Siamo nei pressi di Agincourt prima di una battaglia decisiva. Le forze in campo non sono proporzionate: i Francesi sono molti di più rispetto agli Inglesi. Pertanto l’esercito di Enrico V è abbattuto, ha il morale come si suol dire “sotto le scarpe”, sa che una vittoria è impossibile in quelle condizioni: combattere su un suolo straniero contro un esercito molto più numeroso e attrezzato. E allora Enrico V parla e fa un discorso straordinario. Risponde ad alcuni, fra cui suo cugino, che rimpiangono il non essere in un numero maggiore. Leggiamolo:

 

«Chi è mai che desidera questo? Mio cugino Westmoreland? No, mio caro cugino. Se è destino che si muoia, siamo già in numero più che sufficiente; e se viviamo, meno siamo e più grande sarà la nostra parte di gloria.
In nome di Dio, ti prego, non desiderare un solo uomo di più. Anzi, fai pure proclamare a tutto l’esercito che chi non si sente l’animo di battersi oggi, se ne vada a casa: gli daremo il lasciapassare e gli metteremo anche in borsa i denari per il viaggio.
Non vorremmo morire in compagnia di alcuno che temesse di esserci compagno nella morte.
Oggi è la festa dei Santi Crispino e Crispiano; colui che sopravvivrà quest’oggi e tornerà a casa, si leverà sulle punte sentendo nominare questo giorno, e si farà più alto, al nome di Crispiano.
Chi vivrà questa giornata e arriverà alla vecchiaia, ogni anno alla vigilia festeggerà dicendo: “Domani è San Crispino”; poi farà vedere a tutti le sue cicatrici, e dirà: “Queste ferite le ho ricevute il giorno di San Crispino”. Da vecchi si dimentica, e come gli altri, egli dimenticherà tutto il resto, ma ricorderà con grande fierezza le gesta di quel giorno. Allora i nostri nomi, a lui familiari come parole domestiche – Enrico il re, Bedford ed Exeter, Warwick e Talbot, Salisbury e Gloucester – saranno nei suoi brindisi rammentati e rivivranno questa storia. Ogni brav’uomo racconterà al figlio, e il giorno di Crispino e Crispiano non passerà mai, da quest’oggi, fino alla fine del mondo, senza che noi in esso non saremo menzionati; noi pochi.
Noi felici, pochi.
Noi manipolo di fratelli: poiché chi oggi verserà il suo sangue con me sarà mio fratello, e per quanto umile la sua condizione, sarà da questo giorno elevata, e tanti gentiluomini ora a letto in patria si sentiranno maledetti per non essersi trovati oggi qui, e menomati nella loro virilità sentendo parlare chi ha combattuto con noi questo giorno di San Crispino!».

 

Ecco il genio del grande scrittore, qual è Shakespeare. Il grande drammaturgo, così come il grande scrittore, il grande poeta, ma il grande artista in genere, riesce ad universalizzare un particolare rendendolo “interessante” per tutti. È ovvio che in questo caso Shakespeare non vuole semplicemente farci conoscere ciò che accadde quel lontano 1415 sul suolo francese, bensì ci vuol far capire che molte volte anche noi, nei gangli della nostra vita, ci troviamo in quel 1415, su quel campo e nei pressi di Agincourt.
Ma vediamo più precisamente quali temi di riflessione Shakespeare ci offre.
Prima di tutto egli ci dice che la dimensione eroica è un tratto caratterizzante dell’uomo. Di cosa l’uomo ha davvero bisogno? Di avvertire la pancia piena o piuttosto di sentirsi dentro una dimensione più grande, che è quella di offrirsi totalmente per una causa? Enrico V lo dice chiaramente: coloro i quali sono rimasti nel proprio letto e nelle proprie comodità senza rischiare la vita non sono dei privilegiati. I privilegiati sono loro che hanno la possibilità di scolpire i loro nomi nella perennità della memoria. Coloro i quali oggi si sentono dei privilegiati, o si crede che lo siano, un giorno rimpiangeranno di non essere lì tra loro. Di non essere lì al freddo, di non essere lì a rischiare la vita, di non essere lì a combattere perché si realizzi un ideale. Se ci pensate bene, cari lettori, basterebbe già questo discorso per smontare tutto quel “riduzionismo biologista” che oggi va molto di moda, ovvero che l’uomo altro non è che il suo corpo, che il suo spazio sarebbe solo qui, che le sue scelte e i suoi pensieri altro non sarebbero che effetto di fredde pulsioni di meccanismi neuronali. Se così fosse, l’uomo non saprebbe andare oltre i propri istinti, fra cui anche quello di conservazione, e spingersi fino al sacrificio totale di sé.


E qui veniamo ad un secondo punto. Gli Inglesi sono molto di meno dei Francesi, ma Enrico V sottolinea la grandezza di quell’essere “pochi”: «Noi felici, pochi. Noi manipolo di fratelli: poiché chi oggi verserà il suo sangue con me sarà mio fratello, e per quanto umile la sua condizione, sarà da questo giorno elevata, e tanti gentiluomini ora a letto in patria si sentiranno maledetti per non essersi trovati oggi qui, e menomati nella loro virilità sentendo parlare chi ha combattuto con noi questo giorno di San Crispino!». La dimensione eroica sicuramente deve tararsi sulla virtù della prudenza, altrimenti sarebbe un inopportuno tentare la Provvidenza; ma è anche vero che la situazione contingente, così come la misura dell’ideale da perseguire e per cui lottare, possono, alle volte, costringere al superamento di qualsiasi valutazione prudenziale. Si sa che Dio molte volte permette nella vita dell’uomo delle prove che sembrano (attenzione: sembrano!) impossibili, e lo fa affinché chi le vive senta il bisogno di invocarLo e di pregarLo. Inoltre, la sproporzione esalta l’intervento di Dio stesso. L’esempio che viene in mente è quello di Davide contro Golia. Addirittura il futuro Re decise di non indossare nemmeno l’armatura, la sentiva pesante, in essa si avvertiva impacciato, e concluse dicendo che solo Dio sarebbe stata la sua forza e la sua protezione.
L’ultimo punto è il più importante. Quello che Shakespeare fa dire al suo Enrico V è un vero e proprio “manifesto” contro quella menzogna che avrebbe dominato nella tarda modernità, ovvero che la dimensione religiosa costringerebbe l’uomo nella piccolezza. Nietzsche pone la dimensione religiosa nel modello dell’uomo-cammello, cioè di quell’uomo che sarebbe incapace ad affrontare coraggiosamente la vita e che quindi sceglierebbe la religione come sistema protettivo, come espediente per giustificare la sua viltà. Shakespeare, figlio di altri tempi (molto più seri), fa capire il contrario.

 

È come se ribadisse le parole di san Paolo ai Filippesi: «Io tutto posso in Colui che mi dà la forza». Enrico V infonde coraggio (lui stesso era passato da una vita sfaccendata ad una vita di responsabilità) appellandosi al giorno in cui sono chiamati a combattere: la festa dei santi Crispino e Crispiano. E insiste su questa coincidenza temporale, quasi a voler far capire che in quel frangente si avvicendano forze naturali e soprannaturali; c’è la Provvidenza che guida. Dalle parole del Re è chiaro quanto la prospettiva dell’eterno è ciò che spinge l’uomo a superare i propri limiti.


Henry V was one of the great warrior kings of medieval England, famous for his victory against the French at the Battle of Agincourt.

Henry was born in 1386 or 1387, the son of the future Henry IV. He was created prince of Wales at his father’s coronation in 1399. He showed his military abilities as a teenager, taking part in the Battle of Shrewsbury in 1403. He then spent the next five years fighting against Owen Glendower’s rebellion in Wales. He was also keen to have a role in government, leading to disagreements with his father.

Henry became king in 1413. In 1415, he successfully crushed a conspiracy to put Edmund Mortimer, Earl of March, on the throne. Shortly afterwards he sailed for France, which was to be the focus of his attentions for the rest of his reign. Henry was determined to regain the lands in France held by his ancestors and laid claim to the French throne. He captured the port of Harfleur and on 25 October 1415 defeated the French at the Battle of Agincourt.

Between 1417 and 1419 Henry followed up this success with the conquest of Normandy. Rouen surrendered in January 1419 and his successes forced the French to agree to the Treaty of Troyes in May 1420. Henry was recognised as heir to the French throne and married Catherine, the daughter of the French king. In February 1421, Henry returned to England for the first time in three and half years, and he and Catherine went on a royal progress round the country. In June, he returned to France and died suddenly, probably of dysentery, on 31 August 1422. His nine-month-old son succeeded him.


What’s he that wishes so?

My cousin Westmoreland? No, my fair cousin:

If we are mark’d to die, we are enow

To do our country loss; and if to live,

The fewer men, the greater share of honour.

God’s will! I pray thee, wish not one man more.

By Jove, I am not covetous for gold,

Nor care I who doth feed upon my cost;

It yearns me not if men my garments wear;

Such outward things dwell not in my desires:

But if it be a sin to covet honour,

I am the most offending soul alive.

No, faith, my coz, wish not a man from England:

God’s peace! I would not lose so great an honour

As one man more, methinks, would share from me

For the best hope I have. O, do not wish one more!

Rather proclaim it, Westmoreland, through my host,

That he which hath no stomach to this fight,

Let him depart; his passport shall be made

And crowns for convoy put into his purse:

We would not die in that man’s company

That fears his fellowship to die with us.

This day is called the feast of Crispian:

He that outlives this day, and comes safe home,

Will stand a tip-toe when the day is named,

And rouse him at the name of Crispian.

He that shall live this day, and see old age,

Will yearly on the vigil feast his neighbours,

And say ‘To-morrow is Saint Crispian:’

Then will he strip his sleeve and show his scars.

And say ‘These wounds I had on Crispin’s day.’

Old men forget: yet all shall be forgot,

But he’ll remember with advantages

What feats he did that day: then shall our names.

Familiar in his mouth as household words

Harry the king, Bedford and Exeter,

Warwick and Talbot, Salisbury and Gloucester,

Be in their flowing cups freshly remember’d.

This story shall the good man teach his son;

And Crispin Crispian shall ne’er go by,

From this day to the ending of the world,

But we in it shall be remember’d;

We few, we happy few, we band of brothers;

For he to-day that sheds his blood with me

Shall be my brother; be he ne’er so vile,

This day shall gentle his condition:

And gentlemen in England now a-bed

Shall think themselves accursed they were not here,

And hold their manhoods cheap whiles any speaks

That fought with us upon Saint Crispin’s day.


Ce jour est appelé la fête de saint Crépin :
celui qui aura survécu à cette journée et sera rentré chez lui sain et sauf
se redressera sur ses talons chaque fois qu’on parlera de ce jour,
et se grandira au seul nom de saint Crépin.
Celui qui aura vu cette journée et atteint un grand âge,
chaque année, à la veille de cette fête, traitera ses amis
et dira : C’est demain la Saint-Crépin !
Alors, il retroussera sa manche, montrera ses cicatrices
et dira : J’ai gagné ces blessures le jour de saint Crépin !
Le vieillard oublie; mais il aura tout oublié
qu’il se rappellera encore avec emphase
ses exploits dans cette journée. Alors nos noms,
familiers à toutes les bouches comme des mots de ménage,
le roi Henry, Bedford, Exeter,
Warwick, Talbot, Salisbury et Gloucester,
retentiront fraîchement au choc des coupes écumantes.
Le bonhomme apprendra cette histoire à son fils.
Et la Saint-Crépin ne reviendra jamais,
d’aujourd’hui à la fin du monde,
sans qu’on se souvienne de nous,
de notre petite bande, de notre heureuse petite bande de frères !
Car celui qui aujourd’hui versera son sang avec moi
sera mon frère ; si vile que soit sa condition,
ce jour l’anoblira.
Et les gentilshommes aujourd’hui dans leur lit en Angleterre
regarderont comme une malédiction de ne pas s’être trouvés ici,
et feront bon marché de leur noblesse, quand ils entendront parler
de ceux qui auront combattu avec nous au jour de la Saint-Crépin !



SANTI CRISPINO E CRISPINIANO


Il 25 ottobre si celebra la festa di San Crispino e San Crispiniano. Sono due martiri che in passato godevano di molta popolarità, come del resto avveniva per tutti i santi protettori dei mestieri e delle attività artigianali.

San Crispino e Crispiniano, stando a quanto si dice nei racconti agiografici, erano due fratelli di origine romana appartenenti ad una famiglia altolocata che ad un certo punto della loro vita decisero di farsi cristiani e di dedicarsi al Signore diffondendo il Vangelo e così, secondo la tradizione, di giorno
predicavano e pregavano Gesù Cristo mentre di notte lavoravano per vivere. Come mestiere scelsero, umilmente, di fare i calzolai.

Da Roma si trasferirono in Gallia allora terra di missione, per diffondere la fede cristiana e stabilirono la loro dimora a Soissons, dove, sempre stando ai racconti agiografici, fecero tanti proseliti ed ottennero molte conversioni.

Dopo alcuni anni di soggiorno in Francia, nel 287, furono scoperti e condotti davanti al Prefetto del Pretorio, Rictius-Varus, acerrimo nemico del Cristianesimo. Furono sottoposti a torture ma poiché le sopportarono con molta fermezza e non rinunciarono alla fede cristiana, furono condannati a morte e decapitati. Nel Medioevo il loro culto divenne assai popolare tant’è vero che fiorirono numerosi racconti sulla loro vita: secondo una tradizione inglese vissero per un certo periodo a Faversham, nel Kent mentre, stando invece ad una Passio dell’VIII secolo, furono sepolti nella Basilica dei SS. Giovanni e Paolo sul Celio, a Roma (notizia assolutamente non attendibile e priva di fondamento ma ricorrente nei racconti agiografici che vogliono dare particolare rilievo ad un santo).

Diventarono patroni dei calzolai e dei ciabattini. In alcune località si distingue fra Crispino, protettore dei calzolai e Crispiniano, dei ciabattini. Sovente, per estensione, proteggono tutti i lavoratori del cuoio, sellai, guantai, conciatori. Nell’iconografia popolare si tende a raffigurare Crispino con le fattezze di un giovane e Crispiniano con quelle di un uomo attempato. La raffigurazione più comune li presenta intenti al lavoro, su alcune immaginette devozionali mentre stanno facendo degli improbabili zoccoli (quello stesso tipo di calzature, solitamente in legno, che compaiono nelle immaginette di Natale, specie francesi).

Si può trovare anche l’iconografia di San Crispino divisa da quella di Crispiniano. Una tradizione veneta, ad esempio, non menziona San Crispiniano mentre lega la figura di Crispino al vino ed ai bevitori di vino, (ottobre è il periodo in cui si fa l’operazione della svinatura) ed inoltre si storpia il nome in Graspin facendolo diventare il patrono degli ubriachi.
In onore di San Crispino e Crispiniano, furono commissionate in tutte le principali nazioni europee numerose pale d’altare dalle gilde dei mestieri, soprattutto fra il XVI ed il XVII secolo, e furono eretti anche diversi edifici sacri in loro onore (in realtà a Soissons esisteva già una basilica intitolata ai due santi fin dal VI secolo).
Anche a Torino, nel XVI secolo, venne commissionata allo Spanzotti una pala dedicata ai due santi da collocare nel Duomo della città, nella cappella dei calzolai dove si trova tuttora. Nel dipinto sono raffigurati, fra l’altro, gli episodi salienti della vita dei due martiri.

Nel mondo contemporaneo la devozione nei confronti di questi due santi appare alquanto ridimensionata e rimane più un interesse storico che religioso tenendo conto del fatto che comunque sono raffigurati su diverse opere di cui alcune, come quella appena ricordata, collocate ancora in edifici sacri. In realtà quanto avviene nel caso di questi due santi si verifica a proposito di quasi tutti gli altri santi patroni dei mestieri.