SITI CONSIGLIATI

https://it.wikipedia.org/wiki/Razza_ariana

https://www.viaggio-in-germania.de/hitler-teoria.html

http://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/razza-ariana/

https://www.unionemonregalese.it/2019/01/25/la-teoria-della-razza/


LA STORIA DEL CONCETTO DI SUPERIORITA’ DELLA RAZZA ARIANA PROCLAMATO DA HITLER


La strumentalizzazione delle parole di Tacito per l’affermazione dell’idea di purezza razziale dei Nazisti Tedeschi 

Gli umanisti Tedeschi del periodo nazista cercarono nelle radici storiche e letterarie della cultura occidentale, nella cultura classica ed in quella tradizionale germanica, i fondamenti su cui basare le loro speculazioni circa la superiorità della razza germanica. Questa motivazione fu alla base dell’attenzione che la cultura umanistica tedesca rivolse alla Germania di Tacito.

Gli umanisti Bebel [(1472-1518) un latinista, oltre a trattati di grammatica, pubblicò opere riguardante la satira dei costumi (l’opera principale di questo filone è il Triumphum Veneris, in cui tutta la società è rappresentata come schiava di Venere e dei suoi piaceri). Questo autore si concentra anche sul linguaggio, sui canti e sui proverbi del popolo tedesco, dei quali ultimi fece una raccolta che tradusse in latino]

e Johannes Naucler (1425 ca.-1510) [umanista svevo, visse per qualche tempo in Italia dove conobbe Pio II.

La sua opera principale furono i Memorabilium  omnis aetatis et omnium gentium chronici Commentarii. Una narrazione dell’intera storia umana è interessante come esempio di letteratura umanista-nazionalista contenendo affermazioni di questo genere: “Vos pro omnibus elegit Deus, ut dominaremini onmi natione, vobis est data monarchia mundi”. usano parole e concetti, quali per esempio integrità e superiorità morale e forza innata, che sono simili a quelli di Tacito.

 

Si pongono, dunque, le premesse di uno sviluppo dell’idea di nazionalità germanica in senso chiaramente razzistico, come tutela del sentimento nazionale tedesco, in aperta ostilità verso le minoranze. Fichte (1762–1814) ne

Discorsi alla nazione tedesca (1808) afferma: “… se era destino che la latinità assorbisse i popoli germanici, meglio essere distrutti da quella antica che da questa odierna. Tenemmo testa a quella e la vincemmo; voi vi lasciaste battere e disperdere da questa. Oggi, così stando le cose, non dovete più espugnarla con armi materiali; solo il vostro spirito deve adeguarsi di fronte ad essa e rimanere eretto. A voi è toccata la sorte più stupenda: fondare il regno dello spirito e della ragione, distruggere la forza bruta dominatrice del mondo…. Bisogna spodestare dal governo del mondo l’ibrido confuso miscuglio degli appetiti sensuali e spirituali; solo lo spirito, puro e libero dagli impulsi sensuali, deve mettersi al 

 

timone e governare le umane vicende. Perché questo spirito avesse la libertà di svilupparsi e crescere a vita indipendente, per ciò fu versato il sangue tedesco.”. Questo atteggiamento pantedesco trova la sua espressione più organica nell’opera saggistica del 1899 Fondamenti del XIX secolo di Houston Stewart Chamberlain (1855-1927), il filologo inglese, che per la grande ammirazione che aveva per la Germania si volle naturalizzare tedesco (fu amico personale di Guglielmo II e si imparentò con il compositore Wagner). Per l’autore la storia dell’uomo deve eseere interpretata alla luce della sua chiave di volta: la razza. Gli eredi del retaggio culturale che gli antichi hanno lasciato solo ‘due razze pure’: ebrei e tedeschi, e una ‘meticcia’, i latini. Tra questi eredi, Chamberlain considera i tedeschi come l’anima della civiltà europea, avendo essi ereditato le migliori caratteristiche, sono i più puri, essi possono considerarsi signori del mondo

La rilettura strumentale si fonda soprattutto su quanto Tacito afferma nel capitolo 4 della Germania, in un passo che ha particolarmente colpito Chamberlain e altri:

Ipse eorum opinionibus accedo, qui Germaniae populos nullis aliis aliarum nationum conubiis infectos propriam et sinceram et tantum sui similem gentem extitisse arbitrantur. Unde habitus quoque corporum, quamquam in tanto hominum numero, idem omnibus: truces et caerulei oculi, rutilae comae, magna corpora et tantum ad impetum valida

Io stesso sono d’accordo con le opinioni di coloro che ritengono che i popoli della Germania, non contaminati da nessuna unione con altre genti, mostrino la loro razza pura e simile solo a se stessa. Per cui anche l’aspetto dei corpi, sebbene in un numero tanto grande di uomini, è lo stesso per tutti: truci occhi azzurri, capelli fulvi, corporature massicce e adatte soltanto all’attacco” (trad M. Stefanoni).

Segno di “purezza” sarebbero dunque la statura e la conformazione fisica straordinariamente uniforme dei Germani. Ma la frase presenta qualche problema di tradizione: infatti, al posto di quamquam, è attestato in alcuni codici anche la variante tamquam. La differenza di significato non è irrilevante. Tamquam attenua il giudizio di uniformità e introduce un elemento limitativo: “sono tutti uguali, nei limiti in cui lo si può essere nell’ambito di un così gran numero di persone”. La ricerca più recente ha portato forti argomenti in favore di tamquam, ma in epoca nazista, in cui la Germania tacitiana viene con molta assiduità commentata e tradotta, si afferma saldamente quamquam e prevale l’interpretazione più smaccatamente razzistica: Tacito sarebbe, come scrive Eugen Fehrle (docente di tradizioni popolari all’ Università di Berlino), “stupefatto dinanzi ad una popolazione così numerosa e che nondimeno presenta una tale concordanza nei tratti somatici”. Anche l’uso di termini forti quali l’aggettivo infectos, posto in opposizione al successivo sinceram, veniva inteso nel senso che i Germani non si erano contaminati da contatti o mescolanze con altre stirpi.

Ma il modo in cui Tacito si esprime non deve trarre in inganno. Il mondo romano è, in quanto mondo della mescolanza) il più lontano dal culto di questi miti razziali (vedi il discorso dell’imperatore Claudio nel libro XI degli Annales: Non ignoro, infatti, che i Giulii sono stati chiamati in senato da Alba, … e, se lasciamo da parte i tempi più antichi, dall’Etruria, dalla Lucania e da tutta l’Italia. L’Italia stessa ha da ultimo portato i suoi confini alle Alpi, in modo che, non solo i singoli individui, ma le regioni e i popoli si fondessero nel nostro nome. Abbiamo goduto di una solida pace all’interno, sviluppando tutta la nostra forza contro nemici esterni, proprio allora quando, accolti come cittadini i Transpadani, si poté risollevare l’impero stremato, assimilando le forze più valide delle province, dietro il pretesto di fondare colonie militari in tutto il mondo. C’è forse da pentirsi che siano venuti i Balbi dalla Spagna e uomini non meno insigni dalla Gallia Narbonense? Ci sono qui i loro discendenti, che non ci sono secondi nell’amore verso questa nostra patria. Cos’altro costituì la rovina di Spartani e Ateniesi, per quanto forti sul piano militare, se non il fatto che respingevano i vinti come stranieri? Romolo, il fondatore della nostra città, ha espresso la propria saggezza, quando ha considerato molti popoli, nello stesso giorno, prima nemici e poi concittadini. Stranieri hanno regnato su di noi …. Ormai si sono assimilati a noi per costumi, cultura, parentele” (trad A. Nicolotti). Del resto la stessa presunta origine ‘troiana’ dei Romani da Enea, esule da Troia sconfitta e bruciata, come descritto da Virgilio nell’Eneide, ricorda i Romani come stranieri in altra patria . Del resto Tacito scrive quando uno spagnolo, Traiano, è divenuto princeps, mentre qualche decennio più tardi sarà sul trono un africano, Settimio Severo. Da secoli il meccanismo di allargamento progressivo della cittadinanza operava in direzione opposta a quella della difesa di una propria presunta sinceritas etnica, come erroneamente proposto dal fascismo in virtù di una presunta ‘difesa della razza italica’, proclamata ‘ariana’ per la diretta derivazione romana, non suffragata da documenti storici, proprio per l’inesistenza di una omogenea ‘stirpe romana’ di partenza In ogni caso è necessario distinguere tra mentalità razzistica ed interesse etnografico. L’ammirazione di Tacito per la popolazione germanica non è mai totale ed acritica: egli, infatti, sa anche scorgere i difetti. Per esempio, egli esalta la pudicizia delle donne germaniche, ma è anche pronto a sottolineare certe strane abitudini degli uomini, i quali, quando non combattono, vivono una vita del tutto inerte, si ubriacano frequentemente, dando origine a risse cruente.

La teoria della razza ed il mito del Volk

Tacito, nel capitolo 4 della Germania, scrivendo: “Io stesso sono d’accordo con le opinioni di coloro che ritengono che i popoli della Germania, non contaminati da nessuna unione con altre genti, mostrino la loro razza pura e simile solo a se stessa.” fornisce lo spunto alla elaborazione su base storica della teoria razziale, intesa come supremazia di una razza su un’altra fondata su basi biologico-genetiche, che può trovare continuità nell’endogamia (non mescolanza delle razze). Successivamente la teoria razziale trova conferma nell’opera di altre personalità.

 Fonte di ispirazione sono alcuni aspetti della speculazione filosofica di Immanuel Kant sulla razza. La sua teoria razziale ebbe grande influenza nel contesto culturale tedesco. Fu lui, infatti, ad affermare chiaramente l’immutabilità e la permanenza della razza. In Le differenti razze dell’umanità affermò che si possono definire ‘razza’ quegli animali che conservano la loro purezza nonostante le migrazioni da una regione all’altra e malgrado la tentazione di mescolarsi con altri animali, e che la stessa cosa si applica agli esseri umani: “… Così i neri e i bianchi non sono certo due differenti tipi di specie, ma nondimeno due razze differenti’ facendo, perciò, una netta distinzione tra specie e razza. Egli argomenta e ‘dimostra’ la tesi che Dio abbia creato tutti gli uomini per tutta la terra e che essi sono liberi di vivere dappertutto. Se le razze hanno proprie dimore specifiche, ciò avviene perché sono i fattori geografici che le spingono in una regione. Kant propose quattro razze principali (bianca, nera, mongola e indù), ma ritenne che tra queste le razze basilari fossero la bianca e la nera, perché presentano chiare differenze di personalità e caratteristiche. Sebbene insistesse sull’origine comune di tutti gli uomini, per evitare di criticare il racconto biblico della creazione, formulò un concetto di razza che sarebbe rimasto immutato. Il carattere razziale diventa una sostanza immutabile e fondamento di qualsiasi aspetto fisico e sviluppo umano e spirituale, compresa l’intelligenza. Le razze considerate indipendenti da influenze esterne non possono, evolvendosi, mutare. In linea con questa tradizione i nazisti avrebbero proclamato la razza ariana ‘la razza immutata per migliaia di anni’. Mezzo secolo dopo Kant nacque Joseph Gall (medico tedesco di origini italiane) che fondò la frenologia, studio sulle misure craniche e analisi delle protuberanze per individuare le predisposizioni morali ed intellettuali degli esseri umani, cercando, dunque, di comprendere le caratteristiche interiori degli uomini alla luce del loro aspetto esteriore. I Germani appartenevano ad una razza dal cranio allungato e stretto (dolicocefalico), che divenne criterio distintivo dell’arianesimo.

La elaborazione di una “teoria razziale” sistematica e completa si ebbe però grazie al contributo anche di altri autori.

 Un primo esempio è il Conte De Gobineau (1816-1882), francese, vissuto nell’Ottocento e autore del Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane. Interpretò la storia umana sullo sfondo di uno specifico contesto razziale: la purezza della razza determina la capacità di sopravvivenza e di dominio sulle popolazioni inferiori, mentre la mescolanza di differenti elementi razziali ne comporta un rapido declino. La razza ariana sarebbe la più pura, dotata di vigore e di genuina vitalità, di una costante aspirazione alla forza ed alla conquista e tuttavia sottoposta alla minaccia della contaminazione delle razze subalterne. L’incedere storico porta inevitabilmente alla commistione delle razze e, pertanto, al loro declino. La sua opera, per quanto pessimisticamente giungesse all’affermazione dell’inesorabile declino della civiltà per la perdita della purezza razziale, considerata irrecuperabile, divenne un’esortazione al consolidamento ed alla preservazione della razza ariana ed un’opportunità per opporsi al sistema democratico.

Il secondo grande teorico del razzismo fu Ludwig Shemann(1852-1938), insegnante tedesco che nel 1894 fondò una società che si proponeva di far rinascere in Francia ed in Germania le idee di De Gobineau, che ebbe come sostenitori il circolo wagneriano di Bayreuth, nato per volontà del compositore nel 1874 per diffondere gli ideali di Gobineau, e i pangermanisti, un gruppo di persone costituito soprattutto da insegnanti pronti a diffondere le idee razziali nelle scuole. Wagner fu autore di numerosi scritti politici, e attraverso il Bayereuther Blatter invocò duramente alla ‘Distruzione degli ebrei’. MortoWagner nel 1883, il circolo omonimo continuò a diffondere l’ideologia antisemita. Hitler non incontrò mai il compositore, ma ne fu un noto sostenitore sia per l’ideologia politica sia per la sua rivoluzione in ambito musicale e pronunciò in uno dei suoi discorsi che “Non può capire la Germania del terzo Reich chi non capisca Wagner”.

Ultimo e assai rilevante predecessore delle teorie razzistiche naziste fu Houston Stewart Chamberlain (1855-1927), genero di Wagner, filologo inglese amante della Germania, che si dedicò all’analisi della civiltà e della storia della Germania. La sua opera I fondamenti del diciannovesimo secolo (1900) profetizza l’inevitabile sviluppo della razza ariana, suprema speranza e meta delle aspirazioni dell’umanità, fornendo una base scientifica alle dottrine razziali. Queste riflessioni fecero sì che medici ed accademici ricercassero la corrispondenza tra le qualità esteriori e quelle interiori tracciando cartografie del volto umano, in cui la fisionomia diveniva espressione dell’essere interiore dell’individuo. Interpreta la storia come una incessante lotta tra due termini antitetici: la razza germanica da una parte e quella giudaica dall’altra. I Germani in questo clima razzista sono visti come coloro che con la loro vitalità ed energia, con il loro eroismo frutto di una forza interiore e metafisica, hanno contribuito alle più nobili conquiste della cultura greca e romana, portando l’uomo a ampliare sempre più i suoi orizzonti. L’anima dell’ariano sarà considerata la forza motrice della trasformazione della realtà: nasce la giustificazione teorica dell’antisemitismo, cioè la valorizzazione del concetto di razza ariana opposta a quella giudaica, il cui interesse è il raggiungimento dei propri vantaggi personali e la cui azione e la sua stessa compresenza con gli ariani ne ostacola il progresso. Questa teorizzazione viene favorevolmente accolta nel contesto storico, sociale e culturale tedesco.

Alcuni scrittori Tedeschi tra gli ultimi anni dell’Ottocento e gli anni Trenta contribuiscono allo svilupparsi di queste teorie giungendo a legare il popolo tedesco con il suo contesto geografico. Si stabilisce una stretta corrispondenza tra l’anima dell’uomo e il paesaggio rurale in cui lui e i suoi avi hanno vissuto e da cui sono stati sfamati, il rapporto con l’ambiente naturale (identificato con quello rurale in opposizione a quello cittadino visto come risultato di una violenza dell’uomo stolto verso la Natura). Non si esaurisce però in un semplice rapporto materiale che il  popolo, che da sempre abita un luogo, sviluppa una sorta di legame con le forze interne e immanenti alla Natura. È esemplificativa di un contesto culturale-letterario diffuso la frase del romanziere Otto Gmelin,  (1885-1940), che si arruolò volontario nella Grande Guerra e durante il periodo nazista godette di enorme successo scrivendo romanzi storici di tendenza fortemente nazionalista, in cui gli eventi del Medio Evo erano rivisitati nella prospettiva del presente “per ogni popolo e per ogni razza, un ambiente rurale diviene così il suo peculiare paesaggio” Nei romanzi tedeschi di questo periodo emerge la figura del contadino, simbolo dell’uomo più vicino alla natura e capace di porre un limite alla degenerazione della nuova cultura cittadina. Egli però è insidiato, e spesso vittima, dello straniero e in particolare dell’ebreo che sottrae la terra e i beni all’uomo onesto e da secoli insediato in quei luoghi.

Nella Germania dei primi decenni dell’Ottocento si sviluppa anche una riflessione sul concetto di Volk. Il termine tedesco “Volk” che ha una valenza semantica più estesa del corrispondente italiano “popolo”, potendo significare sia “nazione” in senso forte o anche “stirpe”. Verso la fine del secolo XIX il concetto di Volk assume significati nuovi in direzioni oscure, ricche di suggestioni pericolose; ciò coincide con l’affiorare delle correnti di pensiero völkisch, che attribuiscono all’idea di Volk valenze misticheggianti: non solo esso è strettamente legato al Blut (sangue), ma anche non si può entrare a farne parte se non per nascita, è una sorta di entità sovraindividuale, una struttura archetipica, originaria. Non è un coacervo storicamente costituitosi di lingua, tradizioni, costumi, idee, religioni, ma preesiste al divenire storico; di conseguenza non può conoscere evoluzioni positive, non può migliorarsi, può solo degenerare. Compito dei figli migliori e di chi è più cosciente di cosa sia il Volk è, per l’appunto, opporsi in tutti i modi ad ogni sua degenerazione, lavorando per ricostituirne la purezza originaria.

Un filosofo idealista, Fichte, elaborò alcune riflessioni sul Volk e su altre tematiche care al venturo nazismo.

Egli era stato attratto dalla Rivoluzione francese e aveva mantenuto per tutta la vita l’aspirazione alla libertà, ma desiderava che potesse compiersi una perfetta unità tra pensiero e azione: la Rivoluzione aveva portato al Terrore e alla dominazione della terra tedesca. Questa unità era possibile solo nel quadro di una nazione culturalmente e moralmente superiore, nella quale potessero convivere la massima libertà individuale e collettiva nel Volk. Dal momento che solo i Tedeschi hanno, a suo parere, autentiche memorie nazionali, una lingua originaria e superiore affida ad essi il ruolo di educare e guidare gli altri popoli verso la libertà. Egli teorizza lo Stato-nazione ed enfatizza la celebrazione della missione civilizzatrice della Germania su tutti i popoli. Lo Stato è,secondo Fitche, una entità politica e geopolitica; la nazione è una entità culturale e/o etnica. Il termine Stato-nazione o Stato nazionale implica, quindi, la loro coincidenza geografica, rendendolo distinto da altri tipi di Stati che storicamente l’hanno preceduto.

Quando si realizza, allora i cittadini di uno stato condividono linguaggio, cultura e valori, diversamente da quanto può avvenire in altri stati storici. Hitler parla per diversi capitoli nel Mein Kampf dello Stato nazionale come uno degli obiettivi principali del nazional-socialismo La filosofia di Fichte si evolve in senso nazionalistico nei Discorsi alla nazione tedesca. Il tema fondamentale è l’educazione. Egli ritiene che il mondo moderno richieda una nuova azione pedagogica al servizio della maggioranza del popolo e che trasformi la struttura psichica e fisica dell’uomo. Sostiene che solo il popolo tedesco risulta adatto a promuovere la “nuova educazione” in virtù della lingua: i Tedeschi sono gli unici ad aver mantenuto la loro lingua. I Tedeschi sono l’incarnazione del popolo “primitivo” rimasto integro e puro, considerati il popolo per eccellenza. I Tedeschi sono gli unici ad avere una patria, nel senso più alto del termine, e a costituire un’unità organica che si identifica con la realtà profonda della nazione. La Germania risulta “la nazione eletta a realizzare l’umanità fra gli uomini”, divenendo forza trainante per gli altri popoli. Se fallisse, l’umanità perirebbe. Il primato che Fichte assegna ai Tedeschi è di tipo spirituale e culturale. L’interesse ultimo del popolo tedesco è l’umanità intera. Il fine sono i valori etici della ragione e della libertà. I Discorsi alla nazione tedesca diventarono, per questo motivo, un testo che, come la Volontà di Potenza di Nietzsche, furono usati per la costruzione dei grandi miti del nazismo e del Terzo Reich.

L’organizzazione politica e culturale della nazione diventa un’ immagine dell’ordine morale soprasensibile e di Dio stesso. Soltanto i Tedeschi (intesi come tutti i ceppi germanici) possono ricevere la nuova educazione nazionale, dal momento che essi sono i soli a parlare una lingua originaria (o “viva”), nella quale si è conservata una spontanea corrispondenza tra i termini e la realtà, mentre nelle lingue neolatine (che Fichte chiama “morte”) la correlazione tra termine e cosa significata è ormai stereotipata, convenzionale, astratta. Alla vitalità della lingua tedesca fa riscontro quella del popolo che la parla: il solo ormai in grado di trovare una perfetta corrispondenza tra pensiero e azione, il solo capace di subordinare gli interessi individuali a quelli generali. Per questo i Tedeschi sono l’unico popolo nel vero senso della parola, inteso come unità sincronica degli individui nella società nazionale e come unità diacronica delle generazioni nello sviluppo storico. Pur essendo divisi in una miriade di Stati, i Tedeschi sono una sola nazione culturalmente ed idealmente. Il filosofo infatti auspica un organismo politico in cui il compito specifico dello Stato (un’attività di organizzazione totale, che determini l’intera vita politica, sociale ed economica della comunità) non si realizzi più tramite strumenti coercitivi, ma attraverso quella spontanea ed amorosa fusione dell’individuo nella totalità che deve caratterizzare la vita della nazione, il cui elemento unificante è, ancora una volta, considerata da Fitche la condivisione della lingua. Egli sostiene il primato del popolo tedesco basandosi sul presupposto che ciò che costituisce la specificità di una nazione è la condivisione di una stessa lingua. La lingua è lo strumento attraverso il quale la coscienza costruisce la propria spiritualità e la nazione costruisce la propria cultura: noi siamo le parole che utilizziamo. La lingua è sede dell’identità culturale. Il popolo tedesco ha rifiutato sempre ogni forma di contaminazione linguistica con gli altri popoli, sviluppando una forma di spiritualità libera e idealista, ai Tedeschi dunque spetta il compito di civilizzare il resto dell’umanità e trasmettere all’umanità stessa l’antica saggezza originaria.

La teoria razziale di Hitler

In questo contesto storico-culturale l’antisemitismo (termine che ebbe molta diffusione perché di sapore scientifico anche se etimologicamente non avrebbe il significato che ora gli viene comunemente attribuito di ‘pregiudizio o odio nei confronti del popolo ebraico’) diviene il veicolo delle idee nazional-patriottiche, si radica lentamente nelle coscienze tedesche. Nel 1890 tutte le associazioni studentesche austriache e tedesche possono vantarsi di non aver al loro interno alcun ebreo. Dieci anni prima era stata fondata la ‘Lega degli antisemiti’, gli aderenti alla quale ritenevano di combattere gli aspetti negativi della società moderna. L’immagine stereotipa dell’ebreo era quella di un uomo mancante di radici, insensibile, che non possedeva le semplici virtù tedesche né l’anima. Dopo il 1919, con l’acutizzarsi dei problemi interni in seguito alla sconfitta militare, l’antisemitismo crebbe a dismisura giungendo sino ad invocare la soppressione fisica dell’avversario.

Nell’anno di carcere che seguì al fallimento del Putsch di Monaco del 1923, Hitler elaborò un libro destinato a rimanere tristemente famoso, Mein Kampf (La mia battaglia), in cui esponeva le sue idee sul destino della Germania, sulla missione della razza tedesca, sull’indispensabile battaglia da condurre contro il liberalismo, la democrazia, il socialismo e, soprattutto, contro il mondo ebraico. In esso afferma: “Sarebbe umano e naturale che lo Stato ponesse la razza alla base dell’esistenza generale. Lo Stato deve curare che la razza resti incontaminata”

Hitler adottava come punto di osservazione della storia passata e futura il criterio della razza. Le vicende umane erano, a suo giudizio, interpretabili come un eterno conflitto tra le razze superiori, in primo luogo tra la razza ariana, rappresentante di un ideale più elevato di umanità, e le razze inferiori, materialistiche e barbare. Il concetto hitleriano di razza era strettamente biologico-genetico, tralasciando in parte le implicazioni spirituali e morali che pure avevano caratterizzato la cultura völkisch.

 Il movimento völkisch è un’interpretazione tedesca del movimento populista, con un accento romantico sul folclore e. Per populismo si intende la tendenza a idealizzare il mondo popolare come detentore di valori positivi. Il movimento völkisch trova le sue origini nel nazionalismo romantico, nei primi romantici come J. G. Fichte e nei suoi Discorsi alla nazione tedesca. Discorsi alla nazione tedesca in cui, fra le altre cose l’autore aveva detto che l’azione eroica in difesa del proprio Paese dipende dalla “particolare natura spirituale dell’ambiente umano da cui l’individuo nobile, con tutto il suo pensiero e tutta la sua azione… è sorto, cioè dal popolo da cui discende e da cui è stato formato e trasformato in ciò che lui è”. In parte questa ideologia era anche una rivolta contro la modernità, Era il sogno di una vita autosufficiente in un rapporto mistico con la terra; era una reazione all’alienazione culturale della Rivoluzione Industriale e al liberalismo “progressista” della fine del XIX secolo e alla sua banalità materialista urbana. Nella sua evoluzione portò in primo piano l'”adorazione razziale” e, in alcuni circoli, un tipo di antisemitismo collegato al nazionalismo etnico. Le idee dei movimenti völkisch includevano anche principi anticomunisti, anti-immigrazione, anti-semiti.  

L’incrocio delle razze determina il decadimento fisico e spirituale della razza superiore. L’idea cardine, dalla quale derivarono tutte le altre, consiste in una trasposizione sul piano sociale delle teorie darwiniane; Hitler diceva a proposito di ciò: “Il più forte trionfa, perciò non deve esistere compassione verso gli altri, né rispetto per le leggi”. Il fine di tale affermazione è l’ideologia nazista: la realizzazione della purezza della razza, che deve essere ottenuta sia dal punto di vista genetico sia da quello culturale. E’ inutile ricercare quale sia la razza originaria portatrice della cultura umana perché ciò che conta sono i risultati attuali: la razza superiore è quella che riesce a dimostrare d’essere la più forte e la migliore in ogni campo e quella tedesca coincide con la razza ariana.

Il popolo tedesco, in quanto rappresentante più alto e nobile della razza ariana, doveva adempire la sua “missione” di potenza e di dominio: il fulcro del programma hitleriano era costituito dal concetto di “spazio vitale” (Lebensraum), il diritto, cioè, della razza superiore a disporre di territori sufficientemente vasti per le proprie esigenze di crescita e di prosperità, all’interno dei quali altri gruppi etnici avrebbero dovuto vivere in condizione di subalternità. Concretamente Hitler prospettava un’espansione della Germania nell’est europeo. Nel Mein Kampf al capitolo 13 si legge Lo spazio vitale:“La politica estera dello Stato popolare deve salvaguardare l’esistenza su questo pianeta della razza raccolta nello Stato, creando un sistema di rapporti sano, adatto alla vita, naturale nel promuovere la crescita numerica del popolo, la grandezza e fecondità del suolo e della terra.”

… Soltanto il possesso di uno spazio sufficientemente vasto su questa terra assicura ad un popolo la libertà dell’esistenza.

… noi nazionalsocialisti (stabiliamo) il nostro punto di partenza là dove si era conclusa la nostra storia sei secoli fa. Noi arrestiamo l’eterna spinta dei Germani verso sud e verso ovest e rivolgiamo lo sguardo verso oriente…. Se noi parliamo oggi di nuovo suolo e nuova terra in Europa, possiamo pensare soprattutto e soltanto alla Russia ed agli Stati ad essa sottoposti

 In vista di ciò ruolo importante nella sua teorizzazione è anche la cosiddetta “sanità” della razza, come si può leggere ancora nel Mein Kampf: “Il Reich … deve mettere la razza al centro della vita generale. Deve darsi pensiero di conservarla pura. Deve dichiarare che il bambino è il bene più prezioso d’un popolo. Deve fare in modo che solo chi è sano generi figli, che sia scandaloso metter al mondo bambini quando si è ammalati o difettosi…”. Il concetto di stato nazionale viene stravolto dal Führer e trasformato in uno stato eugenetico e razzista, l’identità di lingua e tradizioni non è più soddisfacente se ad esse non si aggiunge perfezione dei fisici e un sangue comune non mischiato con quello di altri popoli. Hitler fa dell’aspetto fisico e della perfezione dell’individuo uno dei punti fondanti della sua ideologia. La conservazione della razza e delle sue caratteristiche genetiche vengono prima di tutto. Mescolare le caratteristiche della razza “superiore” con altre di rango inferiore non porterebbe altro che alla perdita del “modello” perfetto, originario, individuato negli uomini germanici del Nord.

L’altro elemento fondamentale della dottrina hitleriana, come già ricordato precedentemente, è l’antisemitismo. Hitler considerava gli ariani (la razza Germanica) come “creatori di cultura”. Vi erano poi i “portatori di cultura”, costituiti dalle razze ritenute inferiori agli Ariani, che hanno appreso il sapere dagli Ariani e si limitano semplicemente ad usarlo. Infine vi sono i “distruttori di cultura”, individuati nella “razza ebraica” (complotto ebraico-comunista). Egli sosteneva che l’ebreo, una volta arricchitosi, è in grado di influenzare il potere politico contro gli interessi della stessa nazione; se invece l’ebreo non si arricchisce diventa un comunista, per cui in entrambi i casi egli aspira al dominio del mondo. Per Hitler gli ebrei non sono una comunità religiosa ma sono un razza, cioè la razza che vuole rovinare tutte le altre:l’ebreo è il nemico più pericoloso, è cattivo fino in fondo.

Bibliografia

L. Canfora, La Germania di Tacito da Engels al nazismo, Liguori editore, 1979 Napoli

J. G. Fichte, Discorsi alla Nazione Tedesca, trad. di G. Rametta, Laterza, Roma

A.Hitler, La mia battaglia, trad. di B.Revel, Bompiani, Milano 1940

Tacito, Annales, trad di A. Nicolotti, Dante Alighieri Torino 1975

Tacito, Germania, trad di M. Stefanoni, BUR, Milano 1990


Articolo redatto da Cavagnetto Marco della classe VA del liceo classico sotto la supervisione del prof Marco Castelli