La Grande Guerra si è conclusa da meno di un anno. Sulla base del Patto di Londra del 26 aprile 1915, la città istriana di Fiume, di popolazione e lingua italiana, rimane sotto l’amministrazione alleata pur con la presenza di truppe presidiarie italiane. Nell’ottobre 1918 in città si costituisce un Consiglio Nazionale che spinge per ottenere l’annessione all’Italia e nell’aprile dell’anno successivo nasce una Legione Fiumana di volontari con lo scopo di difendersi dal contingente francese, filo jugoslavo, stanziato in città. Le manifestazioni della popolazione in favore dell’italianità costringono Parigi a prendere provvedimenti anche nei confronti di alcuni militari sovversivi, tra cui i Granatieri di Sardegna, allontanati dalla città.

 

 

Il reparto lascia Fiume il 25 agosto 1919 per ritirarsi a Ronchi, dove alcuni di loro, chiamati “Sette Giurati di Ronchi”, promettono di tornare a Fiume e chiedono aiuto a Gabriele D’Annunzio per rivendicarne l’italianità. In un clima politico fatto di incertezze, prevale la passione politica del Vate, che  decide di intervenire promettendo il proprio arrivo a Ronchi per il 7 settembre. In ritardo di qualche giorno, a causa di un’improvvisa febbre, il comandante tenente colonnello D’Annunzio raggiunge la cittadina e da qui, a bordo di una Fiat 501 e seguito dai camion dei Granatieri, parte per Fiume. Non trovando molta resistenza, fermato solo da alcuni bersaglieri che si uniscono alla colonna, prosegue spedito sino a Cantrida.

 

Qui viene bloccato da uno sbarramento: il generale Pittaluga tenta di farlo desistere dall’azione. Ma il poeta continua la sua marcia ed entra a Fiume intorno alle 12.30 del 12 settembre 1919. Viene accolto in città con gli onori militari da una folla festosa che vede l’impresa come un nobile gesto di difesa nei confronti di tutti quegli Italiani fiumani che non vogliono passare per nessun motivo sotto il governo croato. Poco tempo dopo, il governo italiano inizia a temere che dalle vicende istriane possa derivare un grave sconvolgimento politico, con un conseguente  stravolgimento del nuovo ordinamento statuale. Si cerca di trattare con D’Annunzio, ma non ottenendo risposte, il commissario straordinario Pietro Badoglio lancia un ultimatum che, ignorato, fa sì che la città venga posta sotto assedio militare. D’Annunzio fermo sulle sua posizioni dà vita alla “Reggenza Italiana del Carnaro“. Rifiutata la proposta del Trattato di Rapallo, in cui sia l’Italia che la Jugoslavia si impegnavano a garantire e a rispettare l’indipendenza dello Stato libero di Fiume, la città, con il suo poeta,  si trova a combattere in quello che verrà ricordato come il Natale di Sangue, al termine del quale, vista la sconfitta, D’Annunzio firma la resa.

Gabriele d’Annunzio era un mito mondiale già prima della Grande Guerra: come poeta, scrittore, drammaturgo, seduttore, amante, dandy, sperperatore, eversore di costumi e mode. Dopo la guerra, era anche un eroe riconosciuto persino dai nemici, umiliati dalle sue imprese beffarde, propagandistiche e coraggiose, la beffa di Buccari, il Volo su Vienna… Molti si chiedevano cosa avrebbe fatto, scoppiata la pace, il poeta guerriero ormai cinquantacinquenne.

Lui, semplicemente, conquistò una città, come un condottiero rinascimentale, tenendola per sedici mesi, primo – e ultimo – poeta al comando di uno stato nella storia dell’umanità.

Fiume, oggi Rijeka, faceva parte del dissolto Impero Austro-Ungarico, e benché avesse una maggioranza di popolazione italiana, i trattati di pace l’avevano assegnata alla nascente Jugoslavia.


 

Il 12 settembre 1919 il Vate, ormai chiamato anche «il Comandante», la occupò alla testa di 2000 «legionari», per lo più granatieri che furono dichiarati disertori dallo stato Italiano, ma che in seguito riceveranno onori e medaglie.

L’impresa, o epopea, di Fiume fu un avvenimento tale che ogni altro Paese ne farebbe un avvenimento epico e mitico. Noi l’abbiamo nascosta sotto il tappeto della storia, sospettandola – a torto – di essere la progenitrice del fascismo. C’è solo da sperare che il prossimo centenario contribuisca a metterla nella giusta luce: ci saranno numerose iniziative, in parte organizzate dal Vittoriale degli Italiani, e un mio libro.

Gli aspetti da raccontare e mettere in luce sono moltissimi, dalla politica internazionale a quella nazionale, dalla rinascita della pirateria (con la quale d’Annunzio sosteneva la città assediata) a straordinari protagonisti. Qui, anche in vista dell’anniversario del maggio 1968, provo a delinearne uno dei più singolari e meno esplorati.

In tutta Europa le avanguardie videro nel gesto del poeta l’atto ideale del libertario che taglia i ponti con la tradizione e getta il guanto di sfida dei tempi moderni. Da Berlino il Club Dada gli inviò un telegramma, celebrando in lui il simbolo di un modo nuovo di concepire la politica e la vita stessa. Tra i firmatari compariva George Grosz: il pittore rivoluzionario, nonostante le sue simpatie per lo spartachismo comunista, esaltava l’impresa dannunziana. Non fu il primo né l’ultimo. Una massa disorganica, ribollente di sognatori, libertari e idealisti – provenienti da esperienze svariate e stimolati da furori (…)

(…) ideologici talvolta di segno opposto – accorse a Fiume vedendovi l’atto spregiudicato capace di disintegrare l’intero sistema di valori della vecchia Europa.

Anche se la molla che aveva spinto il Comandante e i suoi adepti era una rappresaglia patriottica o nazionalistica, si sperava che l’ordine costituito – fatto di compromessi, diplomazie e machiavellismi, sempre a scapito dei Paesi più deboli – avrebbe ceduto alla pressione di energie vitali quanto libere. Negli sbandati e irregolari convenuti sotto le insegne dannunziane, sembrava si manifestasse la volontà di una generazione che, superata la prova della Grande Guerra, intendeva appropriarsi del futuro e modellarlo secondo le sue aspirazioni. Convinti che, dopo l’immensa carneficina, l’esistenza non potesse essere più la stessa, repubblicani, arditi, sindacalisti, anarchici, socialisti, nazionalisti si trovarono uniti nella convinzione che l’esercito liberatore di cui facevano parte avrebbe plasmato un nuovo ordine.

Mario Carli, protagonista dell’avventura fiumana e direttore del giornale futurista La testa di ferro, espresse bene l’anelito di «un sogno di ribellione che attendeva impaziente l’ora e l’occasione di dare un calcio monumentale alle mille tradizioni muffite che tuttora governano la vecchia Italia». Da «città olocausta», come l’aveva definita all’inizio, Fiume divenne, secondo le direttive del Comandante, la «Città di Vita» dove tutto era lecito, anche e soprattutto quello che la mentalità dei bigotti e dei benpensanti giudicava immorale. Claudia Salaris – che all’avventura dannunziana ha dedicato un libro dal titolo quanto mai appropriato, Alla festa della rivoluzione – ha scritto che Fiume incarnò «una sorta di piccola controsocietà, con idee e valori non propriamente in linea con quelli della morale corrente, nella disponibilità alla trasgressione della norma, alla pratica di massa del ribellismo». Uno spirito rivoluzionario e anticonformista animava i legionari, in tutto circa diecimila, che vissero la loro stagione di intemperanze con un vitalismo e un’esuberanza mai visti prima.

I giovani accorsi da ogni parte d’Italia per inseguire il miraggio della libertà, in molti casi erano mossi, più che da argomentazioni politico-ideologiche, da fantasie e aspirazioni che la vita quotidiana, schiacciata dagli ingranaggi della produttività borghese, considerava velleità inutili e perniciose: «Fiume rappresentava per molti», ha scritto Emilio Gentile, «la prosecuzione del clima di festa, cioè di sospensione delle regole normali e di annullamento delle dimensioni usuali fra realtà e sogno, fra realismo e idealismo, fra arte e vita, fra letteratura e politica, fra rivoluzione e avventura».

Era una mentalità che doveva molto, o quasi tutto, allo stesso d’Annunzio. Da decenni l’Italia era governata da una classe politica preparata, seria, ma lontana anni luce dalle esigenze, dai comportamenti, dai miti che si insinuano nel costume moderno, soprattutto nelle grandi città industriali del Nord; che culturalmente vive ancora nelle arcadie pascoliane, nei classicismi del Carducci e dei suoi epigoni residuali e che continua a emozionarsi per le letture deamicisiane, propinate ai fanciulli sui banchi di scuola.

Per d’Annunzio la causa fiumana simboleggiava la sublimazione della lotta contro una realtà meschina e perpetuava la passione dell’ardimento e della ribellione. Sembrava possibile elevare al potere la fantasia creatrice, modellare senza inibizioni una propria immagine di società ideale in cui i rapporti tra gli uomini fossero svincolati dal formalismo per essere guidati dalla spontaneità e dalla libertà, a partire dall’abbigliamento e dall’aspetto: «Alcuni avevano la barba e si rapavano a zero la testa in modo da somigliare al Comandante», scrisse un osservatore straniero, «altri si erano lasciati crescere enormi ciuffi di capelli, lunghi mezzo piede, che ondeggiavano dinanzi alla fronte, e indossavano, in equilibrio, esattamente dietro la testa, un fez nero. Mantelli svolazzanti e sovrabbondanti e cravatte nere erano universali e tutti – comprese alcune donne – avevano con sé il gladio».

Autorizzati a ogni forma di trasgressione, i legionari realizzarono in quei mesi di disordinata euforia aspirazioni che, mezzo secolo dopo, avrebbero inseguito i sognatori del Sessantotto: protesi, come i loro inconsapevoli predecessori, all’utopia generazionale della rivoluzione, della provocazione, della lotta insieme beffarda e aggressiva contro le ipocrisie convenzionali del loro tempo. «Me ne frego», ripetevano per sbeffeggiare i moralizzatori, presenti anche a Fiume, citando un motto dannunziano che avrebbe avuto grande fortuna durante il fascismo, come l’inno Giovinezza giovinezza.

Molti legionari si drogavano, alcuni andavano in giro nudi per la città, orge e pratiche omosessuali erano comuni quanto frequenti. I più vivevano nell’ostentazione della loro differenza, offrendo chi un eterodosso campionario di dandismi e raffinatezze decadenti, chi il copione dannunziano dell’eroismo e del bel gesto. Il tratto dominante era la sfrenatezza, un contagio che esaltò tutti in un’eccitazione collettiva. Nino Valeri, uno dei reduci di Fiume, parlò di «una febbre fatta, nei più risoluti, di orrore per la vita dura e grigia di tutti i giorni, di disprezzo per gli ordini costituiti, di disinteresse per il passato e per l’avvenire, di irridente spregio per la virtù e per il risparmio, per la famiglia, per gli avi, per la religione, per la monarchia e per la repubblica: di nichilistica aspirazione, in fondo, di finirla in bellezza questa inutile stupida vita, in una specie di orgia eroica». L’arte si faceva gioco, la politica diventava bellezza scanzonata e acrobazia.


Un samurai tra gli Arditi: Shimoi Harukichi    https://www.youtube.com/watch?v=KIB1x18rQFU


A buon diritto d’Annunzio poté entusiasmarsi per avere plasmato la sua città ideale. Intorno a sé aveva figure bizzarre e fuori dall’ordinario, uomini d’azione, idealisti senza niente da perdere, milionari in cerca di emozioni e giovani che si presentavano a lui come davanti a un oracolo. «La sorte mi ha fatto principe della giovinezza sulla fine della mia vita», mormorò un giorno, beato.

Un campione esemplare fu Guido Keller. Nato da una famiglia aristocratica svizzera, i Keller von Kellerer, era stato pilota della squadriglia di Francesco Baracca. Massone, di aspetto luciferino, nero di barba e capelli arruffati, era circondato da un alone leggendario grazie alle sue imprese di armi e di sesso. Per la sua passione naturistica e istrionica, si era costruito una casetta su un albero, amava passeggiare nudo sulla spiaggia e si divertiva a terrorizzare coppiette girando con le pudende in bella vista per boschetti e giardini. Omosessuale dichiarato, il suo obiettivo era sconvolgere bigotti e beghine con ogni mezzo. Divenne il pupillo del Comandante, che lo fece entrare nel suo gabinetto come «segretario d’azione», e gli concesse l’ambìto permesso di dargli del tu, estasiato dalle sue attività stravaganti quanto dalle sue imprese di uomo d’azione. Per la difesa personale del Comandante istituì una «Compagnia della Guardia» costituita dagli elementi più indisciplinati, quelli che a Fiume non avevano neppure voluto esibire un documento; presto il gruppo, divenuto disciplinatissimo, assunse il nome «La Disperata», che avrà grande successo nello squadrismo fascista. Fu Keller l’uomo che, d’accordo con d’Annunzio, volò su Montecitorio per lanciare un significativo pitale. Morì a trentacinque anni, nel 1929, in un incidente stradale, e d’Annunzio volle che fosse sepolto al Vittoriale, vicino alla propria tomba.

Un suo amico era Giovanni Comisso. Il futuro scrittore, non ancora venticinquenne, aveva scelto Fiume come la patria ideale per sfogare i suoi edonismi eccentrici. Stanco della vita cittadina, e in anticipo sui figli dei fiori, vuole saggiare un’esistenza condivisa con pochi amici e ritirarsi nella solitudine agreste, a contatto panico con la natura: «Si mangia il miele, la frutta matura del mese, latte e burro. Alla sera sotto la pergola. Stiamo sulla cima di un colle, sopra un torrente. Alla notte si va a girare nei boschi pieni di usignoli, si dorme sotto gli alberi. È veramente una vita senza pari e mai sperata che potesse esser attuata per il mio corpo». Insieme a Keller, Comisso fonda Yoga, un’«Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione». Né partito, né vero e proprio movimento politico, Yoga era un’aggregazione di creativi che concepivano scherzi, burle, azioni dimostrative, per mettere alla berlina gli amanti dell’ordine e della disciplina. Con vero spirito dada, sfidavano le «più o meno idiote tavole di valori» che la gente per bene definisce «morale». Il gruppo Yoga combatté anche, con grande anticipo, un guasto linguistico-concettuale dei nostri tempi, in cui abbondano le indistinte «persone» e scarseggiano gli «individui»: uno dei loro scopi dichiarati era «iniziare una potente lotta contro le persone, una lotta che sarà vinta dagli individui».

Oltre ai personaggi importanti contagiati dall’impresa dannunziana – Filippo Tommaso Marinetti, Guglielmo Marconi, Arturo Toscanini – a Fiume vanno anche Ricciotto Canudo, lo stravagante scrittore pugliese allora di gran moda a Parigi, e Marcello Gallian, talento della letteratura italiana, che a diciotto anni scappa dal convento dove ha preso i voti semplici e raggiunge l’idolo d’Annunzio. Non fu la sua ultima utopia, visto che alla fede dannunziana subentrerà quella in un fascismo anarchico e socialisteggiante a cui immolerà la propria buona fede e le proprie disperate energie di letterato. Caduto il regime, la cultura antifascista non glielo perdonerà e Gallian, condannato dalla congiura del silenzio, vivrà vendendo sigarette nel piazzale della Stazione Termini, a Roma. C’è molto di Gallian nell’epica fiumana. Un entusiasmo viscerale, vissuto senza risparmio, e un delirio della ragione.

Anche il clero e l’esercito davano scandalo. In città c’era un convento di cappuccini modernisti, che da tempo chiedevano un rinnovamento della Chiesa e che – trascinati dall’euforia generale – uscirono allo scoperto chiedendo di poter eleggere i superiori, il controllo sui fondi dell’ordine e addirittura l’abolizione del celibato. Quando da Roma arrivò un’ispezione punitiva, i cappuccini esposero alla finestra del convento una bandiera con il motto che d’Annunzio ha riscoperto per Fiume, «Hic manebimus optime». Sette frati lasciarono l’ordine. Ufficiali decorati dal Comandante passano le notti a giocare a carte e, durante i voli, fiutano cocaina senza limiti, secondo un’abitudine presa durante la guerra. D’Annunzio lo sa e lascia fare, la cocaina non era proibita, a quei tempi. Anche lui si è dato alla droga, sia pure non ancora con i ritmi e le quantità degli ultimi anni al Vittoriale. La «polvere folle» lo rigenera in quei mesi senza respiro, e fra i suoi seguaci c’è chi lo biasima. Simili censure erano fuori luogo, a Fiume.

Nonostante i numerosi postriboli, per strada prostitute e signorine disinibite si contendevano i legionari. Un delirio di accoppiamenti disimpegnati si propagò nella città in amore, insieme al dilagare di malattie veneree. Persino d’Annunzio fu costretto a richiamare i suoi ufficiali a una condotta più controllata. In un’occasione lo fece con toni di complice confidenzialità, che Comisso ha riportato così: «Ò una cosa da dire a voi giovani (…). Ed è strano che proprio io ve la debba dire, io che ò subito così potentemente l’impero della giovinezza, ma posso dirla, poiché da quando sono a Fiume, vivo in una castità francescana, mentre voi, voi sorpassate tutti i limiti». Visto il pulpito da cui veniva lanciata tale reprimenda, fu disattesa senza esitazioni. Nessuno credeva alla «castità francescana» di Gabriele, e a buona ragione.

D’Annunzio si negò l’esperienza omosessuale, che invece imperversava tra incontri saffici e orge tutte al maschile. Comisso scrisse che il Comandante: «Un giorno dalla finestra del suo ufficio vide gli arditi che se ne andavano due a due presi per mano verso la collina», e compiaciuto li indicò dicendo: «Guardate i miei soldati, se ne vanno a coppie, come la legione tebana». Lo stesso Gabriele non ci teneva a mostrarsi virilmente marziale: «Ho marciato cinque ore coi fanti, su per i monti», scrisse a un’amante. «Sono passato su prati pieni di violette. Ho legato i rami di mandorlo e di pesco alle lance delle bandiere. Ho visto l’adorazione negli occhi dei soldati, l’adorazione e la felicità». E in un discorso disse: «Ieri, nel ritorno, i battaglioni erano così fioriti che sembravano giardini incedenti, orti avanzanti». Contagiati dall’esempio, i legionari anticipavano di mezzo secolo il sogno hippy mettendo fiori nelle canne dei fucili.

Non si trattava solo di comportamenti individuali, badate. Era lo stesso apparato «statale» di Fiume a anticipare norme e comportamenti che si possono paragonare soltanto ai sogni del Sessantotto.

Il Comandante – insieme al belga Léon Kochnitzky, poeta di scarso talento ma di fantasia fervidissima, e al sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris – fondò una «Lega di Fiume», per raccogliere i rappresentanti dei popoli oppressi, dei Paesi danneggiati dalla Conferenza di Versailles e di tutte le fazioni politiche, anche extraeuropee, in linea con il programma sociale che si intendeva applicare nella città. La Lega si contrapponeva alla Società delle Nazioni, definita da d’Annunzio un «complotto di ladroni e di truffatori privilegiati».

La Carta del Carnaro, invece, era la costituzione che avrebbe garantito il governo democratico e rivoluzionario di Fiume. Il testo rivoluzionario, promulgato l’8 settembre 1920, esprime insieme la personalità politica di De Ambris e quella oracolare di d’Annunzio, teso a renderlo anche una creazione culturale. In entrambi c’era la volontà di farne un esperimento avveniristico, un esempio per futuri Stati svincolati sia dal liberalismo parlamentare sia dal presidenzialismo statunitense. Se un modello c’era, era quello della Serenissima e del cantonalismo svizzero, da cui si traeva l’ispirazione per una democrazia diretta e per la convivenza multietnica. Alla base della vita sociale c’era il cittadino, mentre si voleva annullare o diminuire «la centralità soverchiatrice» dello Stato, «cosicché dal gioco armonico delle diversità sia fatta sempre più vigorosa e ricca la vita comune». Lo Stato è «la volontà comune e lo sforzo comune del popolo verso un sempre più alto grado di materiale e spirituale valore».

Sviluppando l’essenza del socialismo radicale europeo, la Carta dannunziana fa impallidire molti testi costituzionali vigenti oggi nel mondo, per l’apertura democratica e per l’avanzata spregiudicatezza di molti suoi assunti, che oggi definiremmo libertari. La parità dei sessi veniva stabilita come un dogma inderogabile, ogni cittadino era elettore e eleggibile a partire dai venti anni. I comuni godevano di grande autonomia e nelle scuole tutte le etnie avevano diritto all’insegnamento nella propria lingua, riconosciuta dallo Stato. L’istruzione primaria era gratuita, la Reggenza poneva «alla sommità delle sue leggi la coltura del popolo», e vietava qualsiasi insegnamento religioso e politico nelle scuole. Veniva garantita l’assistenza sociale per malattia, invalidità, disoccupazione, vecchiaia. I lavoratori erano inseriti (a grande maggioranza rispetto ai datori di lavoro) in un sistema corporativo che doveva porre fine al dissidio padroni-oppressori e proletari-vittime. Il corporativismo della Carta del Carnaro, «nulla ha in realtà a che fare», ha scritto Renzo De Felice, «nello spirito e nella sostanza, non solo con il corporativismo cattolico, ma anche con il corporativismo e con i programmi di riforma politico-sociale fascisti». Era un corporativismo che intendeva sul serio proteggere i più deboli. Anche gli studenti avevano il diritto di eleggere i propri rappresentanti, insieme ai docenti.

Specialmente un articolo mise nel panico gli industriali e gli armatori fiumani o che sostenevano dall’esterno d’Annunzio; pur riconoscendo il diritto alla proprietà, lo vincolava alla sua utilità sociale: «Lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la più utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può essere lecito che tal proprietario infingardo la lasci inerte o ne disponga malamente, ad esclusione di ogni altro».

Alcuni principi – nati dal culto di d’Annunzio per la bellezza e l’arte – davano grande importanza alla creatività individuale e collettiva. Tre articoli erano pensati ex novo dal Comandante: «Nella Reggenza del Carnaro la Musica è una istituzione religiosa e sociale», in quanto «esaltatrice dell’atto di vita, dell’opera di vita». Un secondo articolo prevedeva la costituzione di un collegio di architetti e urbanisti con il compito di curare la salubrità delle case, difendere il paesaggio e le bellezze urbanistiche e allestire feste pubbliche. Rivoluzionario è, soprattutto, l’articolo sulle «credenze religiose»: niente a che fare con le religioni, bensì con la magnificenza della vita e l’etica del dono e del lavoro, che deve essere una «fatica senza fatica», vera realizzazione delle energie creatrici dell’uomo.

E che dire del nuovo ordinamento dell’esercito? Venne addirittura abolito «ogni comando intermedio fra l’Esercito e il Comandante». Convinto che «l’arte di comandare è di non comandare», d’Annunzio stabilì che le decisioni più importanti sarebbero state prese da un Consiglio militare costituito da tutti gli ufficiali, il cui capo sarebbe stato eletto dal Consiglio stesso.

L’impresa dannunziana, però, stava per concludersi. Il 12 novembre 1920 il governo italiano firmò con quello jugoslavo il Trattato di Rapallo, che per il momento risolveva la questione adriatica. Roma si assicurava la sovranità su Zara e alcune isole mentre Fiume sarebbe stata, per il momento, una città indipendente. Nel 1924 passerà all’Italia – difficilmente sarebbe avvenuto senza il gesto di d’Annunzio – finché il fascismo la perse con la sconfitta nella Seconda guerra mondiale.

Il Comandante ricevette un ultimatum da Giovanni Giolitti, capo del governo, in dicembre. Alla scadenza le truppe guidate da Caviglia avanzarono. Alle 18 del 24 dicembre i primi presidi legionari caddero senza molta resistenza. Il 26, dopo la tregua natalizia, la nave da guerra «Andrea Doria» si avvicinò alla riva e colpì il palazzo del Governo con due granate calibro 152. Una era diretta proprio alla finestra dello studio di d’Annunzio, al secondo piano, e centrò in pieno il cornicione, uccidendo un granatiere di guardia. Alcuni calcinacci finirono sulla testa del poeta, che ne trasse altra linfa per la retorica del soldato inarrestabile anche davanti alla morte.

Aveva promesso di uscire da Fiume solo cadavere, ma la resa fu un atto dovuto, non un segno di codardia. Nell’ultima cena con i suoi collaboratori più stretti aveva detto: «Compagni, vi giuro che avevo pensato di morire. Avevo preparato la mia anima e dentro di me il sacrificio era già compiuto. Ma dopo le cannonate fratricide, ho capito che questa Italia non valeva tanto». Il 31 lanciò ai legionari rimasti con lui fino all’ultimo un commosso «alalà funebre».

«Nudi alla meta», aveva detto d’Annunzio in una delle sue innumerevoli arringhe, aggiungendo che: «Chi s’arresta è perduto» e intimando di «Marciare non marcire»: slogan che ricompariranno presto sui muri delle case durante un ventennio del quale il poeta era stato un inconsapevole precursore, insegnando a Mussolini che era lecito ribellarsi allo Stato anche con le armi e a considerare il Capo un demiurgo capace di cambiate la vita di tutti e la patria. Mussolini imparò, dalla lezione di Fiume, che era possibile sfidare con la forza la classe dirigente liberale e metterla in crisi facendo ricorso alla retorica del patriottismo. Vittorio Emanuele III, da parte sua, dovette rendersi conto di non poter contare sulla totale fedeltà dell’esercito, constatazione che ebbe un peso rilevante nei giorni della marcia su Roma. Come ha scritto Emilio Gentile, l’ideologia realistica di Mussolini «era assolutamente estranea al fervore morale, allo spirito libertario ed autonomista» di Fiume. Dal fiumanesimo i fascisti presero solo l’apparato esteriore, aggiungendovi il manganello e l’olio di ricino. E mai si sarebbe sentito, durante il regime, il saluto finale che d’Annunzio lanciò dal balcone: «Viva l’Amore! Alalà!».

In quell’esperienza aveva trasfuso tutti i suoi ideali di bellezza e libertà senza freni, in un crescendo di passioni e di novità che volevano estendere allo Stato il proprio progetto esistenziale: creare un’opera d’arte. Il poeta sconfitto aveva seminato nel mondo un seme violento, audace e contagioso per la gioventù di una generazione di sognatori esaltati, per una serie di epigoni che tenteranno di raccogliere la sua impossibile eredità. Ora poteva ritirarsi a Gardone per ideare la sua nuova impresa, il Libro di Pietre Vive: il Vittoriale degli Italiani.

Giordano Bruno Guerri