la Cina stesse per fare la stessa fine dell’Africa. A fine Ottocento infatti erano già 62 gli insediamenti stranieri presenti in Cina. La rabbia del popolo cinese derivava non tanto dall’invasione di una nazione sovrana, quanto dalla sistematica violazione delle tradizioni e regole di comportamento cinesi da parte degli Occidentali. Questo risentimento crebbe fino al punto di portare alla distruzione e alla violenza contro aziende straniere e dipendenti stessi. I disordini anti occidentali iniziarono nel 1899, ma la guerra vera e propria contro le truppe coloni cominciò nel giugno 1900 e durò fino al 7 settembre 1901.

A scatenare una nuova e furiosa corsa alla spartizione fu, nel giugno 1900, l’assedio posto dai Boxer al quartiere delle legazioni a Pechino, assedio sostenuto anche da reparti dell’esercito regolare con il tacito consenso dell’imperatrice Cixi. Come sopracitato, i membri dei gruppi di giustizia e concordia erano chiamati «Boxer» dagli occidentali, per via della presenza della parola «pugno» (拳,Quan) nel nome originale. Infatti inizialmente i rivoltosi presero il nome di «Pugno della giustizia e della concordia» (Yihequan) ed in seguito quello di «Gruppo della giustizia e della concordia» (Yihetuan). I Boxer raggruppavano contadini senza terre, carrettieri, artigiani, piccoli funzionari ed ex soldati. Essi vedevano con autentico disgusto l’ampliamento della rete ferroviaria, la costruzione delle linee telegrafiche, la comparsa di navi a vapore sulle vie fluviali e l’apparizione di tessuti e filati fabbricati a macchina. Tutte novità che, nell’immediato, toglievano loro posti di lavoro e andavano in contrasto con i loro costumi e le loro tradizioni. Portatori di queste novità erano gli occidentali, in modo particolare gli ingegneri delle ferrovie e delle miniere. Essi erano ferocemente odiati assieme a un’altra categoria, quella dei missionari, cattolici e protestanti. Un testo cinese redatto all’epoca di Mao Zedong spiega che:

“Questi missionari stranieri, i cattolici soprattutto, mentre facevano costruire chiese si impadronivano di terre, minacciavano i funzionari locali, s’inserivano nell’amministrazione, intervenivano nello svolgimento dei processi, raccoglievano vagabondi e ne facevano dei «convertiti», di cui si servivano per opprimere le masse. Un tal modo di agire non poteva che provocare l’indignazione del popolo cinese” (C. Po-tsan, S. Hsun-cheng e H. Hua, Storia della Cina antica e moderna, Editori Riuniti, Roma 1960, pagina 117)

Una fonte meno sospetta, quella dello storico britannico Peter Fleming, giungeva però alle stesse conclusioni e precisava che le pretese dei missionari cattolici erano senza limiti. In una istanza al trono, presentata il 15 marzo 1899, essi chiedevano che si riconoscessero loro, incondizionatamente e interamente, i diritti politici e i privilegi concessi ai cinesi di altissimo rango: per esempio l’equiparazione dei vescovi ai governatori generali. Fleming commentava così:

“L’effetto di questo provvedimento sull’opinione pubblica cinese può essere valutato approssimativamente immaginando quale sarebbe stata la reazione britannica se nel XIX secolo fosse stato annunciato nel bollettino di Corte che gli stregoni più anziani dovevano essere considerati pari ai governatori nell’ordine delle precedenze.” (Peter Fleming, La rivolta dei boxers, Dall’Oglio, Varese 1965, pagine 53-54.)

I Boxer in principio si batterono, oltre che per la salvaguardia delle tradizioni nazionali contro l’«inquinamento» straniero, anche in difesa dei contadini contro le soperchierie dell’amministrazione imperiale e dei grandi signori cinesi; solo in un secondo momento i governanti di Pechino riuscirono a incanalare contro gli stranieri tutto l’odio dei Boxer. La rivolta iniziò nel nord della Cina come movimento contadino, anti-imperialista e antistraniero. Gli attacchi erano rivolti verso gli stranieri che stavano costruendo le ferrovie e verso i cristiani, considerati responsabili della dominazione straniera in Cina. Nel complesso chi pagò il prezzo più alto furono i cinesi cristiani, molte migliaia dei quali furono uccisi, e in grandissima maggioranza, quasi 18.000, erano cattolici. Iniziata nello Shandong provincia costiera situata lungo la regione più orientale della Repubblica popolare cinese, diffusasi poi nello Shanxi provincia nella parte settentrionale della Repubblica Popolare Cinese e nell’Hunan provincia della Cina situata a metà del corso del fiume Yangtze e a sud del Lago Dongting, la rivolta dei Boxers raggiunse anche lo Tcheli Orientale Meridionale, allora vicariato apostolico di Xianxian, affidato ai gesuiti, ove i cristiani uccisi si contarono a migliaia. Secondo alcuni storici, in tale vicariato furono uccisi circa 5.000 cattolici, di cui 3.069 identificati, soprattutto nelle province di Shandong e Shanxi. Nel maggio del 1898 una parte dei Boxers – i quali, sostituendo il secondo carattere nella scrittura del proprio nome, ora si facevano chiamare «Yi He Tuan», cioè «Bande della Giusta Armonia» – era diventata un’organizzazione volontaria di confine tra lo Shantung e il Chi li (ovvero la provincia intorno a Pechino) e il governatore dello Shantung, Chang Ju-mei, aveva comunicato al governo che intendeva incorporarli nella milizia locale. Ma i primi accenni da parte degli occidentali all’attività dei Boxer paiono risalire solo al maggio 1899, in seguito ai primi moti anticristiani. Da allora gli attacchi contro le missioni, i convertiti cinesi e gli invasori occidentali andarono aumentando e, quando il 31 dicembre 1899 venne ucciso un missionario protestante inglese, il corpo diplomatico cominciò a preoccuparsi. Vennero fatti passi congiunti presso lo Tsung-li Yamen (il ministero degli Esteri cinese) il 27 gennaio 1900, il 27 febbraio, il 5 e il 16 marzo e infine il 3 aprile, chiedendo la messa fuori legge dei Boxers.

Man mano che le violenze di convertiti aumentavano, i ministri occidentali avevano suggerito ai rispettivi governi una dimostrazione navale congiunta per premere sul Governo cinese. Washington, Berlino e Roma accettarono e stabilirono l’invio di navi a Ta ku, il porto più vicino alla capitale; Parigi mise le proprie in preallarme e così anche Londra stabilì di mandare un paio di unità. L’ingente flotta cominciò ad arrivare il 1º giugno: le navi europee, giapponesi e americane al largo di Ta Ku fecero arrivare un contingente di 436 marinai (75 russi, 75 inglesi, 75 francesi, 60 statunitensi, 50 tedeschi, 41 italiani, 30 giapponesi e 30 austriaci) a Pechino per proteggere le rispettive delegazioni. Il 10 giugno l’ammiraglio britannico Seymour comunicò a Londra che sarebbe partito quella mattina stessa per Pechino con i 2.000 marinai del secondo contingente occidentale – tra cui un altro contingente di marinai italiani. Come forze erano più dimostrative che altro; ma il loro movimento verso Pechino aveva preoccupato il popolo, esacerbato i Boxer e intimorito il Governo, il quale, già xenofobo di per sé, come era logico non gradiva certo la presenza di militari stranieri armati nella propria capitale. L’11 giugno, venne avvistato il primo Boxer nel Quartiere delle Legazioni. Il ministro tedesco, Clemens von Ketteler e i soldati tedeschi catturarono un ragazzo Boxer e lo giustiziarono senza motivo. Come risposta, migliaia di Boxer irruppero nella città di Pechino lo stesso pomeriggio e bruciarono la maggioranza delle chiese e delle cattedrali cittadine, bruciando vive alcune persone. I soldati dell’ambasciata britannica e delle legazioni tedesche spararono e uccisero alcuni Boxer, inimicandosi la popolazione della città.

Il governo dell’Imperatrice vedova Cixi, detta in patria «il vecchio Budda», si rivelò però impotente. L’Imperatrice viveva in un continuo clima di sospetto, che la portava a temere tutti, compresi i cinesi nazionalisti. Anche se il governo Qing, di cui faceva parte la famiglia dell’imperatrice e Cixi stessa, condannò formalmente le azioni violente, ma non ne perseguì i responsabili e, anzi, dopo l’inizio dell’assedio alle Legazioni, il 20 giugno 1900 dichiarò guerra alle otto Potenze. La situazione infatti, fattasi sempre più tesa, giunse infine al punto di rottura proprio in quella giornata, quando la stessa imperatrice cinese Cixi spinse i Boxer ad attaccare e assediare il quartiere di Pechino dov’erano insediate le delegazioni straniere. Chi salvò la situazione dal disastro totale furono i viceré cinesi, che riuscirono a impedire l’estensione delle ostilità al di fuori delle regioni settentrionali. Quando poi da Pechino venne la dichiarazione di guerra, Li Hung-chang e i suoi due colleghi Chang Chih-tung e Liu K’un-i, i viceré delle provincie, decisero di ignorarla, interpretando la frase che nel decreto del 20 giugno ordinava ai viceré di «unirsi per proteggere i loro territori» nel senso di scegliere la via migliore per salvaguardare le provincie a cui erano preposti. E quale modo migliore del restare inattivi e in pace? La stessa strada fu seguita dal viceré dello ShantungYüan Shih-k’ai – e in questo modo tutti e quattro riuscirono a tener lontana la guerra dai loro territori e a dare consistenza alla tesi, successivamente sostenuta dal Governo cinese, che l’assedio delle Legazioni fu un’iniziativa dei Boxer in rivolta contro la dinastia, alla quale oltretutto erano sfuggite di mano pure gran parte delle forze regolari stanziate fra Ta ku e Pechino.

Stabilito questo atteggiamento e allacciate relazioni più o meno formali con le Potenze straniere, ben liete di poter circoscrivere i combattimenti alla zona fra il mare e Pechino, i viceré cominciarono a farsi sentire nella capitale non ottenendo nulla. L’entrata a Pechino del corpo di spedizione internazionale indusse il 14 agosto 1900 l’imperatrice vedova Cixi, l’Imperatore, e i più alti ufficiali, a fuggire dal Palazzo Imperiale per Xi’an, da dove inviarono Li Hongzhang per le trattative di pace. Il governo cinese fu costretto a dare un indennizzo alle vittime e a fare altre concessioni. Altre riforme successive alla crisi del 1900 causarono, almeno in parte, la fine della Dinastia Qing e la nascita della Repubblica Cinese che durò poi fino al 1949. Anche il Regno d’Italia inviò un Corpo di spedizione italiano in Cina e alla fine delle ostilità ottenne la concessione di Tientsin.

ARTICOLO REDATTO DA SIDRIVANIS MARIANNA DELLA CLASSE V A DEL LICEO CLASSICO

Fonti: https://it.wikipedia.org/wiki/Ribellione_dei_Boxer

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