CONSIDERAZIONI ATTUALI SULLA GUERRA E SULLA MORTE (1915)

In questo breve trattato, Freud stesso esterna tutta la confusione e lo sconcerto di una generazione falciata dalla Prima Guerra Mondiale e identifica due dei fattori che hanno comportato la miseria spirituale di chi non è andato al fronte (Freud non parlerà in nessun punto di questo trattato di coloro che sono andati al fronte, per mancanza di materiale).

Il primo di questi due fattori è la delusione provocata da questa guerra. Pur sostenendo egli stesso che non si può non condannare la guerra e non desiderarne la fine, spiega che in ogni caso l’umanità mette da sempre in conto la possibilità che nascano guerre, almeno finché i popoli vivranno in condizioni di vita molto differenti. Nel pensiero comune dunque si ritenevano ovvie guerre tra popoli civili e barbari, tra razze diverse anche. Diversamente ci si aspettava una guerra crudele tra popolazioni bianche, civili e dominanti. Questo perché nei cosiddetti Paesi civili erano in vigore leggi morali molto rigide che pretendevano che il cittadino, volente far parte della società, rinunciasse completamente al soddisfacimento delle pulsioni e dei vantaggi derivanti dall’uso di menzogne e inganni. Si era convinti, insomma, che l’uomo cittadino volesse rispettarle perché fondamento della sua stessa esistenza. In questo clima di rispetto delle norme morali e civili, sono venute a crearsi occasioni di scambio commerciale e alleanze all’interno dei Paesi e gli stessi cittadini si sentivano incentivati a spostarsi in Paesi esteri, frutto di occasioni e arricchimento culturale. Nessuno quindi avrebbe immaginato una guerra tra queste nazioni diversa da “una contesa cavalleresca” ossia una guerra che andasse semplicemente a determinare la superiorità di uno Stato senza mai abbandonare quelle poche norme che nell’immaginario comune rientravano in un’etica militare: non infliggere più sofferenze del necessario, avere riguardo per i feriti e per i medici, avere riguardo per la parte della popolazione non belligerante e rispettare la proprietà privata. Quella a cui si aspirava era una guerra che lasciasse invariate le relazioni internazionali così che avrebbero potuto continuare a svilupparsi anche alla fine della guerra. Questa guerra mondiale però costituì per chi vi assistette all’infrangersi di tutte le illusioni sopra riportate mostrando, dice Freud, come ben poco in realtà si comprendessero fra loro i popoli e quanto invece si odiassero. Prima che si possa arrivare a una psicanalisi della preannunciata delusione, Freud lascia trasparire anche una forte critica nei confronti dei singoli governi che hanno proibito ai cittadini l’ingiustizia e le scorrettezze che avrebbero fornito loro una condizione di vantaggio, per monopolizzarle e usarle in guerra <<in una misura tale da sembrare eccessiva anche rispetto alle guerre del passato>>. Nel suo sistema di estrema legislazione morale lo Stato rese gli uomini minorenni per legarli a un’assoluta obbedienza. Ed è proprio quando la comunità revoca il biasimo, che gli uomini commettono atti scellerati prima ritenuti incompatibili con la loro natura civile.
Arrivando propriamente alla questione della delusione causata dalla guerra, essa, innanzitutto, per sua stessa natura non giustifica le nostre lamentele, per il semplice fatto che nel momento stesso in cui ci creiamo un’illusione, strumento che ci è favorevole se ci risparmia i dispiaceri e ci permette di gioire dei soddisfacimenti, dobbiamo mettere in conto anche che questa possa urtare con una realtà in grado di infrangerla. In secondo luogo, le cause scatenanti la nostra delusione sono due: la scarsa moralità verso l’esterno degli Stati che al loro interno si pongono come suoi custodi e l’atteggiamento brutale degli individui che mai si pensavano capaci di determinate azioni. Freud parte analizzando il secondo fattore scatenante dal motivo per cui l’uomo perviene a un livello elevato di moralità. Diversamente da quanto vogliano farci credere le più ottimistiche e benevole credenze popolari, l’uomo non nasce buono né tantomeno col tempo ha estirpato da sé tutta la malvagità di cui era provvisto. Secondo la psicanalisi l’essenza più profonda dell’uomo consiste di moti pulsionali, comuni in tutti gli uomini, che mirano al soddisfacimento di bisogni originari e di per sé non sono né “buoni” né “cattivi”. Queste connotazioni morali vengono loro associate dalla relazione che hanno con le richieste della comunità umana. I moti pulsionali che la società biasima, per esempio, sono inclusi fra i moti pulsionali primitivi. Come l’egoismo. I moti pulsionali prima di poter agire sulla vita degli individui adulti compiono lunghi percorsi di inibizione e di deviazione e vi sono formazioni reattive a queste, come l’altruismo, che possono farci erroneamente pensare a un loro mutamento interno quando invece fin dall’inizio si presentano in coppie antitetiche, la cosiddetta ambivalenza dei sentimenti. Il carattere dell’uomo emerge solo dopo che questi destini pulsionali sono stati superati e come questi, l’uomo non si può definire “buono” o “cattivo”. Le pulsioni che sono dette moralmente “cattive” sono rimodellate in base a due fattori che agiscono l’uno internamente e l’altro esternamente.

• Internamente: l’erotismo, inteso come bisogno umano di amore, esercita un influsso sulle pulsioni negative, come appunto l’egoismo, mutandole in pulsioni sociali. Solitamente si preferisce anteporre il vantaggio di essere amati ad altri vantaggi. Ogni costrizione interna convalidata nel corso della storia umana ha origine da una costrizione esterna. Oggi, gli uomini nascono con parte di questa tendenza come organizzazione ereditaria, è perciò innata.
• Esternamente: la costrizione educativa che rappresenta le richieste dell’ambiente e, progredendo, la diretta pressione dell’ambiente sociale. Nel corso della vita umana, a questa costrizione si aggiunge l’influsso della storia della civiltà dei suoi antenati.

L’aspetto innato, ci dice Freud, è spesso sopravvalutato e in generale siamo portati a considerare gli uomini migliori di quanto in realtà siano. A farci dare un giudizio errato concorrono due cause: a) il fatto che non possiamo conoscere i moti pulsionali di una persona e pertanto nel giudicarla ci basiamo sulle azioni senza sapere se siano state ispirata da motivi <<nobili>> oppure no; b) l’esistenza di incentivi quali premi e punizioni, che possono portare a un comportamento obbediente senza aver compiuto nel soggetto un affinamento delle pulsioni. Chi è costretto ad agire costantemente secondo dei precetti che non sono espressione delle sue tendenze pulsionali, vive al di sopra dei suoi mezzi, o più semplicemente, da ipocrita. In sostanza, non ha senso essere delusi per il comportamento incivile degli uomini in guerra perché << non sono caduti tanto in basso come temevamo, perché non erano per nulla saliti tanto in alto come credevamo>>. Riguardo al comportamento degli uomini in tempo di guerra bisogna ancora considerare due cose:

  • La prima è che nell’ambito dello sviluppo psichico ogni precedente livello di sviluppo continua a sussistere accanto a quello successivo originato dal primo. Vi è quindi una coesistenza. Il primo livello può non trovare espressione per anni finché un giorno può tornare a essere espressione delle forze psichiche e in alcuni casi l’unica, come se tutti gli stadi successivi si fossero annullati. In questo caso si può parlare di una particolare capacità della psiche a regredire, considerato che i livelli successivi potrebbero risultare poi irraggiungibili, mentre la parte più primitiva della psiche rimane imperitura. È importante tener conto anche del fatto che vi sono regressioni provvisorie, come in sogno dove non vi sono costrizioni morali, o più durevoli. Sicuramente la guerra può provocare un’involuzione ma non è da escludersi che col tempo possa ripresentarsi un affinamento delle pulsioni.

Sappiamo che ogni volta che ci addormentiamo ci spogliamo della nostra moralità penosamente acquisita- per poi rivestircene al mattino.

  •  La seconda è la mancanza di discernimento, in periodo di guerra, anche degli uomini più intelligenti. In questo caso non possiamo considerare l’intelligenza indipendente dalla sfera emotiva: il nostro intelletto può lavorare in modo efficace solo se lontano dai forti moti di sentimento. Perciò l’accecamento logico, come Freud stesso lo definisce, dovrebbe sparire al termine della guerra.

Per quanto riguarda la prima delle cause scatenanti la delusione in tempo di guerra, Freud scrive:

Perché poi gli individui-popolo si disprezzino reciprocamente, si odino, si detestino, e lo facciano anche in tempo di pace, e perché ogni nazione faccia altrettanto nei confronti di un’altra, questo è certamente un mistero. E io stesso non so cosa dire in proposito. In questo caso accade proprio come se, allorquando una moltitudine o addirittura milioni di uomini si riuniscono insieme, tutte le acquisizioni morali degli individui fossero cancellate e non restino altro che le disposizioni psichiche più primitive, antiche e rozze. Forse, rispetto a queste deplorevoli condizioni, soltanto ulteriori sviluppi potrebbero cambiare qualcosa. Ma un po’ più di verità  e sincerità da tutte le parti, nelle relazioni degli uomini fra di loro e fra essi e i loro governanti, dovrebbero già spianare la strada a questa trasformazione.

Vediamo ora il secondo fattore che ha determinato l’impoverimento dell’animo di chi non è andato al fronte: il turbamento che è venuto a crearsi nel rapporto abituale con la morte. Prima della guerra questo rapporto era tutt’altro che autentico e corrisponde a un rapporto che anche noi possiamo ravvisare: si ritiene a parole che la morte sia inevitabile e naturale, con i fatti invece risulta che non solo si cerca di eliminarla dalla quotidianità, ma che tentare di immaginarsi la propria morte è praticamente impossibile, se non come semplici spettatori. Insomma, per l’inconscio ognuno di noi è immortale. Anche il rapporto con la morte altrui è complesso: tendiamo a non parlare della possibile morte di una persona davanti alla medesima, da adulti non si pensa apertamente al guadagno che la morte di una persona possa costituire e ci si ritiene duri e cattivi davanti a questi pensieri. La morte in genere viene vista quasi come una casualità, come se morire fosse qualcosa che molto difficilmente può capitare. Per questo motivo a questo pensiero corrisponde un crollo emotivo davanti alla morte di una persona vicina e in lutto seppelliamo con lei anche le nostre speranze ed esigenze (Anche peria fra poco / La speranza mia dolce, da A Silvia di Giacomo Leopardi), rifiutandoci di sostituire quanto abbiamo perso. (Da “Lutto e Melanconia” sappiamo che finito il periodo di lutto invece è una cosa possibile, si tratta di spostare quanto investito nell’oggetto perduto a un nuovo oggetto. Richiede tempo questo processo ma è del tutto naturale). Va da sé che per paura di questo doloroso lutto, siamo più portati a rinunciare per noi e per gli altri a molte attività che possono essere ritenute pericolose e che la vita si impoverisce. Per vivere una vita sicura e al contempo pericolosa, nasce il cinema e la letteratura, dove possiamo immedesimarci in un personaggio senza dover per forza morire con lui. Questa comune concezione della morte, come abbiamo precedentemente annunciato, si infranse violentemente con la realtà di guerra: gli uomini iniziano a morire in gran numero e non per una casualità. Da questo momento per una generazione intera non è più possibile rinnegare la morte e scatena due reazioni principali: la vita ritrova il suo contenuto e contemporaneamente bisogna trovare un nuovo rapporto con la morte. 

Per trovare un nuovo rapporto è necessario partire dalle altre due relazioni con la morte, quella primitiva e quella insita dentro di noi, nella nostra più profonda vita psichica. Per l’uomo primitivo la morte era una cosa reale, la fine della vita e al contempo nulla. Questa contraddizione è possibile se teniamo conto che la morte di un estraneo, un nemico, gli era motivo di gioia e non aveva scrupoli nell’uccidere. Mentre, la sua stessa morte la vedeva come noi vediamo la nostra, ossia non la vediamo, ci è irrappresentabile. Vi era però un caso in cui queste due posizioni si scontravano: la morte di una persona amata. Quando una persona cara moriva, l’uomo preistorico capiva che anche lui poteva morire anche perché ogni persona amata era un pezzo del suo amato Io e allo stesso tempo gli andava bene la morte, seppur di una persona vicina, perché fondamentalmente estranea a lui, anche se solo in parte. È a questo punto, cioè dal conflitto di sentimenti provocato dalla morte di una persona amata, che Freud colloca l’inizio della ricerca umana, della psicologia e degli spiriti. L’uomo trovandosi costretto ad ammettere l’esistenza della morte anche per sé stesso, non la vuole vedere come fine della vita. Crea quindi gli spiriti e poi i demoni, quando al lutto si unisce il senso di colpa per il suo soddisfacimento. L’esistenza di una vita dopo la morte ha avuto come conseguenza una vita prima generando le teorie di rinascita e metempsicosi. Chiaramente all’inizio tutte queste teorie erano dei “miseri escamotage” e solo con l’avvento delle religioni si è arrivati ad esaltare la vita ultraterrena molto più di quella sicuramente reale. Sempre davanti alla morte dei propri cari, l’uomo primitivo ha espresso i primi comandamenti etici, tra cui spicca anche il divieto di uccidere. La necessaria creazione di una simile legge è prova del fatto che la brama di uccidere era insita nell’uomo e che solo più avanti, lungo il suo percorso evolutivo, ha acquisito aspirazioni etiche. Per quanto riguarda l’inconscio della vita psichica dell’uomo moderno, vedremo che non è poi così differente dall’uomo primitivo. Tanto per cominciare anche l’uomo moderno non crede alla propria morte, dato che l’inconscio non riconosce le negazioni. Per questo motivo probabilmente esiste l’eroismo, non tanto perché si reputi la vita inferiore agli ideali astratti, ma più probabilmente perché ci crediamo immortali. Un’altra cosa in comune con l’uomo primitivo è il fatto che anche noi siamo degli assassini: non compiamo l’atto vero e proprio di uccidere, ma il nostro inconscio uccide per ogni piccolezza, ogni lesione al tirannico Io è considerata lesa maestà e non trova altra punizione all’infuori della morte. Anche per quanto riguarda la morte delle persone care sussiste il conflitto di sentimenti di cui abbiamo già parlato per l’uomo primitivo. In questo contesto, la guerra non ha fatto altro che spazzare le stratificazioni successive facendoci tornare alla concezione della morte degli uomini primitivi, pertanto non crediamo alla nostra morte, vediamo chiunque come un nemico e gli auguriamo la morte. Davanti alla guerra ogni moralità  e ipocrisia cade.

La guerra, però, non potrà essere spazzata via; fintantoché le condizioni di esistenza dei popoli saranno così differenti e le ostilità fra di loro così forti, ci saranno necessariamente guerre. Per questo sorge la domanda: non dovremmo forse cedere e adeguarci a essa? Non dovremmo ammettere che con il nostro atteggiamento civile nei confronti della morte abbiamo vissuto psicologicamente al di là della nostra condizione e non dovremmo piuttosto capovolgere la situazione e piegarci fatalmente alla verità? Non sarebbe meglio concedere alla morte il posto che le spetta nella realtà e nei nostri pensieri, e mettere un po’ più in risalto il nostro inconscio atteggiamento nei confronti della morte che finora abbiamo così scrupolosamente represso? Non sembra un’operazione che elevi, anzi sembra per molti aspetti un passo indietro, una regressione, ma ha il vantaggio di condurre la realtà nella giusta direzione e renderci di nuovo sopportabile la vita. Sopportare la vita rimane pur sempre il primo dovere di tutti gli esseri viventi. L’illusione diviene priva di valore se ce lo impedisce. Ricordiamo l’antica massima: Si vis pacem, para bellum. Se vuoi mantenere la pace, prepara la guerra. Attualmente andrebbe modificato così: Si vis vitam, para mortem. Se vuoi mantenerti vivo, preparati alla morte.


BIBLIOGRAFIA E CITAZIONI DA:

SIGMUND FREUD, L’ELABORAZIONE DEL LUTTO- SCRITTI SULLA PERDITA, MILANO, BUR RIZZOLI, 2013.


ARTICOLO REDATTO DALL’ALUNNA COLONGO ELEONORA DELLA CLASSE V A DEL LICEO CLASSICO