HOST VENTURI, Giovanni. – Nacque a Fiume, il 24 giugno 1892, da Francesco e Francesca Mandich.

Ottenuta la licenza di scuola media, si specializzò in odontotecnica. Partecipò come volontario, con il grado di capitano degli alpini e poi degli arditi, alla Grande Guerra, nel corso della quale si guadagnò tre medaglie d’argento al valore. Nell’immediato dopoguerra, l’H. fu tra i principali ideatori e organizzatori della marcia di Ronchi del settembre 1919, che portò all’occupazione di Fiume da parte di G. D’Annunzio.

Il 29 ott. 1918 si era costituito a Fiume un Comitato nazionale, poi Consiglio nazionale, presieduto da A. Grossich, che aveva solennemente auspicato l’annessione della città all’Italia. Nel novembre, reparti di truppe italiane, i granatieri di Sardegna, al comando del generale E. Asinari di San Marzano, di cui l’H. era aiutante di campo, erano state inviati a presidiare Fiume; quando San Marzano dovette sloggiare le truppe irregolari croate che vi si erano insediate, fu l’H. a trattare con i loro capi l’abbandono della città. La costituzione del Consiglio nazionale, composto soprattutto da elementi che si battevano per l’annessione all’Italia, fece in modo che la conferenza di Versailles si affrettasse a inviare a Fiume reparti francesi, britannici e statunitensi perché si unissero alle truppe italiane, per rendere ancor più manifesto che gli Italiani erano in quella città semplicemente nella veste di truppe agli ordini del Comando interalleato.

L’arrivo degli Alleati convinse l’H. a dare subito avvio alle manovre per favorire l’annessione di Fiume all’Italia. A questo fine si giovò della collaborazione di Grossich e di G.B. Giuriati, allora presidente dell’Associazione Trento e Trieste, mentre i collegamenti con B. Mussolini a Milano erano tenuti da E. Susmel.

L’idea di una cospirazione che risolvesse con la forza la questione di Fiume era maturata da tempo fra alcuni esponenti dell’irredentismo fiumano e, sin dall’aprile 1919, l’H. aveva reso noto a Giuriati un piano di tale natura. Inoltre, l’H. e Grossich avevano cominciato a sondare la disponibilità di alcuni autorevoli personaggi a mettersi a capo del progetto; in particolare l’H. aveva preso contatti con Peppino Garibaldi e con l’ammiraglio U. Cagni.

Nel maggio 1919, l’H. si recò a Milano per incontrare Mussolini, dal quale ottenne promesse d’appoggio; subito dopo, auspice Giuriati, vi furono a Roma diversi incontri con D’Annunzio. Nel frattempo, per mantenere vivo il clima di tensione tra le truppe italiane e quelle degli Alleati, l’H. andava reclutando, nell’Istria e nella Venezia Giulia, gruppi di irredentisti riunendoli nel Battaglione volontari fiumani, la cosiddetta Legione fiumana, la quale prese definitivamente forma tra il marzo e il maggio 1919, anche se la comunicazione ufficiale della sua costituzione avvenne il successivo 12 giugno; il corpo nasceva come arma necessaria a far precipitare la crisi fiumana.

 

Nel giugno 1919 vi erano stati tra l’H., Giuriati, Grossich, E. Coselschi e D’Annunzio diversi incontri a Roma, al Grand hôtel, dove il “vate” alloggiava, al termine dei quali era stato raggiunto un accordo di massima sul tentativo sedizioso. In luglio, Giuriati e l’H. si occuparono soprattutto di definire l’organizzazione della Legione stanziata vicino Fiume, in una località di importanza strategica. L’occasione per tentare il colpo di mano prese l’avvio dopo che, a causa di alcuni sanguinosi incidenti occorsi tra truppe italiane e francesi tra il 29 giugno e il 6 luglio 1919, una commissione di inchiesta interalleata, inviata a Fiume, aveva deciso di sfoltire le truppe italiane con l’allontanamento di alcuni reparti di granatieri. La decisione di passare alla fase operativa coincise con la partenza dei granatieri, condotta a termine nella terza decade dell’agosto 1919.

Da tempo, sin dall’ottobre precedente, l’H. aveva stabilito rapporti cospirativi strettissimi con l’alta ufficialità del corpo dei granatieri, molti dei quali, nonostante gli ordini contrari, erano rimasti nei pressi di Fiume, stabilendosi a Ronchi, continuando a mantenere rapporti segreti con l’H. e con gli altri membri della cospirazione, e garantendo una loro rilevante partecipazione all’imminente sedizione. Messo in preallarme dall’H., alla fine di agosto D’Annunzio si era trasferito a Venezia, da dove aveva continuato a mantenere contatti operativi con lui e con altri elementi di spicco della vita politica fiumana.

Nella notte tra l’11 e il 12 sett. 1919 D’Annunzio entrava a Fiume, mentre il Battaglione dei volontari fiumani, come da accordi presi in precedenza, gli si faceva incontro. Nell’ottobre, in sostituzione del precedente, veniva eletto il nuovo Consiglio nazionale della città che nominò l’H. rettore alla Difesa nazionale di Fiume, carica che, nella prosa dannunziana, era equiparata a quella di ministro della Difesa; egli fu tra gli elementi più attivi e rappresentativi del governo fiumano.

L’H. faceva parte del Comitato per le rivendicazioni nazionali, presieduto da O. Sinigaglia, e aveva preso la parola al comizio antinittiano, tenutosi a Roma il 29 giugno 1919, concluso con il tentativo, frustrato, di portare la manifestazione davanti alla residenza romana di F.S. Nitti; fu, quindi, nella delegazione che, nell’aprile 1920, si recò nella capitale per trattare con il presidente del Consiglio la fine, o quanto meno l’allentamento, dell’embargo a cui il governo italiano aveva sottoposto la città. Nel luglio di quell’anno, l’H., insieme con A. De Ambris, firmava un promemoria indirizzato al Parlamento italiano in risposta a una petizione molto critica nei confronti dell’occupazione di Fiume presentata da R. Zanella, deputato fiumano autonomista, contrario all’annessione.

Tra il giugno e il luglio del 1920, insieme con Giuriati, l’H. avviò, inoltre, una serie di incontri segreti con croati, montenegrini e albanesi per sondare le possibilità di una campagna concertata che mirasse a “impedire il consolidamento della così detta Jugoslavia” (Giuriati, p. 159).

Nel corso delle trattative si era giunti a stabilire le modalità e la data di una azione militare antiugoslava che avrebbe dovuto essere intrapresa dalle minoranze ostili al predominio serbo sul nuovo Regno, ma il trattato di Rapallo (12 nov. 1920) era giunto a stroncarne la realizzazione.

Come ministro della Difesa della Reggenza del Carnaro l’H. fu tra i firmatari del cosiddetto “patto di Abbazia” (31 dic. 1920), che poneva fine a Fiume all’esperienza dannunziana stabilendo la cessazione delle ostilità e le modalità di sgombero da parte dei legionari. Fu, quindi, confermato nella sua carica da Grossich, cui il Consiglio nazionale di Fiume aveva dato mandato di costituire un nuovo governo. Ricoprì questo ruolo fino al 2 luglio 1921, quando il governo Giolitti, dimissionario, nominò A. Bassignano comandante di tutte le forze italiane a Fiume e quindi indirettamente responsabile anche dell’ordine pubblico.

Oscillanti furono inizialmente i rapporti dell’H. con il fascismo: iscrittosi, il 1° ott. 1920, ai fasci di combattimento aveva cessato di partecipare alle attività del fascio fiumano nel 1922 perché, nonostante il divieto del direttorio fascista, aveva deciso di prendere parte ai lavori della Costituente fiumana, insediatasi il 5 ott. 1921, nella cui minoranza l’H. era stato eletto mentre la maggioranza era nelle mani del partito autonomista di R. Zanella.

L’H. si era anche preoccupato di riorganizzare il corpo dei legionari dannunziani sbandati, integrandolo con i numerosi fascisti che nel frattempo avevano raggiunto Fiume alla spicciolata; nel febbraio 1922, egli si rese protagonista di una serie di violenze ai danni di cittadini e forze dell’ordine. Ostile all’egemonia zanelliana, l’H. aveva poi preso di nuovo a complottare per organizzare un altro colpo di mano di orientamento nazionalista e annessionistico, che trovò un’eco anche nei rapporti diplomatici italo-iugoslavi.

Tuttavia, dopo la marcia su Roma (28 ott. 1922), si mostrò in linea con lo spirito collaborativo con cui Mussolini intendeva improntare i rapporti con la Iugoslavia sulla questione di Fiume. L’H. lavorò, infatti, alla “normalizzazione” del fascio fiumano, con l’allontanamento di alcuni dei più scalmanati sostenitori della soluzione annessionistica; questo atteggiamento più moderato favorì, nel gennaio 1923, il suo ritorno alla testa della Milizia nazionale fiumana.

L’H. diresse la segreteria della Federazione fascista di Fiume dal 15 nov. 1925 al 24 maggio 1928, e fu commissario straordinario di quella di Pola dal 1° apr. al 24 maggio 1926. Il suo odio nei confronti della Iugoslavia negli anni successivi rimase comunque inalterato; ne dà testimonianza un suo articolo apparso su Gerarchia (Il porto di Fiume) nel settembre 1927, dove non esita ad auspicare una futura guerra alla Iugoslavia al fine di regolare in modo più favorevole all’Italia le clausole del trattato di Roma e restituire in tal modo slancio all’economia fiumana la quale, a suo avviso, soffriva soprattutto a causa dell’avvenuta divisione del porto di Fiume – in forza degli accordi italo-iugoslavi del 1924 -, con l’attribuzione di Porto Barros al Regno iugoslavo.

Fu consigliere nazionale del Partito nazionale fascista (PNF) e, dal 1934 al 1935, membro della Corporazione della previdenza e del credito; dal gennaio 1935 all’ottobre 1939, fu sottosegretario alla Marina mercantile presso il ministero delle Comunicazioni, all’epoca retto da A.S. Benni.

La sua nomina era, da parte di Mussolini, un modo di bilanciare l’influenza del ministro – industriale, a lungo presidente della Confederazione generale dell’industria (Confindustria) – con un elemento proveniente dalla gerarchia fascista. Come sottosegretario alla Marina mercantile l’H. fu tra coloro che più contribuirono al consolidamento della Società finanziaria marittima (Finmare) che copriva il settore marittimo nell’ambito dell’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI).

Il 31 ott. 1939 venne chiamato a sostituire Benni alla guida del ministero delle Comunicazioni.

Si trattò di un rimpasto ministeriale che servì a Mussolini per allontanare i “tecnocrati” che fino ad allora avevano avuto in mano i dicasteri economici più importanti. La decisione venne presa nel clima della polemica cosiddetta “antiborghese” e non fu estraneo alla decisione di Mussolini l’approssimarsi della guerra. A dirigere tali delicati settori egli volle chiamare personaggi più organici al PNF, elementi più fidati, uomini della “rivoluzione fascista”, e l’H. era sicuramente tra questi, anche se, come scrisse G. Ciano, era pure antitedesco al “cento per cento”. Evidentemente nella scelta dell’H. finì per prevalere in Mussolini l’apprezzamento di un’incrollabile fedeltà al fascismo piuttosto che di un’ambigua sintonia con l’alleato tedesco.

L’H. restò al ministero delle Comunicazioni fino al 6 febbr. 1943, quando venne sostituito dal senatore V. Cini, anche questa volta a seguito di un massiccio rimpasto governativo che vide l’allontanamento di fascisti autorevoli. Furono determinanti in quella decisione le pesanti sconfitte militari e l’approssimarsi dell’invasione del territorio nazionale da parte degli Alleati.

Dei tre settori concernenti le Comunicazioni – Ferrovie dello Stato, Poste telegrafi e telefoni e Marina mercantile – quello che più impegnò l’H. come ministro fu la Marina mercantile, per il ruolo preminente che era chiamata a svolgere nello sforzo bellico. Il suo successore Cini confidò in seguito a G. Bottai di aver trovato in condizioni disastrose i trasporti, “in ispecie marittimi” (Bottai, p. 368); tuttavia non si può concludere che le responsabilità di ciò risalissero esclusivamente alla conduzione dell’H., il quale pagò per il pessimo andamento della guerra e per la penuria di risorse finanziarie che impedivano al governo di investire per il reintegro delle forti perdite subite dalla flotta mercantile. Inoltre, il dirigismo mussoliniano degli eventi legati alla guerra rappresentò per i dicasteri interessati un intralcio non indifferente. D. Grandi racconta, per esempio, che la dichiarazione di guerra del giugno 1940 fu tenuta nascosta anche al responsabile di un ministero così importante ai fini bellici come quello delle Comunicazioni. Alle proteste vivaci che l’H. indirizzò a Mussolini per questa decisione improvvisa “che permetteva al nemico di impossessarsi di una quantità cospicua del nostro tonnellaggio mercantile” (Grandi, p. 586), Mussolini rispondeva rassicurandolo che i giorni successivi egli avrebbe riavute le navi triplicate dal bottino di navi inglesi e francesi.

Fino alla caduta del fascismo l’H. non ricoprì più cariche prestigiose, né di governo né di partito (venne solo nominato membro della Corporazione dei chimici). Prese invece chiaramente posizione la notte del Gran Consiglio (24 luglio 1943), quando non perse mai i contatti con alcuni membri ostili all’ordine del giorno Grandi.

Contatti più stretti ebbe con il generale A. Tarabini, che era stato incaricato di sorvegliare manu armata il normale svolgimento della discussione. La mattina successiva prese contatto con C. Scorza e, venuto a conoscenza del risultato della votazione, cercò di incoraggiare alla reazione gli elementi avversi all’ordine del giorno Grandi, imprecando di fronte alla evidente incapacità e abulia delle strutture del PNF e contro Tarabini, che lo consigliava di aderire al nuovo governo Badoglio, osservando che “non può scomparire il fascismo, dopo 21 anni di Governo, come polvere al vento” (Roma, Arch. centrale dello Stato, Segreteria particolare del capo della Polizia, Repubblica sociale italiana, b. 12, f. Host Venturi Giovanni).

Aderì alla Repubblica sociale italiana, pur non ricoprendo cariche né posti di rilievo. Alla fine della guerra preferì abbandonare l’Italia.

L’H. morì a Buenos Aires il 29 apr. 1980.

Fra le opere dell’H. si ricordano: La passione di Fiume, Fiume 1928; Raffaele Rubattino, in Celebrazioni liguri, parte I, Urbino 1939, pp. 243-274; L’impresa fiumana, Roma 1976.

Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Archivi fascisti, Partito naz. fascista, Direttorio naz., Segreteria pol., Consiglieri nazionali, b. 16, f. H. V. G.; Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, b. 47, f. H. V. G.; Ministero dell’Interno, Direzione generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Polizia politica, Fascicoli personali, b. 662, f. H. V. G.; Segreteria particolare del capo della Polizia, Repubblica sociale italiana, b. 12, f. H. V. G.; G. Bottai, Diario 1935-1944, a cura di G.B. Guerri, Milano 1989, ad ind.; G. Ciano, Diario 1937-1943, a cura di R. De Felice, Milano 1990, ad ind.; E. Caviglia, Il conflitto di Fiume, Milano 1948, passim; G. Giuriati, Con D’Annunzio e Millo in difesa dell’Adriatico, Firenze 1954, passim; P. Alatri, Nitti, D’Annunzio e la questione adriatica, Milano 1959, ad ind.; R. De Felice, Mussolini il duce, II, Lo Stato totalitario, 1936-1940, Torino 1981, ad ind.; D. Grandi, Il mio paese, a cura di R. De Felice, Bologna 1985, p. 586.


Anniversari. Giovanni Host Venturi e il viaggio da Fiume all’Argentina tra Legione e peronismo

Pubblicato il 29 Aprile 2013 da Giorgio Ballario

Buenos Aires, 29 aprile 1980. Nel bel mezzo della “riorganizzazione nazionale” promossa dalla giunta militare argentina, in un appartamento della capitale viene trovato il cadavere di un anziano pensionato d’origine italiana. Si tratta di un suicidio e ai vicini di casa viene spontaneo mettere in relazione il tragico gesto di quel distinto signore di 88 anni con la sorte del figlio dell’uomo, desaparecido da ormai quattro anni.

Franco Host Venturi, nato a Roma nel ’37 ma emigrato in Argentina quando aveva solo 11 anni, era pittore e vignettista: fin da ragazzo aveva militato nella Juventud Peronista e successivamente era confluito nelle Fap (Fuerzas Armadas Peronistas), una frazione guerrigliera attiva nei primi Anni Settanta a Buenos Aires e nelle principali città argentine. Franco viene sequestrato a Mar del Plata il 20 febbraio del ’76 e di lui non si saprà più nulla. In un primo tempo si pensa che sia stato portato in un centro di detenzione in Patagonia, ma tutti gli sforzi dei familiari per rintracciarlo si rivelano vani. Quattro anni e due mesi più tardi, il padre Giovanni si toglie la vita.

Ma Giovanni Host Venturi, nato a Fiume nel 1892, non era solo il padre di un militante peronista desaparecido. Quel che i vicini di casa forse non sapevano era che l’anziano pensionato italiano, in gioventù, era stato capitano della Legione Fiumana e uno dei principali collaboratori di D’Annunzio nell’Impresa di Fiume, che dal settembre del 1919 fino al dicembre del 1920 portò all’effimera ma significativa esperienza della Reggenza Italiana del Carnaro. In seguito, confluito nel fascismo nella sua versione più di “sinistra”, Host Venturi divenne negli Anni Trenta sottosegretario di Stato alla Marina Mercantile e poi, dal 1939 al 1943, ministro delle Comunicazioni.

Una vita intensa, quella del capitano legionario. Vissuta con il piede sull’acceleratore fin da giovanissimo, quando – da cittadino dell’impero austro-ungarico –  decide di arruolarsi nell’esercito italiano per combattere la Prima Guerra mondiale, mutando il suo cognome (Host) nel più italiano Venturi. Dopo la guerra li adotterà entrambi. Capitano degli arditi e irredentista convinto dopo il conflitto e la “vittoria mutilata”, nell’aprile del 1919, Host Venturi fonda la Legione fiumana, costituita da volontari che intendono difendere la città, in particolare dal contingente francese considerato filo-jugoslavo. Il capitano, capo delle organizzazioni paramilitari dell’Istria e della Dalmazia, invia un messaggio a Gabriele D’Annunzio, invitandolo ad assumere il patronato della causa di Fiume italiana.

La scintilla scocca pochi mesi dopo, quando i negoziati si interrompono bruscamente e il 12 settembre irrompe sulla scena una forza irregolare di nazionalisti ed ex-combattenti italiani, composta da circa 2500 legionari agli ordini di D’Annunzio. Partiti da Ronchi di Monfalcone (in seguito ribattezzata Ronchi dei Legionari) il poeta e i suoi uomini si uniscono alla Legione fiumana di Host Venturi e occupano Fiume, chiedendo l’annessione all’Italia. Ai costanti rifiuti del governo italiano D’Annunzio, Host Venturi e migliaia di volontari accorsi nella città “liberata” proclamano la Reggenza del Carnaro.

Così Gabriele Marconi nel libro “Le stelle danzanti” (Vallecchi), un’opera  che ricostruisce l’avventura fiumana in forma romanzesca ma storicamente ineccepibile, descrive la figura di Giovanni Host Venturi: «”El comandante el g’ha bisogno de troppe distrassioni! Ecco com’è la situassione”, rispose Host Venturi aggrottando le sopracciglia. Guardandolo annuvolarsi, Giulio  ebbe l’impressione di vedere un cagnone bonario trasformarsi in un lupo, e pensò che sarebbe stata una gran brutta sorte avere quell’uomo come nemico».

E agli occhi di molti Host Venturi era davvero molto più simile a un lupo, che a un cagnone bonario. Anche dopo la caduta della Reggenza, sloggiata a forza dal governo di Giolitti, il veterano degli arditi continuerà la sua attività politica irredentista: ormai sempre più vicino al fascismo, nell’aprile del ’21 manderà i suoi legionari, appoggiati dai fedelissimi del sindaco fiumano Gigante, ad assalire l’aula di Tribunale dove sono in corso le operazioni di spoglio per l’elezione dell’assemblea costituente, in cui sta per prevalere l’autonomista anti-italiano Zanella. Nei tafferugli le urne vengono date alle fiamme, ma autonomisti e socialisti salvano i verbali e riescono comunque a vincere le elezioni.

La parentesi anti-italiana dura poco: 3 marzo 1922 duecento uomini del fascio fiumano assaltano a cannonate il palazzo del municipio, le forze dell’ordine pubblico restano neutrali e Zanella è costretto a dare le dimissioni e a rifugiarsi lontano da Fiume.  Dopo l’annessione al Regno d’Italia con il Trattato di Roma  (27 gennaio 1924), Fiume diventa capoluogo di provincia e Host Venturi prosegue la sua carriera politica nella capitale.

Nel 1925, con un discorso al congresso dei fascisti italiani, si segnala ancora per la sua ferma opposizione al bilinguismo a Fiume, in Istria e Dalmazia, criticando soprattutto quei sacerdoti che celebrano funzioni religiose in sloveno: «… ci sono in questa regione sacerdoti che non sono italiani e non comprendono cosa significhi essere italiano e cocciutamente insistono nel celebrare le funzioni religiose in lingua slovena. Noi invece affermiamo che in Italia si può pregare solo in italiano».

Come detto ricopre incarichi di governo fino al 1943, poi nel corso della Repubblica sociale italiana viene messo ai margini, per ragioni che non sono mai state del tutto chiarite. Dopo la guerra, nel 1948, decide di emigrare in Argentina con la famiglia. Di lui non sa sa quasi più nulla, se non che anche nel Paese sudamericano continua in qualche modo a interessarsi di politica. In una recente intervista a un quotidiano argentino l’avvocato Leonardo Gigli, che durante la Seconda guerra mondiale aveva combattuto agli ordini di Host Venturi, racconta che l’ex capitano degli arditi e comandante della Legione fiumana si era incontrato più volte con il presidente Peròn, suggerendogli di creare delle zone franche industriali a Bahia Blanca e Rosario per favorire lo sviluppo economico del Paese. Un progetto che incontrò un certo gradimento nel governo peronista, anche se non venne mai concretamente realizzato.

Poi la fine del peronismo, l’inizio degli anni caldi che precedono la dittatura, il coinvolgimento del figlio Franco nella guerriglia, la sua scomparsa ad opera degli squadroni della morte della Junta militar. Troppo anche per un vecchio lupo fiumano, che il 29 aprile di trentatré anni fa, per la prima volta nella sua vita, decide di arrendersi.

* Dopo la pubblicazione del nostro articolo abbiamo ricevuto una cortese lettera di Andrea Host-Ivessich che qui riproponiamo.

“Buongiorno. Innanzitutto grazie per l’ articolo. Mi chiamo Andrea Host-Ivessich… e dal nome si evince che io sia un parente di Giovanni Host-Venturi. L’ articolo e’ perfetto tranne 2 punti. Il cognome originale era Host-Ivessich… ma durante la prima guerra mondiale i triestini che combattevano per l’ Italia se catturati venivano immediatamente fucilati come traditori e disertori.. ma anche le famiglie venivano duramente punite. Il motivo per cui Giovanni tolse la parte Ivessich e aggiunse Venturi fu questo, evitare problemi a chi rimase a Trieste. Venturi era il nome di un amico milanese che “lo prestò” con relativa copertura ” storica” . Per tutta la sua vita non divise mai più il cognome, rimase dal 1915 in poi Host-Venturi…. dalla guerra…. a Fiume … alla sua tragica morte. Il secondo punto riguarda il periodo post ministero. Rimase nella RSI senza incarichi dopo aver fatto il Ministro senza nessuna polemica e nessun mistero. Apparteneva ad una razza ” militare”. Obbedì e rimase fedele all’idea.

Vi ringrazio a vi saluto
Andrea Host-Ivessich


 

 

 

Motti dannunziani: I Motti di Fiume
Detti e parole d’ordine di un maestro di vita che hanno segnato un’epoca
stralcio dal tascabile economico Newton “Motti dannunziani” a cura di Paola Sorge – Newton Comton ed. S.r.l. – Roma – 1994

Gabriele D’Annunzio

Espressione di uno straordinario personaggio che ha dominato per cinquant’anni lo scenario letterario e politico del nostro Paese, i motti dannunziani ebbero, nel primo ventennio del secolo, un effetto prorompente sul popolo italiano. Antiche grida di guerra, frasi latine, iscrizioni di vecchi stemmi polverosi che d’Annunzio prese da un patrimonio comune, classico e rinascimentale, divennero gli slogan urlati durante la guerra e non solo servirono a infiammare gli animi di amor patrio, ma anche a sfidare apertamente, durante l’occupazione di Fiume, il governo e le istituzioni. Molte di queste frasi celebri passarono di peso nella retorica fascista. Gabriele d’Annunzio, nato a Pescara nel 1863, morto a Gardone Riviera nel 1938, esordì ancora quasi adolescente con la raccolta di versi Primo Vere, lo sua vastissima produzione poetica, narrativa, drammatica, tradotta in tutte le lingue, ebbe risonanza mondiale. Dopo la composizione delle Laudi, considerate la più alta espressione della sua lirica, divenne il «vate nazionale». Eroe della prima guerra mondiale, celebri furono il suo

«volo su Vienna»
«Beffa di Buccari»

poi,

«Comandante»

di Fiume, fu considerato a lungo un  

«maestro di vita».

Tieni duro

È la risposta alle domande poste ai legionari di Fiume e agli
italiani:
«Che ti dice la Patria?»
«Che ti dice la Gloria?»
«Che ti dice la Vittoria?».

Eja, carne del Carnaro, alalà
Variante «fiumana» del grido di guerra usato da d’Annunzio e dai suoi compagni nelle imprese più spericolate.
È questo il saluto che d’Annunzio rivolse agli «ufficiali di tutte le armi» prima della Marcia di Ronchi.

   

Moriendi insatiatus amor 
Insaziato amore di morire
Parafrasi del latino: «Edendi insatiatus amor» (Insaziato amore di mangiare) che d’Annunzio scrisse nel primo messaggio inviato ai fiumani, alla vigilia della «Santa Entrata» – così venne chiamato solennemente l’ingresso del «Comandante» a Fiume.
A ferro freddo

Grido di battaglia, lanciato da d’Annunzio contro Francesco Misiano, deputato al Parlamento, che avversava la causa di Fiume e che tentò di entrare, nell’agosto del 1920, nella «Città di Vita» per sobillare la popolazione contro il Comandante.
D’Annunzio incitò i suoi legionari a dare la caccia al «traditore» e a infliggergli il castigo immediato, «a ferro freddo».

Arde e non luce –
perché non si spenga

Motto scritto in un cartiglio posto sotto una fiamma sovrastata da una corona di spine.

Colpire, ferire, abbattere
Grido di guerra ricamato sullo stendardo della Dalmazia donato da d’Annunzio ai «Dragoni rossi». Assieme al motto, l’immagine di tre fauci ferine che si spalancano per mordere.
Ardore – ardire
Le due parole sono per d’Annunzio in realtà una parola sola, «una sola essenza mistica come ROMA-AMOR».
Il Poeta le pronunciò durante una festa in onore dei legionari. Fiume è per lui la città ardente per antonomasia, l’Olocausta consumata dal fuoco.
Nec recisa recedit

Motto destinato alle «Fiamme gialle» – appartenenti alla R. Guardia di Finanza – che parteciparono alla impresa di Fiume e prestarono solenne giuramento di fedeltà alla causa fiumana.

Alere flammam
Alimentare la fiamma

Motto ricamato sul gagliardetto di seta delle «Fiamme cremisi» di Fiume costituito dall’VIII Battaglione dei Bersaglieri
ciclisti.
Ben 1600 bersaglieri entrarono trionfalmente a Fiume la mattina del 25 settembre del 1919, poco dopo l’occupazione della città da parte del «Comandante».
D’Annunzio considerò le «Fiamme cremisi» i «difensori di Fiume fino all’ultimo respiro».

Fiume o morte!
È il giuramento fatto dai Granatieri di Sardegna che nell’agosto del 1919 riconoscevano d’Annunzio come loro capo.
Per ordine del governo, i granatieri avevano dovuto lasciare Fiume con grande disappunto della popolazione in gran parte italiana. Quando alcuni di loro si decisero a disobbedire agli ordini e di partire ad ogni costo per Fiume. Non si fermarono nemmeno di fronte al fatto che d’Annunzio era con la febbre a 40 gradi. Ormai – come scrisse il Poeta a Mussolini – il dado era tratto.
Insorgere è risorgere

Motto di incitamento rivolto ai legionari dopo il blocco posto dal governo italiano a Fiume e titolo del terzo proclama scritto durante il «Natale di sangue».
Il 22 dicembre del 1920, nonostante la situazione disperata, il Comandante spera ancora di farcela, confidando che nessun combattente italiano avrebbe avuto il coraggio di colpire lui, l’eroe di Buccari e di Vienna.
Questa è l’ultima parola d’ordine che egli manda alla «Italia della Vittoria strangolata».

Dare in brocca
Ossia «imbroccare». Il motto è posto al centro di sette frecce dorate che colpiscono nel segno. È dipinto su una delle due macchine della Marcia di Ronchi, una piccola O. M. L’altra automobile con cui d’Annunzio entrò a Fiume il 12 settembre del 1919, una «501 Fiat» rossa, reca sulla carrozzerìa l’immagine della Santa Casa di Loreto.
I resoconti dell’epoca raccontano che la macchina del «Comandante» fu ricoperta da una pioggia di fiori fra il giubilo della popolazione.
 

Me ne frego

Il motto è ricamato in oro al centro del gagliardetto azzurro dei legionari fiumani.
Un motto «crudo», come lo definì il Poeta, tratto dal dialetto romanesco, ma a Fiume – disse il Comandante – «la mia gente non ha paura di nulla, nemmeno delle parole».
Il motto appare per la prima volta nei manifesti lanciati dagli aviatori della Squadra del Carnaro su Trieste.

Mori citius quam deserere Morire piuttosto che rinunciare

Motto donato da d’Annunzio ai legionari abruzzesi il 28 novembre del 1920, quando la situazione a Fiume era diventata ormai insostenibile.
Sul gagliardetto, l’immagine di un cinghiale.

Uno contro uno,
uno contro tutti

Motto degli Arditi, gridato durante le esercitazioni militari in truppe compatte che avvenivano sulla piazza principale di Fiume.
Per il Comandante, la piazza era come l’arengo degli antichi Comuni dove si celebravano le feste e si tenevano i discorsi.

Fatica senza fatica

Antica espressione toscana dell’epoca dei Comuni che d’Annunzio usò come motto. Inciso fra rami di lauro e sovrastato da una fiamma rossa, si riferisce ad una forma spiritualizzata del lavoro umano.
Il Comandante cita il motto alla fine del XIX Statuto della «Reggenza Italiana del Carnaro – Disegno del nuovo ordinamento dello Stato libero di Fiume», proclamata il 30 agosto del 1920, ed è riservato all’ultima delle dieci Corporazioni elencate nel documento. La decima Corporazione è quella riservata alle «forze misteriose del popolo in travaglio e in ascendimento».

Si spiritus pro nobis,
quis contra nos?
Se lo spirito è con noi, chi
potrà andare contro di noi?

Parafrasi della frase biblica: «Si Deus pro nobis, quis contra nos?».
Il motto precede i 65 articoli della Carta del Carnaro presentata al popolo di Fiume la sera del 30 agosto 1920 al Teatro Fenice.
D’Annunzio fece ricamare il motto al centro del grande vessillo rosso della
«Reggenza del Carnaro», issato a Fiume nel settembre del 1920. Ora il gonfalone si trova nella «Stanza delle reliquie» al Vittoriale. Raffigura le sette stelle dell’Orsa racchiuse dal cerchio formato da un serpente d’oro che si morde la coda, simbolo dell’eternità.

Ferrum est quod amat
È il ferro che ama

Frase pronunciata dal «Comandante» in occasione della consegna del «pugnale votivo». Nel gennaio del 1920 le donne di Fiume offrirono infatti al Poeta un pugnale cesellato in oro e in argento come simbolo della ribellione e della resistenza. Era questa la loro risposta alla decisione di Francesco Saverio Nitti, allora capo del governo, di non cedere al colpo di mano compiuto da d’Annunzio.
«II ferro è l’estremo cuore del destino» commentò d’Annunzio dopo aver fatto affiggere ai muri della città dei manifesti contro «Sua Indecenza Francesco Nitti», soprannominato dal Poeta «Cagoia».

Indeficienter
Incessantemente
Si trova nello stemma che Leopoldo I concesse alla città di Fiume nel 1659, sotto un’urna che versa acqua perenne, sovrastata da un’aquila ad ali spiegate.
Secondo la leggenda, l’acqua di Fiume serviva a guarire tutti i mali.
«L’Urna inesausta» del vecchio stemma fu ripresa da d’Annunzio come simbolo della città occupata dai legionari e impressa sui francobolli della «Reggenza dei Carnaro».
Viva l’amore, alalà

È questo l’ultimo grido che d’Annunzio rivolse ai fiumani prima di lasciare la città. Il 7 gennaio del 1921 tenne il discorso di congedo dall’alto del balcone del Palazzo comunale, dopo aver pregato davanti alle tombe dei caduti del
«Natale di sangue». Il bilancio delle vìttime era una trentina di morti e un centinaio di feriti da ambe le parti.
D’Annunzio lasciò Fiume dopo pochi giorni a bordo della stessa macchina con cui era arrivato.

A noi!

Risposta alle enfatiche domande poste ai legionari durante la Festa di San Sebastiano, il 20 gennaio 1920:
«A chi la forza?» «A noi
«A chi la fedeltà?» «A noi
«A chi la vittoria?» «A noi
Ma alla fine di quello stesso anno, la domanda ai fedeli legionari cambiava: dopo il
«Natale di sangue» era svanito ogni entusiasmo, non c’erano che morti e feriti in una città «assassinata» sulla quale il Comandante non può che gettare un alalà funebre. E conclude:
«A chi l’ignoto?» «A noi

Italia o morte!
È il motto che ogni legionario portava impresso sul nastro a tre colori di Fiume: rosso, giallo e blu.
Titolo di un discorso tenuto da d’Annunzio nel giugno del 1919 per scuotere l’indifferenza degli italiani di fronte alla questione di Fiume, il grido fu ripetuto nel primo messaggio ai fiumani della vigilia della Marcia di Ronchi.
Non ducor, duco
Non sono guidato, guido

Motto dei legionari fiumani. È scritto in un cartiglio posto alla base di una ghirlanda di rami di quercia. Al centro campeggia il braccio di un guerriero che impugna la lancia.

In alto il ferro!

Il ferro è il pugnale affilato dei legionari di Fiume.
L’esclamazione è contenuta nel discorso che d’Annunzio pronunciò il 3 ottobre del 1919 a Fiume, diretto agli «Arditi», ossia ai soldati.

Viva Roma senza onta!

Saluto rivolto ai romani nel messaggio lanciato da due apparecchi del Comandantesulla Capitale il 20 settembre 1920. Ad un anno dalla occupazione di Fiume, il Poeta è più che mai convinto di trascinare tutta l’Italia dalla sua parte, dalla parte di Fiume e della Dalmazia italiana.
D’Annunzio ricorda il giuramento di fedeltà alla lotta per la causa di Fiume che ottenne dal popolo dopo il suo discorso a Piazza delle Terme del maggio ’19.
In questo messaggio egli esprime la volontà di tornare a Roma a prendere le «novissime armi» che i romani gli daranno.
Un desiderio che Mussolini certamente non scordò conoscendo il pericoloso carisma che il Vate esercitava sulle folle.
La Marcia su Roma, due anni dopo, ebbe luogo in ottobre proprio per prevenire la celebrazione della Vittoria, il 4 novembre, a cui doveva partecipare d’Annunzio.

Fisso l’idea

È un altro dei motti pubblicitari del Vate.
Fu creato per gli inchiostri «Sanrival» nel novembre del ’21.
Alla frase si accompagna il disegno di un uomo nudo visto di spalle, in ginocchio davanti ad una parete bianca dove scrive con una penna d’oca gocciolante di inchiostro. In una lettera, pubblicata dalla ditta, d’Annunzio ringrazia per «aver riempito così generosamente il mio calamaio disseccato». E manda in cambio una copia del Notturno trascritto in parte con il «nerissimo dono».
Anche durante gli anni del Vittoriale d’Annunzio non mancò di elargire pubblicamente lodi a ditte dolciarie o di agrumi.

Cosa fatta capo ha
Celebre frase dantesca usata da d’Annunzio per sancire la sua impresa divenuta dopo pochi giorni già leggendaria. Per il Poeta la parola «capo» ha il doppio significato di «principio» e di «comandante».
D’Annunzio fece disegnare per il motto, da Adolfo De Carolis, la figura di un nodo tagliato da un pugnale: rappresenta il nodo scorsoio che il presidente Wilson aveva messo intorno alla gola dell’Italia, stabilendo le umilianti condizioni di pace.
Il motto fu gridato dal Comandante il 12 settembre 1920 nell’ annunciare che avrebbe inviato al Senato americano la nuova delibera del Consiglio di Fiume contro il Patto di Londra.

Hic manebimus optime 
Qui rimarremo ottimamente
Così dicevano i legionari romani dopo aver conquistato una città e così ripetè d’Annunzio dopo aver ricevuto il comunicato ufficiale del Governo italiano che considerava l’occupazione di Fiume un atto «così inconsiderato come dannoso».
Il Comandante era convinto che nessuno avrebbe potuto smuoverlo dalla città in cui si respirava di nuovo il «vento eroico», a dispetto delle Grandi Potenze che negavano Fiume 
all’Italia. Wilson affermava che la città era croata più che italiana; Lloyd George si atteneva al Patto di Londra che dava Fiume alla Jugoslavia; e Clemenceau in Francia, continuava a ripetere: «Fiume, c’est la lune!».
D’Annunzio fece incidere il motto sulla medaglia commemorativa di Fiume accompagnato dall’immagine di una selva di pugnali o da una colonna sovrastata da un’aquila.
La frase è ripetuta anche sulla medaglia con la testa di d’Annunzio disegnata dal pittore Guido Marussig.
Cum lenitate asperitas
Le difficoltà vanno trattate con dolcezza

Ecco uno dei motti creati da d’Annunzio per scopi pubblicitari, in questo caso per la ditta di profumi di Bologna, LEPIT, naturalmente dietro un ingente compenso.
Il Poeta non disdegnava le numerose offerte che gli piovevano dalle più note industrie italiane, come la SAIWA ad esempio, di cui elogiò le gallette non zuccherate, migliori per lui di quelle inglesi, o quella dell’amico abruzzese che produceva il Parrozzo, un dolce tipico di Pescara. Ma le sue «pubblicità» avevano sempre un certo stile. Come è noto, fu lui a dare ai grandi magazzini dei fratelli Bocconi il nome «La Rinascente», quando ancora era in guerra.
La proposta della ditta di profumi la ricevette mentre era a Fiume: «È ottima cosa inventare nuovi profumi in un’Italia che

fabbrica ogni giorno tanti cattivi odori», scrisse sarcasticamente nella lettera inviata alla ditta il 3 marzo del 1920. Per il motto fece eseguire da De Carolis, anche lui pagato – è il caso di dire – profumatamente, due xilografie: una raffigurante una donna nuda sulla quale piovono effluvi da un bruciaprofumi; la seconda con due mani che si aprono a ventaglio per ricevere la pioggia odorosa.
D’Annunzio dette anche il nome ai nuovi profumi creati dalla ditta, per i quali De Carolis disegnò eleganti ampolle in vetro di Murano. Ecco la lista che il Poeta inviò alla ditta:
La Fiumanella / La brezza del Carnaro / La rosa degli uscocchi / Il lauro di Laurana / L’ardore del Carso / La liburna / L’alalà. 
Tutti nomi, ispirati, come si vede, alla «passione di Fiume».
Disobbedisco
Con questa parola di ribellione inizia il primo degli undici proclami scritto da d’Annunzio nel drammatico «Natale di sangue» del 1920, quando il governo decise di mettere fine all’impresa dì Fiume con le armi.
Il 21 dicembre 1920, per deliberazione del capo del governo, Giovanni Giolitti, il generale Caviglia ordinò il blocco effettivo di Fiume per terra e per mare. Il 24 dicembre, scaduto l’ultimatum dato al Comandante, le truppe del generale Caviglia attaccarono Fiume. E dopo due giorni la corazzata Andrea Doria sparò una cannonata contro il Palazzo del Governo in cui si trovava d’Annunzio.
«L’incanto era rotto», commentarono i contemporanei.
Chi non è con noi è
contro di noi

Parafrasi della frase di Gesù Cristo, «usata» dal Comandante d’Annunzio per le sue
«Fiamme Nere» – così era chiamata la I Divisione d’assalto dei combattenti che alla fine della guerra si trovava ancora in Libia.
Rimpatriati nel luglio del ’19, le Fiamme Nere si misero in collegamento con gli Arditi comandati dal capitano
Host-Venturi, schierandosi subito per la causa di Fiume.
All’alba del 12 settembre del ’19, le Fiamme Nere, alle porte della «Città di Vita» cantavano alle ragazze di Fiume: «Apriteci le porte / Libereremo Fiume / A costo della morte».