L’etica Nicomachea è la grande opera di filosofia etica di Aristotele, dedicata al figlio Nicomaco, per parlare delle scienze pratiche: l’etica e la politica. Egli infatti ritiene che l’etica sia una parte del più amplio complesso della politica, perché l’uomo realizza compiutamente il suo fine, anche sul piano etico, solo all’interno della comunità. Non a caso la sua celebre affermazione “l’uomo è un animale politico” ( ossia un animale che necessita di vivere all’interno di una comunità) si trova sia nella Politica sia nell‘Etica Nicomachea. Quest’ultimo trattato, che è lo scritto aristotelico più organico e compatto, può dare l’impressione di essere una specie di manuale a uso del politico, per consigliarlo sul modo in cui stabilire nella società i costumi adatti a creare una buona vita civile.

L’etica comprende un insieme di termini, principi, concetti che qualificano l’indagine prettamente filosofica riguardante il comportamento e la prassi umana, considerati nelle loro diverse sfaccettature, da quelle più propriamente personali e individuali a quelle di carattere interpersonale e più ampiamente sociale e pubblico. La prima parola da prendere in esame è il sostantivo ”etica” che potrebbe essere anche sostituito con la parola ”morale”. Dal punto di vista etimologico non vi sono, infatti, differenze significative tra i due termini, se non il fatto che essi traggono origine da lingue diverse: l’uno deriva dal greco ethos, l’altro invece dal latino mos, moris. In entrambi i casi si intende il medesimo significato: il comportamento, il costume e il modo di agire dell’uomo. Quando Cicerone si pose il problema di come rendere in latino il sapere etico, che nel mondo greco, specie con Aristotele, aveva trovato la sua prima, compiuta e consapevole riorganizzazione, coniò l’aggettivo moralis,-e, che entrò a far parte del lessico filosofico occidentale, contrassegnando la cosiddetta philosophia moralis. Qual è allora il significato di etica? Per rispondere conviene soffermarsi su un passo di Aristotele. Così si apre il secondo libro dell’Etica Nicomachea:                                                                                                                                                                                  

La virtù (arete) è, dunque, di due specie, dianoetica ed etica: quella dianoetica trae in larga misura la sua origine e la sua crescita dall’insegnamento , ragion per cui ha bisogno di esperienza e di tempo; la virtù etica, invece, deriva dall’abitudine, dalla quale ha preso anche il nome con una piccola modificazione rispetto alla parola ”abitudine”.  Da ciò risulta anche chiaro che nessuna delle virtù etiche nasce in noi per natura […]. 

L’obbiettivo di Aristotele è quello di distinguere la virtù dianoetica, espressione della parte razionale dell’ anima, dalla virtù etica, espressione della parte irrazionale, perché comprende il mondo dei desideri e delle passioni. Le virtù etiche, dette anche virtù del carattere e del giusto mezzo, nascono quindi dalla confluenza di desiderio e ragione. Esse sono infatti la capacità di saper scegliere il giusto mezzo tra due estremi; è ad esempio la capacità di saper scegliere il giusto mezzo tra l’essere vigliacchi e l’essere temerari. In questo caso il giusto mezzo è l’essere coraggiosi, anche se è bene ricordare che, secondo Aristotele, il giusto mezzo tra zero e dieci non è cinque, ma dipende da chi noi siamo. Quindi riprendendo l’esempio, l’essere coraggiosi non è uguale per tutti, ma a seconda di quello che noi siamo, in base alle diverse circostanze, l’essere coraggiosi potrà essere più tendente all’essere vigliacchi o viceversa all’essere temerari. La medietà di cui parla Aristotele è più qualitativa che quantitativa : l’esempio classico di Aristotele è quello della generosità : non si deve ne essere avari ne prodighi (lo dice anche Dante nel settimo canto dell’Inferno) : la generosità consiste nel dare il giusto. Tra tutte le virtù etiche la virtù superiore è la giustizia, perché la persona giusta deve saper sempre scegliere il giusto mezzo tra due estremi, tenendo sempre in considerazione che non è mai dato dalla perfetta proporzionalità. Per Aristotele la giustizia può essere di due tipi distributiva o commutativa. Quest’ultima, chiamata anche regolatrice, e aritmetica secondo i Pitagorici, considera solo la parte eguale tra gli individui. Questo tipo di giustizia è alla base del diritto moderno, la commutazione deve essere equilibrata, quindi ad esempio, se subisco un danno, devo essere risarcito in modo eguale. La giustizia distributiva, o geometrica secondo i Pitagorici, si basa solo sulle differenze, ad esempio se bruci molte calorie devi mangiare di più di chi ne brucia di meno. Si tratta quindi di saper distribuire in maniera equa, ma non uguale, qualcosa.

Quando la ragione è impegnata nell’attività di ricerca e di possesso della verità – che è la sua funzione primaria – essa, se correttamente usata, dà origine nell’uomo alle cosiddette virtù dianoetiche o intellettive o razionali:

 

 

 

 

 

  • l’arte (techne) è la capacità, accompagnata da ragione, di produrre un qualche oggetto;
  • la saggezza (phrónesis) è la capacità congiunta a ragione di agire convenientemente nei confronti di ciò che è bene o è male per l’uomo (Etica Nicomachea, VI, 5, 1140b);
  • l’intelligenza è la capacità di cogliere i primi princìpi di tutte le scienze;
  • la scienza è la capacità dimostrativa o apodittica;
  • la sapienza (sophía), per Aristotele la forma di conoscenza più alta, che consiste in quella forma di conoscenza che ha come scopo se stessa e non la produzione di oggetti né le azioni pratiche. Approda alla vita contemplativa o teoretica, una vita dedicata esclusivamente alla ricerca. Il filosofo ritiene tale vita superiore a tutte le altre mortali e simile alla vita divina. L’attività teoretica, sostiene infatti Aristotele, «è di per se stessa la più alta» e la filosofia «apporta piaceri meravigliosi per la loro purezza e solidità».

I gradi di conoscenza sono quindi cinque e al livello più alto vi si trova la sapienza. Il sapiente quindi è colui che coglie il principio primo dell’universo (Dio) e quindi la causa prima, che coincide con il fine ultimo, individuando quindi il motore immobile, l’atto puro, la forma pura, la  sostanza priva di materia e di sostanza, ovvero il pensiero pensate il pensiero, nonché il pensiero che pensa se stesso in modo di essere immobile, oltre che essere la causa fine e ultima dell’universo.

L’etica Nicomachea si occupa però principalmente di virtù e felicità. Aristotele si chiede dunque quando l’uomo è veramente felice? Secondo il paradigma del mondo greco è proprio la virtù a portare l’uomo alla felicità, affermando quindi che quest’ultima è una conseguenza dell’essere virtuosi. Secondo Aristotele un uomo è virtuoso quando esercita al massimo delle sue potenzialità la virtù che gli è propria. La virtù comune a tutti gli uomini è l’essere razionali, perciò la felicità dipende dall’esercizio dell’ abitus più tipico dell’uomo: essere un animale razionale. L’etica di Aristotele è un’etica eudaimonistica (che mira alla felicità). Va pertanto fatta una distinzione tra etica EUDAIMONISTICA ed EDONISTICA (che mira al piacere): Aristotele tende a descrivere come l’uomo si comporta e non come dovrebbe comportarsi. Dice che l’uomo mira alla felicità; l’etica edonistica è una variante dell’etica eudaimonistica. Aristotele sostiene che il piacere abbia la sua importanza; ma allo stesso tempo crede che la felicità non è il piacere, ma che è qualcosa di più ampio che contiene anche il piacere. L’etica di Aristotele è eudaimonistica. Aristotele capisce che la felicità è il fine ultimo dell’uomo: infatti sebbene ognuno di noi abbia i propri fini personali,  in realtà il fine ultimo comune a tutti è la felicità. Per esempio l’obbiettivo di uno studente è quello di acquisire un titolo di studio. Ovviamente questo non è fine a se stesso, ma lo fa in funzione di qualcos’altro. Per svolgere una professione. Non è un fine ultimo: lo fa per fare qualcos’altro: per avere soldi. Ma coi soldi vuole andare in vacanza . Ma perchè vuole andare in vacanza? Per fare cose che gli piacciono. Perchè vuole fare quelle cose? Perchè così è felice. La felicità è il fine ultimo dell’uomo. Il piacere non è il fine ultimo, ma accompagna e perfeziona ogni attività e sarà tanto migliore quanto migliore è l’attività che esso accompagna. La felicità, però, non viene mai concepita come il far niente: è sempre legata all’attività, sia fisica sia intellettiva: la felicità è l’atto di un’azione ben riuscita. Il piacere si accompagna a queste situazioni. Che cos’è la felicità per l’uomo? La felicità deriva dall’esercizio di un’attività e visto che la specificità dell’uomo è la razionalità, si può dire che la felicità derivi dall’esercizio della ragione. Esercitare la ragione vorrà dire due cose distinte. Aristotele ha distinto ragione teoretica (quella che ci fa conoscere) da ragione pratica (quella in grado di governare razionalmente il nostro comportamento). Questa distinzione delle funzioni della ragione governa la distinzione delle due tipologie di VIRTU’: le virtù etiche e le virtù dianoetiche.


Sitografia

https://it.wikipedia.org/wiki/Aristotele

http://www.sapere.it/enciclopedia/Arist%C3%B2thttp://www.sapere.it/enciclopedia/Arist%C3%B2tele.htmlele.html

https://www.filosofico.net/eticas.html

https://www.studiarapido.it/etica-di-aristotele-virtu-etiche-dianoetiche/#.XqVnuWgzbIU


Bibliografia

Antonio Da Re, Le parole dell’etica, Milano, Bruno Mondadori, [2010],


ARTICOLO DI ANTONIO MARCO CAMURATI DELLA CLASSE III B DEL LICEO CLASSICO