Iliade e Odissea rappresentano due opere fondamentali nella cultura occidentale. Tuttavia, il modo in cui le possiamo leggere noi oggi non corrisponde per nulla alla forma testuale “voluta da Omero”; millenni, infatti, ci separano dalla composizione dei poemi, che, nel corso della loro tradizione, subirono certamente innovazioni e corruzioni, che, data la loro notevole portata, non ci permettono di risalire al cosiddetto originale.
E’, altresì, importante distinguere alcune tappe che si rivelarono fondamentali nell’arco della loro trasmissione a partire dalla composizione fino a oggi.


TRADIZIONE DEI POEMI OMERICI

La data della loro composizione viene fatta risalire all’VIII secolo a.C.; per lungo tempo gli studiosi moderni si chiesero chi fosse l’autore, ritenendo perlopiù che la figura di Omero fosse quella di un fittizio poeta, inventata dalla tradizione antica. A partire dagli anni iniziali del Novecento, tuttavia, la cosiddetta questione omerica cambiò notevolmente volto: con l’acquisizione del concetto di oralistica, avvenuta grazie agli studi di Parry (1902-1935) prima e di Lord (1912-1991) poi, i filologi mutarono i loro interrogativi: non era più necessario domandarsi se fosse esistito o meno un vero Omero cieco proveniente dalla Ionia, ma capire la portata effettiva che un poeta di VIII a.C. (chiunque egli fosse, chiamiamolo pure Omero) ebbe nel recuperare e nel riformulare in maniera propria la struttura dei poemi, così come la leggiamo oggi, a partire da macrosequenze narrative tramandate separatamente dall’orale tradizione aedica anteriore all’VIII a.C. Per l’Iliade e l’Odissea, in altre parole, l’oralità giocò un ruolo fondamentale non solo nei momenti della pubblicazione e della trasmissione, ma anche in quello della composizione, dato che Omero creò queste due opere non ex novo, ma a partire da una cospicua tradizione precedente, non fissata per iscritto e frutto di personalità diverse. Ecco che tutto ciò, oltre a fornire una possibile spiegazione delle numerose incongruenze presenti nei poemi (lasciate da Omero verosimilmente in modo volontario, al fine di tramandare quel patrimonio antichissimo nella maniera più esaustiva possibile) mette in evidenza come già in principio le due opere in questione dovessero essere deboli nella loro facies testuale, non essendo esse il prodotto di un unico autore.

L’Iliade e l’Odissea acquisirono, fin dal momento della loro composizione, una risonanza panellenica, venendo così riprodotte in una dimensione orale e/o aurale da parte dei rapsodi in tutto il mondo grecizzato, dalle coste dell’Asia Minore, alla Magna Grecia. Naturalmente, una tale trasmissione (unitamente alla debole autorialità) comportò una corruttela continua delle due opere, che iniziarono, così, a circolare in forme molto dissimili fra loro: l’Iliade che veniva cantata a Chio, per esempio, non era la stessa che veniva narrata a Tebe. 

Fu in questa situazione di estrema variegatezza che, stando alle fonti a nostra disposizione, Pisistrato, tiranno di Atene alla fine del VI a.C., redasse (probabilmente con l’aiuto di alcuni collaboratori) una copia unica sia dell’Iliade sia dell’Odissea. E’, quindi, doveroso citare le testimonianze che a tal riguardo abbiamo:
Hipparchos, 228 b-c (uno dei dialoghi pseudo-platonici, ruotante attorno al tema dell’origine e delle caratteristiche dell’avidità di guadagno):

(Σωκράτης) (…) οὐ μεντἂν καλῶς ποιοίην οὐ πειθόμενος ἀνδρὶ ἀγαθῷ καὶ σοφῷ.
(Ἑταῖρος) τίνι τούτῳ; καὶ τί μάλιστα;
(Σωκράτης:) πολίτῃ μὲν ἐμῷ τε καὶ σῷ, Πεισιστράτου δὲ ὑεῖ τοῦ ἐκ Φιλαϊδῶν, Ἱππάρχῳ, ὃς τῶν Πεισιστράτου παίδων ἦν πρεσβύτατος καὶ σοφώτατος, ὃς ἄλλα τε πολλὰ καὶ καλὰ ἔργα σοφίας ἀπεδείξατο, καὶ τὰ Ὁμήρου ἔπη πρῶτος ἐκόμισεν εἰς τὴν γῆν ταυτηνί, καὶ ἠνάγκασε τοὺς ῥαψῳδοὺς Παναθηναίοις ἐξ ὑπολήψεως ἐφεξῆς αὐτὰ διιέναι, ὥσπερ νῦν ἔτι οἵδε ποιοῦσιν, καὶ ἐπʼ Ἀνακρέοντα τὸν Τήιον πεντηκόντορον στείλας ἐκόμισεν εἰς τὴν πόλιν, Σιμωνίδην δὲ τὸν Κεῖον ἀεὶ περὶ αὑτὸν εἶχεν, μεγάλοις μισθοῖς καὶ δώροις πείθων· ταῦτα δʼ ἐποίει βουλόμενος παιδεύειν τοὺς πολίτας, ἵνʼ ὡς βελτίστων ὄντων αὐτῶν ἄρχοι, οὐκ οἰόμενος δεῖν οὐδενὶ σοφίας φθονεῖν, ἅτε ὢν καλός τε κἀγαθός. 

(Socrate) (…) certamente non farei bene se non dessi retta a un uomo nobile e saggio.
(Compagno) Chi è costui? E in che cosa particolarmente?
(Socrate) E’ un concittadino mio e tuo, figlio di Pisistrato della stirpe dei Filaidi, Ipparco, che era il più anziano e il più saggio fra i figli di Pisistrato, (Ipparco) che mostrò molte altre e belle opere di saggezza, e per primo portò in questa terra qui le opere di Omero, e costrinse i rapsodi alle Panatenee a narrarle di seguito riallacciandosi, come ancora oggi questi fanno, e, avendo preparato/preparando una nave a cinquanta remi per Anacreonte di Teo, lo portò nella città, e aveva sempre vicino a sé Simonide di Ceo, persuadendolo con grandi compensi e doni; faceva queste cose volendo istruire i cittadini, affinché governasse su di loro che fossero i migliori possibili (dal punto di vista culturale), pensando che non si dovesse negare a nessuno la saggezza, poiché era un uomo nobile sotto ogni aspetto. 

Questa fonte, che ci testimonia la centralità di Ipparco in questa impresa (e non del padre), sembrerebbe a prima vista informarci del fatto che i poemi omerici siano stati portati in Attica per la prima volta dai Pisistratidi, cosa che, però, non può essere ritenuta con troppa semplicità verosimile, dal momento che pare assodato che all’altezza della parte finale del VI a.C., cioè al termine del periodo arcaico, le due opere avessero sicuramente raggiunto oramai da molto tempo Atene (abbiamo ricordato prima l’impatto panellenico che sin da subito ebbero). Probabilmente, perciò, anche sulla base di altre fonti che possediamo, questa testimonianza intende mettere in luce la centralità che Ipparco ebbe nel dare una sistemazione ai poemi, in occasione dell’istituzione delle feste panatenaiche. 

 

De oratore, 3.137 (dialogo ciceroniano, incentrato sul tema dell’oratoria, scritto intorno alla metà degli anni Cinquanta del I a.C.): 

Sed ut ad Graecos referam orationem, quibus carere hoc quidem in sermonis genere non possumus – nam ut uirtutis a nostris, sic doctrinae sunt ab illis exempla petenda – septem fuisse dicuntur uno tempore, qui sapientes et haberentur et uocarentur: hi omnes praeter Milesium Thalen ciuitatibus suis praefuerunt. Quis doctior eisdem temporibus illis aut cuius eloquentia litteris instructior fuisse traditur quam Pisistrati? Qui primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus. Non fuit ille quidem ciuibus suis utilis, sed ita eloquentia floruit, ut litteris doctrinaque praestaret. 

Ma, affinché riferiamo questo discorso ai Greci, dei quali non possiamo fare a meno neppure in questo genere di argomentazione – infatti, come bisogna ricercare esempi di valore dai nostri, così bisogna ricercare esempi di cultura da quelli – si dice che in quel tempo c’erano sette, che erano ritenuti ed erano chiamati sapienti: tutti questi, eccetto Talete di Mileto, furono a capo dei loro concittadini. Chi si tramanda che in quei medesimi tempi fu più dotto di Pisistrato e la cui eloquenza fu più abbondante di cultura letteraria? Si dice che questo per primo abbia ordinato i libri di Omero prima confusi/disordinati così come ora li abbiamo. Quello certamente non fu utile ai suoi concittadini, ma fiorì a tal punto in eloquenza che emerse nella cultura letteraria e nella saggezza. 

Secondo la notizia che ci fornisce Cicerone, quindi, a occuparsi dell’impresa in questione sarebbe stato Pisistrato (e non Ipparco), che avrebbe ordinato i libri di Omero prima confusi: la suddivisione in libri dell’Iliade e dell’Odissea, però, venne fatta per la prima volta dagli Alessandrini, e Cicerone doveva essere a conoscenza di ciò, quindi, è verosimile che con questa frase (“Qui…habemus”) faccia riferimento a una sistemazione del variegato materiale omerico tentata da Pisistrato.

 

Periegesi della Grecia, 7. 26. 13 (opera storico-geografica di Pausania): 

Αἰγείρας δὲ ἐν τῷ μεταξὺ καὶ Πελλήνης πόλισμα ὑπήκοον Σικυωνίων Δονοῦσσα καλουμένη ἐγένετο μὲν ὑπὸ τῶν Σικυωνίων ἀνάστατος, μνημονεύειν δὲ καὶ Ὅμηρον ἐν καταλόγῳ τῶν σὺν Ἀγαμέμνονί φασιν αὐτῆς ποιήσαντα ἔπος
(Il. 2.573) οἵ θʼ Ὑπερησίην τε καὶ αἰπεινὴν Δονόεσσαν·
Πεισίστρατον δέ, ἡνίκα ἔπη τὰ Ὁμήρου διεσπασμένα τε καὶ ἀλλαχοῦ μνημονευόμενα ἤθροιζε, τότε αὐτὸν Πεισίστρατον ἢ τῶν τινα ἑταίρων μεταποιῆσαι τὸ ὄνομα ὑπὸ ἀγνοίας. 

Nel mezzo fra Egira e Pellene la cittadina chiamata Donussa sottomessa ai Sicioni fu depredata dai Sicioni, e dicono che anche Omero la ricordi nel catalogo delle schiere alleate con Agamennone, avendo composto il verso
(Il. 2.573) i quali abitano presso Iperesia e la scoscesa Donoessa;
e dicono che Pisistrato, quando metteva insieme le opere di Omero fatte a pezzi e ricordate alcune in un luogo altre in un altro, allora Pisistrato stesso o uno dei suoi compagni cambiò il nome per ignoranza.

Anche Pausania riconduce questa impresa a Pisistrato stesso e ad alcuni suoi collaboratori, che avrebbero raccolto e ordinato le opere omeriche sparse nei territori grecizzati, dando a queste un aspetto più omogeneo. Gli analitici di Ottocento tendevano a vedere in tale affermazione di Pausania un indizio del fatto che il tiranno ateniese fosse stato il primo a unire in due poemi continui le varie macrosequenze narrative ancora circolanti in maniera separata. Bisogna, tuttavia, considerare che sembra difficile pensare che all’altezza della fine dell’età arcaica l’Iliade e l’Odissea non circolassero ancora come poemi unitari, dato l’impatto culturale che fin da subito ebbero. 

In ogni modo, affidandoci alle testimonianze in nostro possesso, possiamo affermare che i Pisistratidi, che, infatti, inclusero e diedero molto spazio nella loro politica alla cultura e all’educazione dei cittadini, ebbero attenzione verso i poemi omerici, volendo creare una edizione univoca e omogenea, che fosse utile all’interno dei concorsi panatenaici. Nessuna fonte, tuttavia, ci dimostra che la versione che fecero allestire fosse basata su criteri filologici veri e propri: il loro obiettivo, in altre parole, non era quello di tendere all’originale, ma quello di avere a disposizione un testo omogeneo e uguale per tutti. 

Il primo approccio davvero filologico, a quel che conosciamo, lo ebbero i poeti ed eruditi attivi presso la corte dei Tolomei ad Alessandria a partire dagli anni finali del IV a.C. La casata tolemaica, a capo del Regno d’Egitto (uno dei regni ellenistici formatosi dalla spartizione degli estesissimi territori conquistati da Alessandro Magno a seguito della sua morte avvenuta nel 323 a.C.), per motivi di autoaccreditamento etnico e culturale agli occhi dei sudditi e degli altri diadochi, con ambizioni imperialistiche, per presentarsi come degna erede di Alessandro, l’unica in grado di riunire tutti i possedimenti del grande condottiero macedone e di porsene a capo, volle ricreare ad Alessandria una nuova Atene, la polis che da sempre aveva cercato di porsi al di sopra delle altre da un punto di vista non solo militare ma anche culturale, formando a poco poco un’aura attorno a sé (quello che definiamo atenocentrismo).

In tale situazione, Tolomeo I (367-283 a.C.) e i suoi successori crearono presso il palazzo imperiale due luoghi in cui riprodurre la realtà curale ateniese: il Museo, in cui fecero pervenire dall’Attica poeti militanti che intrattenessero la corte con le loro creazioni artistiche, in un contesto, dunque, tipico della realtà greca arcaica e classica, ovvero quello dell’auralità; la Biblioteca, indispensabile per raggruppare concretamente la mole del materiale librario contenente le opere dell’antichità (non solo greca, ma anche di altre zone dell’ecumene). I poeti presenti nel Museo, vennero chiamati a lavorare anche all’interno della Biblioteca stessa, dal momento che erano gli unici ad avere le competenze per smistare e catalogare un assortimento così vasto di papiri. E così questi poeti qui si accorsero della variegatezza in cui giaceva tutto il patrimonio antico (per ogni opera si trovarono di fronte molteplici edizioni, diverse fra loro, contenenti vistose varianti). Fu in quest’ambito che nacque la filologia alessandrina (che costituisce la base anche di quella moderna e contemporanea): i Tolomei chiesero, infatti, a questi poeti-filologi di creare versioni univoche per ogni opera. Nell’adempiere all’ordine dei sovrani, collazionarono, ovvero misero a confronto, tutte le edizioni che per ogni opera letteraria erano arrivate all’interno della grande Biblioteca, scegliendo di volta in volta le lezioni che ritenevano migliori, quelle che apparivano più vicine all’originale, alla volontà dell’autore. L’impresa fu molto ardua e lo fu soprattutto per i poemi omerici, in particolare l’Iliade, della quale centinaia di edizioni dissimili fra loro erano pervenute in Egitto. Gli Alessandrini catalogarono le varie copie di cui entrarono in possesso, suddividendole soprattutto in base a due criteri: 1.la loro provenienza geografica (le cosiddette ekdoseis kata poleis); 2.la loro appartenenza a una determinata persona, di solito un erudito, un maestro di scuola (le cosiddette ekdoseis kata andra). 

Ecco che le edizioni dei poemi omerici (e non solo) allestite dagli Alessandrini a poco a poco si diffusero nel mercato librario dell’intero Regno egiziano e oltre, imponendo nel corso del tempo le loro scelte testuali su tutte le altre possibili varianti circolanti sin dal periodo arcaico (come si può constatare a partire dai frammenti papiracei conservatisi in Egitto). Il loro lavoro, pertanto, ebbe un impatto fortissimo sulla tradizione successiva del testo dei due poemi: se da una parte avevano posto fine all’estrema variegatezza che li contraddistingueva, dall’altra avevano eliminato per sempre lezioni, che in alcuni casi si sarebbero potute rivelare migliori rispetto a quella da loro scelte. 

L’Iliade e l’Odissea che leggiamo oggi, pertanto, deriva in maniera vincolante dal lavoro dei filologi alessandrini: le varianti che troviamo nei due testi corrispondono perlopiù a quelle da loro privilegiate, giunte a noi attraverso la continua attività di trascrizione effettuata dai copisti medievali, che, tuttavia, inevitabilmente apportarono di volta in volta modifiche (quelle che vengono definite innovazioni, sia volontarie sia involontarie) e spesso contaminarono i rami della tradizione, restituendoci due opere dalla facies testuale molto variegata e compromessa. 


ARTICOLO DELLA DOTT.SSA MICHELLE FILOPANDI, EX ALLIEVA DEL NOSTRO LICEO CLASSICO