Dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti prende piede nei Comuni italiani la tendenza ad incrementare il numero di ruoli ed incarichi appositamente creati per tener dietro alle aumentate necessità della vita urbana. Se da un lato si tratta di ritrovare, ammantandoli con un velo di modernità, tradizionali occupazioni e ambiti di ispezione (dalla pubblica igiene alle disposizioni sui mercati ed il commercio, dalla manutenzione viaria al controllo delle acque, dalla vigilanza del traffico vetturale e animale alla prevenzione degli incendi), dall’altro si assiste allora ad uno sforzo di normazione e disciplinamento dei vari settori e delle rispettive competenze che si fa strada, non senza fatica, fra istanze di decentramento dei poteri e pressioni centraliste. La densità, se non l’efficacia, del controllo è del resto assicurato proprio dalla moltiplicazione degli apparati di vigilanza: a fianco delle forze impiegate dallo Stato con funzioni di poliziai, continuano pertanto a operare i corpi locali, alle dirette dipendenze delle municipalità: guardie boschive e forestali, guardie daziarie, guardie urbane, guardie carcerarie, guardie campestri, guardie portuali e milizia comunale; e poi, a un livello ancor più basso, custodi e vigilanti vari, capisquadra e agenti delle strade ferrate, cantonieri, messi, guardarogge e custodi dei canali patrimoniali, di irrigazione e forza motrice, guardie filosseriche, guardiafili telegrafici, guardapesca, guardie di sanità, pompieri. Per ogni ambito c’è un controllore espressamente deputato, ognuno sulla scorta di specifici articoli di legge, tra rivalità, interferenze e, a volte, colpi bassi.
Se la nomea di poliziotti e carabinieri è tutt’altro che buona, però, quella della polizia locale è persino peggiore: «Quel che l’Italia debbasi attendere da una polizia affidata ai sindaci, quando i poteri dello Stato non si curino di determinare […] le forme ed i sistemi di attuazione, di sorveglianza e di controlleria, […] lo dimostrano le condizioni nelle quali si trova la pubblica sicurezza nelle campagne. […] In molti comuni […] vi sono guardie campestri, ma abbandonate a se stesse, libere da ogni controllo, demoralizzate la maggior parte, non riescono di alcun vantaggio, quando non accrescono il disordine». Similmente, «la polizia municipale manca […] di quegli elementi, senza dei quali non potrà mai riescire: indirizzo fermo […], organizzazione intelligente, severa, adattata alle necessità locali; ben poco di quanto costituisce una buona polizia esiste in oggi, per cui nel mentre i rappresentanti della nazione reclamano discentramento, i cittadini pagano a duro prezzo una polizia locale spesso inerte, scompigliata, senza autorità e senza prestigio»ii.
Perché arruolarsi, allora? A Biella come altrove, com’è facile attendersi, per molte reclute entrare nei corpi di polizia rappresenta una alternativa alla disoccupazione, un posto fisso al riparo dalle ricorrenti crisi economiche, un ruolo, se non prestigioso, comunque dotato di visibilità sociale, magari foriero di quei piccoli o piccolissimi vantaggi che in ogni epoca può comportare il fatto di indossare una qualsivoglia divisa. Non a caso, proprio la questione del vestiario sta al centro di lunghe contrattazioni e di ricorrenti lagnanze. Così, ad esempio, nel febbraio 1889 l’amministrazione si risolve a comprare, «per il caporale delle Guardie campestri, un berretto e un pajo di calzoni di panno»; e poi un berretto, una giubba, un panciotto e un paio di calzoni di panno per la guardia Acquadro e «pel custode del giardino pubblico un abito completo di divisa». Pochi mesi dopo vengono acquistati nuovi impermeabili per le guardie urbane, «resi affatto inservibili i pastrani» presi «molti anni addietro». A dicembre dello stesso anno la guardia campestre Giuseppe Prato viene equipaggiata di un nuovo paio di calzoni, ma il Comune respinge la richiesta avanzata «all’uopo dalle altre guardie perché vennero da meno di un anno provviste di nuovi abiti di divisa». Quando qualcuno viene licenziato spesso si incarica il Sindaco proprio «perché provveda al sollecito ricupero degli abiti di divisa»iii. In ogni caso bisogna fare i conti con le esigue risorse dei bilanci e perciò far rattoppare o rivoltare un cappotto è spesso soluzione preferibile ad un nuovo acquisto. Nel corso dell’anno 1884 l’amministrazione spende per la polizia urbana 3.800 lire per gli stipendi e 480 per le divise, più 2.940 lire tra emolumenti e vestiario della polizia rurale. Ad onta delle tante richieste, ricompense e incentivi vengono concessi di rado, per cui deve ritenersi fortunato Vittorio Avandero, capo delle guardie urbane, ex sergente e veterano della campagna del ’66, che nel marzo del 1887 riceve una gratifica di 18 lire per l’assistenza straordinaria al servizio delle «piccole distillerie»iv. Ci sono però delle circostanze in cui non si può discutere: nel 1878 Pietro Cantone, pompiere, fa richiesta per un risarcimento di 10 lire per «gli oggetti di vestiario e di letto già di uso della propria bambina morta di vajolo, dei quali per misura di pubblica igiene venne ordinata la distruzione»v.
Quanti uomini si trovano alle dipendenze del Comune di Biella? Nel 1887 ci sono quattro cantonieri, tre o quattro guardie campestri, un messo, un accalappiacani, due custodi e cinque guardie urbanevi. Tre anni dopo le guardie urbane sono salite a sei e scopriamo anche l’elenco della milizia comunale, composta da 19 uomini (una guardia carceraria, quattro finanzieri, un impiegato delle poste e 13 impiegati delle ferrovie)vii. A dispetto di quanto potrebbe apparire a una prima osservazione, nei quadri amministrativi questa pletora di mansioni e di impieghi che genericamente si possono ricondurre nell’alveo delle varie attività di polizia locale (controllo a bassa intensità e tutela dell’ordine pubblico in ogni suo più minuto aspetto) si configura in una rete di ruoli e compiti spesso sovrapponibili in modo indifferente. Non esistono percorsi lavorativi prefissati, tranne rare eccezioni. Così i ranghi dei pompieri paiono attingere con preferenza a falegnami e carpentieri, mentre esiste senza dubbio, in sede di reclutamento iniziale, una sorta di slittamento facilitato per gli uomini
provenienti dalle fila dell’esercito o dell’Arma, in pensione o a fine carriera. Federico Marabelli, carabiniere per otto anni, diventa agente del dazio di Biella e, da ultimo, guardia campestre per il Comune di Chiavazzaviii.


Al concorso per guardiano della roggia del Piazzo, nel 1879, si presenta Giovanni Battista Grosso, carabiniere in congedo; c’è anche Pietro Cantone, che ha da poco perso la figlia e promette «zelo, puntualità, dilicatezza». Al concorso del 1885 per due posti di guardia urbana troviamo, fra gli altri, Giuseppe Galoppi, di Arezzo, già carabiniere e poi per sei anni guardia municipale a Venezia, e Giuseppe Ferretti, di Alessandria, che ha fatto per cinque anni la guardia doganale, quindi è stato assunto come operaio a Biella, ma «trovando i lavori di fabbrica non troppo giovevoli alla propria salute, desidererebbe essere ammesso ad occupare uno dei posti vacanti». Tre anni dopo, nel 1888, per un impiego nella polizia campestre, fanno domanda, tra i tanti, Guido Rena, nativo di San Germano Vercellese, che ha già fatto la guardia di P.S., la guardia campestre e il serviente comunale, e Antonio Gomerro, il quale a suo merito può vantare il grado di caporale in fanteria ed il fatto di avere «un fratello che presta servizio come guardia da foco in questo Municipio»; da quasi sei mesi si trova senza lavoro e perciò «è bisognosissimo»ix.
Difficilmente, però, riusciremmo a trovare strategie ricorrenti o traiettorie obbligate. Pietro Bocca, già pompiere, diventa guardia campestre e chiede la restituzione del deposito di 90 lire a garanzia della sua ferma: dal momento che si tratta «di passaggio da un servizio all’altro sotto la dipendenza» del Municipio di Biella, la Giunta accoglie il ricorsox. D’altra parte esiste già il precedente di Lorenzo Acquadro, il quale prima d’essere una guardia campestre (per vent’anni, dal 1854 al 1874) fa il guardarogge, e prima ancora ha militato dieci anni nei carabinieri. Nel novembre del 1874 Acquadro ha appena compiuto 60 anni, si sente in perfetta forma fisica e chiede all’amministrazione di prolungargli la ferma, anche perché senza impiego «si vedrebbe esposto alla più cruda miseria e costretto a morire di fame e di freddo». Giuseppe Regis passa da camparo al più tranquillo ufficio di custode del giardino pubblico. Giuseppe Prato, invece, nella sua trentennale carriera al servizio dell’amministrazione (dal 1844 al 1875), dapprima fa il cantoniere, poi la guardia campestre, e tra una riconferma e l’altra è sorvegliante della roggia del Piazzo, «canneggiante» nel periodo in cui si costruisce la ferrovia Biella-Santhià e «indicatore» quando si compila il piano regolatore cittadinoxi. Giuseppe Rossetti alla fine degli anni ’70 svolge il compito di guardia daziaria (nel gennaio del 1878 si distingue, fra l’altro, nel corso di un’operazione di controllo in casa di Felice Gallia, negoziante di vino in via Maestra: «lui urtava per prendermi [il barile di vino sequestrato] ed io tenevo quanto poteva perché non me lo strappasse dalle mani, quindi lasciò il barile e mi afferrò per il collo con tutte e due le mani, cioè una per davanti e una per didietro del collo ed io faceva sforzi con il corpo onde liberarmi dalle sue strette e gli dissi mi strangoli pure ma io non lascio il barile!»xii), poi, nel 1888, oramai quarantasettenne, in occasione del citato concorso comunale per guardia campestre, si dichiara «pratico conoscitore tanto di Biella che del suo territorio, per aver servito per dieci anni circa la Società esercenti in qualità di agente»; viene scartato e tuttavia l’anno dopo lo ritroviamo commesso municipale per la riscossione dei diritti di piazza e peso piccolo nei mercati del Piazzoxiii. Anche le modalità di assunzione variano notevolmente: nel 1885 Paolo Cavallin, quarantenne di Treviso, è nominato guardia urbana in seguito a concorso scritto e orale; invece Angelo Beltramo, che ha 21 anni, ottiene il posto di cantoniere comunale perché lo “eredita” da suo padre, Alessandro.


Sussidi e pensioni d’anzianità costituiscono un notevole problema, non solo per le croniche difficoltà finanziarie in cui si dibatte il Comune di Biella, ma anche perché non esiste purtroppo una prassi uniforme. All’ex guardia campestre Lorenzo Acquadro viene confermato il sussidio mensile di cinque lire nel marzo del 1887xiv, però la guardia urbana Giuseppe Viola, inabile al servizio in seguito ad un infortunio, viene licenziata senza possibilità di aiuti economici (gli si lasciano «tutti quei capi di vestiario che crederà conveniente»xv). Il sopra menzionato Giuseppe Prato, trovandosi «nell’età avanzata di anni 52 senza professione», chiede, senza successo, di essere reintegrato nei quadri della polizia rurale. Il cantoniere Alessandro Beltramo, già guardia civica e dal 1872 messo comunale, nel 1887 «in considerazione della sua tarda età, dei lunghi servizi prestati […] e dell’infermità agli occhi da cui fu colpito», dà le dimissioni presentando la domanda per un sussidio; viene invece mandato a fare il bidello alle classi elementari nel chiostro di San Sebastianoxvi.
Entrare in corpo di polizia locale oppure assumere una funzione di vigilanza per conto del Comune è, insomma, una scelta professionale caratterizzata almeno soggettivamente da bassi salari, modeste possibilità di promozione e limitate risorse a disposizione per garantire l’ordine e lo svolgimento dei compiti assegnati. Bisogna affrontare la mancanza di fiducia dell’opinione pubblica e, sovente, di parte delle stesse istituzioni, si deve sostenere l’ostilità popolare e sopportare le lagnanze degli amministratori e della stampa. Quando, nel maggio del 1889, le autorità di P.S. chiedono di anticipare la chiusura dei locali pubblici alla mezzanotte per agevolare il servizio notturno di sorveglianza, l’amministrazione comunale di Biella risponde scrivendo che il pattugliamento «lascia non poco a desiderare»xvii. Nel Conto Morale del 1884 si legge che, se il servizio della guardia urbana non ha dato luogo a inconvenienti, la condotta della guardia campestre è stata pessima e ha costretto il Sindaco a «prendere gravi e disgustosi provvedimenti». Giacomino Massaja si dimette da guardia civica per «non poter più oltre resistere le insolenze dell’accalappiacani» e perché ha cercato un altro impiego «onde più tranquillo passare la sua vita senza essere sempre in littigi per servizio». Camillo Fava, invece, si licenzia in gran fretta e «con maniere del tutto inadeguate, lasciando il servizio per recarsi ove il destino [lo] consiglia», a causa di una donna con la quale convive more uxorio da undici anni: «Sono stati per me undici anni di castigo – spiega – […] e pensai di finirla col fuggire»xviii. Gli episodi spiacevoli sono numerosi. Nel 1885 il caporale delle guardie campestri Rocco Botto-Steglio, querelato dal macellaio Marcello Colombo (lo stesso che una decina di anni prima ha assalito delle guardie daziarie «alzando le mani in atteggiamento di dar dei pugni»xix), viene accusato di estorsione e di abuso di potere e il Comune lo priva dello stipendio per l’intera durata del processo, sospendendolo sine die dal servizioxx. Nel dicembre 1890 il pompiere Pietro Rubeo viene licenziato perché abbandona il suo posto di lavoro «senza darne il dovuto avviso a chicchessia»xxi; pochi mesi prima fa la stessa fine un suo collega, il capo-drappello Carlo Masserano, che si è presentato «al servizio del Veglione nel Teatro Sociale in istato di ubbriachezza»xxii. Pietro Borrione, guardia carceraria di 58 anni, viene accusato di favoreggiamento nell’evasione di un giovane di Graglia, mentre la guardia notturna Emilio Bono è addirittura imputato per furto nei magazzini della stazione ferroviaria, nel 1895. Alle volte anche i soggetti più promettenti finiscono male. Dopo quattro anni di servizio, la guardia urbana Paolo Cavallin, il trevisano, sulla scorta del rapporto stilato dal suo superiore, Vittorio Avandero, è esonerato per avere lasciato il servizio «spontaneamente». Dopo un periodo di «vita disordinata e riprovevole», è fuggito da Biella «senza avvertire alcuno […] per sottrarsi al soddisfacimento dei numerosi debiti che ha contratto in questa Città»xxiii.

(articolo pubblicato: “Rivista Biellese”, XVIII, 3, 2014)

Prof. Massimiliano Franco