Viviamo in un paese in cui le leggi sono tanto numerose quanto violate, infatti la tendenza a non rispettare le regole è piuttosto diffusa. Questo malcostume è un qualcosa che viviamo quotidianamente e che non ci deve solo far indignare momentaneamente o virtualmente. Dobbiamo reagire concretamente, attivarci per cambiare le cose, diffondere e difendere i valori su cui si fonda la nostra storia democratica. Troppo spesso in Italia chi le rispetta viene preso per fesso, deriso, trattato come un alieno, quando dovrebbe essere vero il contrario.

Dovremmo voler bene al nostro territorio, a chi lo abita, e preservarlo, difenderlo da chi vuole rovinarlo, da chi sottrae ogni giorno risorse illegalmente, da chi ruba la speranza e il futuro ai giovani, da chi fa credere loro che è meglio fare i “furbi” che gli “onesti” cittadini. L’amore per la propria Patria non è sventolare semplicemente una bandiera o fare il tifo in occasione dei Mondiali di calcio. La Repubblica Italiana ha bisogno di giovani consapevoli dei principi della Costituzione, che condividano i valori che essa esprime, che si diano da fare ogni giorno per migliorare il Paese in cui vivono con serietà e rispetto delle leggi. Devono poterlo fare basandosi su esempi concreti, su figure adulte che in questi principi credano per prime e si comportino di conseguenza, come lo fu Giorgio Ambrosoli. Egli si batté affinché la battaglia che portò avanti contro la mafia, nonostante i difficili ostacoli incontrati, non fosse vana ma che portasse invece alla vincita su una nemica potente e così radicata che sembra non poter mai essere sconfitta. Con Giorgio, infatti, la mafia incassò un colpo, un duro colpo, anche se il prezzo per l’avvocato fu molto caro. Figlio primogenito di Omero Riccardo e Piera Agostoni, Giorgio Ambrosoli nacque a Milano in via Paolo Giovio e frequentò le scuole elementari in via Crocefisso fino al 1943, quando la famiglia fu sfollata a Ronco di Ghiffia, sul Lago Maggiore, a causa dei bombardamenti. Qui Ambrosoli frequentò elementari e medie, mentre continuò gli studi al Liceo Classico Manzoni a Milano, dove non si distinse per lo studio e fu anche costretto a ripetere l’anno della maturità. Nell’anno accademico 1952-53 Giorgio s’iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza e negli stessi anni s’impegnò attivamente nell’Unione monarchica Italiana, partito politico italiano volto a instaurare in Italia la monarchia costituzionale. Qui conobbe la sua futura moglie Anna Lorenza Goria, per tutti Annalori, che sposò nel 1962 nella chiesa di San Babila e con la quale ebbe tre figli: Francesca, Filippo e Umberto. Dopo alcuni anni di attività, nel 1964, inizia a specializzarsi nel settore fallimentare delle liquidazioni coatte amministrative e viene chiamato a collaborare con i commissari liquidatori della Società Finanziaria Italiana. Il 27 settembre 1974 Ambrosoli fu nominato dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli commissario liquidatore unico della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, nata il 1° agosto dello stesso anno dalla fusione tra la Banca Privata Finanziaria e la Banca Unione, istituti di credito gestiti dallo stesso Sindona, che fu guidata sull’orlo del crack finanziario. 

La vicenda che coinvolse l’avvocato Ambrosoli e il noto banchiere Sindona nacque dall’intricato intreccio tra politica, alta finanza, massoneria e criminalità organizzata siciliana. I sospetti sulle attività del banchiere siciliano nacquero già nel 1971, quando la banca d’Italia inizia ad investigare sul tentativo da parte di Sindona di evitare il fallimento ai propri istituti di credito. L’allora governatore Guido Carli, chiaramente motivato dalla volontà di non provocare il panico nei correntisti, decise di accordare un prestito a Sindona. Tale prestito fu accordato con tutte le modalità e transazioni necessarie e fu incaricato il direttore centrale del Banco di Roma, Giambattista Fignon, di occuparsi della vicenda. Così le banche di Sindona si fusero e prese vita la Banca Privata Italiana, che operava attraverso due soli sportelli, a Milano e a Roma, e di cui Fignon divenne vicepresidente ed amministratore delegato. Ma non appena ne rivestì la carica comprese la gravità della situazione in cui si trovava. Stese numerose relazioni, ricostruì le operazioni gravose e il sistema societario messo in piedi da Sindona e dai suoi collaboratori e ne ordinò l’immediata sospensione. In effetti Sindona, falsificando le scritture contabili e usando la Fasco AG, società aperta nel 1950 in Lichtenstein, come uno schermo per le sue avventure finanziarie, aveva usato indebitamente la liquidità depositata presso le due Banche milanesi, la Banca unione e la Banca privata finanziaria. Eppure nessuno avrebbe mai pensato che un uomo come Michele Sindona potesse arrivare a tanto, ad assumere un così attento controllo sulla finanza italiana. Infatti egli si trasferisce a Milano nel 1946, senza una lira, ospite di un cugino, lasciando a Messina moglie e figlia. Apre uno studio di consulenza tributaria e all’inizio paga l’affitto del suo ufficio “in natura”, offrendo in cambio al proprietario la sua consulenza. Ma diventa in poco tempo il fiscalista più ricercato della città, grazie alla sua specializzazione in elusione fiscale, e anche qualcosa di più. Sindona diventa, per la ricca borghesia milanese in espansione, il mago delle tasse, l’esperto dei conti cifrati in Svizzera, il profeta degli allora pressoché sconosciuti paradisi fiscali. Precorre i tempi aprendo per sé, già nel 1950, una società in Lichtenstein: la Fasco AG, che diverrà il centro segreto del suo impero finanziario. Lo Studio Sindona di via Turati diventa il più importante d’Italia. Negli anni, centinaia di clienti di alto livello gli affidano i loro capitali da nascondere all’estero. E questo gli porta non soltanto ricchezza, ma anche potere, perché è lui ad avere in mano l’elenco, riservatissimo, dei loro nomi, allineati in quella che è stata chiamata la “lista dei 500″, fonte di mille indiscrezioni e mille ricatti”. Sindona aveva riciclato i soldi dei suoi clienti, mafiosi e non, utilizzando lo Ior, azionista della Banca Privata Italiana, come banca offshore (il Vaticano gode di extraterritorialità), e finanziando le società del suo gruppo per fare acquisizioni, come la Franklin Bank. Oppure appostando i fondi in depositi fiduciari presso banche estere compiacenti, per poi riversarli in società estere del suo gruppo. Purtroppo la lista dei cinquecento che, tra politici ed industriali, esportarono grazie alla banca di Sindona, la Finabank, valuta in Svizzera commettendo per ciò un reato, non venne mai ritrovata. L’amministratore delegato del Banco di Roma, Mario Barone, amico d’infanzia di Sindona, venne anche arrestato per non avere rivelato i nomi indicati sulla lista. Ancora oggi, a distanza di anni, non uno di quei nomi è stato mai fatto. In compenso il Banco di Roma, nel cui cda sedevano, oltre a Mario Barone, anche Ventriglia e Guidi, decise di accollarsi l’onere della restituzione, assumendo la gestione delle operazioni di risarcimento e stanziando a tal fine 25 milioni di dollari. Senza alcun clamore i cinquecento evasori, attraverso procedure “veloci e privilegiate”, poterono dunque rientrare in possesso dei loro soldi. 

Ma, anche grazie a Fignon, la situazione riuscì venire a galla, quando nel settembre del 1974, egli consegnò a Giorgio Ambrosoli la relazione sullo stato della Banca. Ciò che emerse dalle investigazioni indusse, nel 1974, a nominare un commissario liquidatore che venne individuato nella figura di Giorgio Ambrosoli. Nel corso dell’analisi svolta dall’avvocato emersero le gravi irregolarità di cui la banca si era macchiata e le numerose falsità nelle scritturazioni contabili. Contemporaneamente a questa opera di controllo Ambrosoli cominciò ad essere oggetto di pressioni e di tentativi di corruzione. Queste miravano sostanzialmente a ottenere che avallasse documenti comprovanti la buona fede di Sindona. Se si fosse ottenuto ciò lo Stato Italiano, per mezzo della Banca d’Italia, avrebbe dovuto sanare gli ingenti scoperti dell’istituto di credito. Sindona, inoltre, avrebbe evitato ogni coinvolgimento penale e civile. Ma Ambrosoli non cedette, nonostante sapesse di correre notevoli rischi e nel 1975 indirizzò una lettera alla moglie in cui scrisse: 

Anna carissima, è il 25.2.1975 e sono pronto per il deposito dello stato passivo della B.P.I., atto che ovviamente non soddisferà molti e che è costato una bella fatica. Non ho timori per me perché non vedo possibili altro che pressioni per farmi sostituire, ma è certo che faccende alla Verzotto e il fatto stesso di dover trattare con gente dì ogni colore e risma non tranquillizza affatto. È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il paese. Ricordi i giorni dell’Umi, le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i partiti: ebbene, a quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito. Con l’incarico, ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del paese, creandomi ovviamente solo nemici perché tutti quelli che hanno per mio merito avuto quanto loro spettava non sono certo riconoscenti perché credono di aver avuto solo quello che a loro spettava: ed hanno ragione, anche se, non fossi stato io, avrebbero recuperato i loro averi parecchi mesi dopo. I nemici comunque non aiutano, e cercheranno in ogni modo di farmi scivolare su qualche fesseria, e purtroppo, quando devi firmare centinaia di lettere al giorno, puoi anche firmare fesserie. Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto [… ] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell’altro.. Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi […] Giorgio” 

Ai tentativi di corruzione fecero presto seguito minacce esplicite e, malgrado ciò, Ambrosoli confermò la necessità di liquidare la banca e di riconoscere la responsabilità penale del banchiere Sindona. Nonostante le minacce di morte, però, al nostro avvocato Ambrosoli non fu accordata alcuna protezione da parte dello Stato, ma potè contare solo sull’appoggio di Ugo La Malfa come referente politico e del maresciallo della Guardia di Finanza Silvio Novembre, che gli fece da guardia del corpo, oltre a essere per lui uno stresso collaboratore e amico fidato. Le minacce non cessavano, come non cessavano le telefonate intimidatorie anonime nelle quali il suo interlocutore gli intimava, via via sempre più in maniera esplicita, di ritrattare la sua testimonianza resa ai giudici statunitensi che indagavano sul crack del Banco Ambrosiano, fino a minacciarlo di morte. Solo nel 1997, nell’ambito del processo al senatore Giulio Andreotti, a Palermo, grazie alle rivelazioni del pentito Giacomo Sino, l’autore delle telefonate anonime fu identificato in Giacomo Vitale, massone, nonché cognato del boss mafioso Stefano Bontate, il quale poi scomparve nel 1989. 

Vale la pena leggere un passaggio della requisitoria di 221 pagine, con cui il giudice Guido Viola accusa Sindona di essere il mandante dell’omicidio Ambrosoli: “E’ una storia di intrighi, di minacce, di estorsioni, di violenze, di intimidazioni, di collusioni con ambienti politici, massonici e mafiosi.. ne scaturisce uno spaccato estremamente inquietante della realtà italiana su cui occorrerebbe attentamente meditare. Di fronte agli sforzi ed alle difficoltà  di quanti erano impegnati a ricercare la verità per assicurare alla giustizia i responsabili di gravi reati, si sono sviluppate spesso manovre occulte, subdole, losche, a volte impalpabili. Finanzieri senza scrupoli, avventurieri della peggiore risma, faccendieri, magistrati poco corretti, mafiosi, esponenti massonici, delinquenti comuni, tutti spinti dalla potenza del denaro e dal germe della corruzione, si sono mossi freneticamente sullo sfondo di questa vicenda. Ma quel che è ancora più grave è il ruolo forse esercitato o solo promesso, nel perfezionamento del piano di salvataggio di Sindona, da taluni esponenti politici di primo piano. Con tali “padrini” Sindona aveva il diritto di sentirsi protetto e sicuro dell’impunità. Un onesto servitore della giustizia, Ambrosoli, fu lasciato solo, l’unico che con Mario Sarcinelli (dg di Banca d’Italia) seppe dire di no ad un piano di salvataggio scandaloso. In un modo o nell’altro entrambi avrebbero pagato con la loro onesta fermezza: l’uno con la vita, l’altro con il coinvolgimento in una allucinante vicenda giudiziaria”. In un clima di tensione e di pressioni anche politiche molto forti, Ambrosoli concluse la sua inchiesta. Avrebbe dovuto sottoscrivere una dichiarazione formale il 12 luglio 1979, ma proprio la sera dell’11 luglio, rincasando dopo una serata trascorsa con amici, Ambrosoli fu avvicinato sotto il portone della sua casa, in via Morozzo della Rocca 1, da uno sconosciuto. Questi si scusò e gli esplose contro quattro colpi di pistola. A ucciderlo fu il malavitoso statunitense William Joseph Aricò, pagato da Sindona con 25 000 dollari in contanti ed un bonifico di altri 90 000 dollari su un conto bancario svizzero; a mettere in contatto Aricò con Sindona era stato il suo complice Robert Venetucci (un trafficante di eroina legato a Cosa Nostra americana) mentre, nei pedinamenti ad Ambrosoli per preparare l’omicidio, Aricò era stato accompagnato da Giacomo Vitale, l’autore delle telefonate anonime.

Ma nonostante il sacrificio estremo con cui aveva pagato la sua onestà e il suo zelo professionale, Giorgio Ambrosoli non ebbe grandi riconoscimenti. Il primo vero omaggio alla figura di Ambrosoli fu il libro di Corrado Stajano, intitolato “Un eroe borghese”, da cui fu tratto nel 1995 il film omonimo diretto da Michele Placido. Inoltre nel 2009 anche Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, pubblicò un suo libro, “Qualunque cosa succeda”, dove ricostruì la vicenda del padre sulla base di ricordi personali, di amici e collaboratori e attraverso le sue stesse agende, da cui fu tratta nel 2014 la mini-serie TV in due puntate mandata in onda su Rai Uno, intitolata anch’essa Qualunque cosa succeda. 

Molti dicono che la mafia non esiste, ma Lei esiste ed è qui in queste strade feroci in cui i lupi fanno la tana e gli agnelli insanguinati tacciono perché hanno più cara la vita di ogni altra cosa. E chiunque voglia cambiare questa realtà, per quanto ci provi, verrà punito, perchè questo paese degli eroi non sa che farsene, se non farli saltare in aria. Ma fortunatamente questi eroi continueranno a nascere, a esistere e a resistere contando solo sulle proprie forze, come fece il grande Giorgio Ambrosoli.

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ARTICOLO REDATTO DA AURORA DE VITA ALLIEVA DELLA CLASSE IV B DEL LICEO CLASSICO

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