La persecuzione dei serbi durante la seconda guerra mondiale fu una serie di violenze e abusi compiuti nei confronti di  questo popolo soprattutto da parte delle milizie locali che collaboravano con le forze nazifasciste. Con lo stato Indipendente di Croazia, quindi sotto il regime degli Ustascia, furono uccise tantissime persone, altre invece furono espulse o fatte convertire al cattolicesimo. Le vittime erano per la maggior parte di etnia serba, ma ce n’erano anche molte ebree. Si stima che durante il governo degli Ustascia le autorità croate uccisero circa 380 000 abitanti di etnia serba di Croazia e Bosnia, i quali vennero internati in campi di concentramento. Tra questi troviamo ad esempio il campo di concentramento di Jasenovac, il campo di Loborgard, quello di Caprag, il campo di concentramento di Arbe… Inoltre un numero imprecisato di serbi e rom furono uccisi al di fuori dei campi e gettati in fiumi, pozzi e altri luoghi.

 

Il campo di concentramento di Arbe fu creato dal comando della Seconda Armata italiana nel luglio del 1942 nell’isola di Arbe (l’odierna Rab) in Croazia ed internò approssimativamente 14 000 persone croate e slovene, divenendo così il più esteso e popolato campo di concentramento italiano per slavi. Inizialmente era prevista la suddivisione del campo in quattro settori, ma all’arrivo dei primi internati erano pronte solo poche baracche. Si trattava di 198 sloveni provenienti dalla Lubiana a cui seguirono altri gruppi di persone, di cui il più grande era composto da da quasi 1200 individui. Con l’inverno la situazione dei campi diventò più difficile, ad esempio le continue piogge provocavano il riversamento del liquame delle latrine e nell’ottobre del ’42 una tempesta distrusse molte tende e alcuni bambini morirono annegati. Per questo motivo si iniziarono a costruire baracche di legno ma, siccome i lavori procedevano lenti, molti internati trascorsero comunque l’inverno al freddo nelle tende e di conseguenza tanti non riuscirono a sostenere queste temperature rigide. 

 

Ad Arbe furono condotte donne, vecchi e bambini, famiglie sospettate di collaborare coi partigiani, residenti in aree sgombrate per la guerra e successivamente gli ebrei. Alla difficoltà del freddo invernale e del vestiario non adeguato si aggiunsero le brutalità da parte di coloro che gestivano il campo, come il colonnello dei carabinieri Vincenzo Cujuli, che si divertiva facendo incatenare a dei pali i prigionieri come punizione. Ad aggravare la situazione era anche la scarsa alimentazione che rese le persone deboli e soggetti a malattie.

 

Nel primo e nel secondo settore del campo furono introdotti i “repressivi”, ossia gli sloveni, invece nel secondo i “protettivi”, ovvero gli ebrei. Infatti, alla fine del 1942 la situazione per gli ebrei peggiorò quando si aggiunsero le persecuzioni naziste alle richieste croate di ottenere gli ebrei nei territori occupati italiani; inizialmente si voleva internarli in locande e alberghi, ma poi si preferì la soluzione del campo di Arbe in cui furono costruite apposite aree per i nuovi ospiti.

Nel Novembre del ’42 il vescovo di Lubiana si era recato dal papa Pio XII per chiedergli di impedire che il campo di Arbe fosse un campo di sterminio. La Croce Rossa jugoslava nel dicembre di quell’anno denunciò la scarsa alimentazione dei campi gestiti dagli Italiani in Jugoslavia e così il Vaticano chiese la liberazione della maggior parte delle donne e dei bambini. Il generale Roatta inviò ad Arbe il generale Giuseppe Gianni, che sottolineò le scarse condizioni fisiche degli internati, dovute specialmente alla scarsa alimentazione e all’abbigliamento non adeguato alle temperature. In seguito quasi tutte le donne vennero evacuate in altri campi in Italia. Il generale Umberto Giglio nel gennaio del ’43 scrisse un resoconto in cui sosteneva la necessità di migliorare le condizioni fisiche degli internati, condizioni causate anche dalle continue violenze subite: grazie a lui dal gennaio di quello stesso anno le razioni di cibo accrebbero sensibilmente.

Numerose sono le stime riguardo le vittime del campo di Arbe  ed una di queste addirittura afferma che il tasso di mortalità annuale superava quello medio del campo di concentramento di Buchenwald.

Dopo l’armistizio dell’ 8 settembre del 1943 il campo fu occupato dai partigiani e molti dei prigionieri scapparono dall’isola, altri invece vi rimasero e così furono catturati durante l’occupazione tedesca. Circa 200 persone riuscirono a raggiungere l’Italia e il comandante Cujuli fu catturato dai partigiani e ucciso, mentre secondo altre fonti morì suicida durante la prigionia.

 

Toccante è la testimonianza di Herman Janez, sopravvissuto al campo di Arbe, che durante un’intervista dice: “Ogni 27 gennaio quando seguo alla TV la giornata della memoria in occasione della liberazione di Auschwitz soffro alla vista delle cataste di cadaveri spinti da un bulldozer verso una fossa comune. Vedete, ogni corpo, ogni individuo ha avuto una propria vita, qualcuno ha nutrito dei sentimenti verso di lui, qualcuno lo aveva amato, e allora non si può far finta di non vedere o di non capire o di essere indifferenti. Ognuno tra di noi deve rendersi conto, che quel corpo poteva essere il corpo di un padre, di un figlio, di una mamma, di qualcuno insomma, verso il quale qualcuno aveva nutrito dei sentimenti. Essere spinti in una fossa comune è la fine di ogni ricordo. Lo stesso successe anche a noi, ai bambini sopravvissuti ai campi di concentramento di Rab . Non vogliamo che la nostra storia venga sommersa dall’oblio, che le nostre sofferenze vengano dimenticate.  La mia storia è una storia soggettiva. Per lunghi anni non ho avuto una visione d’insieme e non sapevo che la mia testimonianza potesse avere anche un valore storico. Poi da noi in Jugoslavia si è preferito scrivere della guerra guerreggiata, delle azioni eroiche ecc. Nessuno aveva voglia di ascoltarci, noi sopravvissuti e allora ho rimosso le mie memorie. Volevo seppellirle. Ma poi sono ritornati i ricordi. L’inconscio è scoppiato e per liberarmi da questa oppressione ho dovuto ricordare, tornare indietro, riunire tutti gli altri sopravvissuti. Quando ci incontriamo, noi non sappiamo parlare di altro, del freddo, della sete, delle baracche e del mondo che ormai non c’è più. C’è un’angoscia in noi, la paura che tutto possa essere dimenticato. Noi dobbiamo tramandare la nostra memoria prima di morire.”

 

Sitografia:

https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/DEP/numeri/n7/Gombac_a.pdf

http://www.storiain.net/storia/in-nome-di-dio-e-della-razza-la-persecuzione-dei-serbi-nella-seconda-guerra-mondiale/

https://www.patriaindipendente.it/

https://it.wikipedia.org/wiki/Campo_di_concentramento_di_Arbe


ARTICOLO REDATTO DA MICHELLE CERRI DELLA CLASSE III A DEL LICEO CLASSICO